CAPITOLO 8 - GIORGIO CINGOLANI Antropologo e Regista

GIORGIO CINGOLANI
Antropologo e Regista
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CAPITOLO VIII
Modelli cultali di possessione e rituali coreutici di divinazione


In molte zone del mondo la malattia e il tipo di cura scelta per il suo trattamento possono evocare degli aspetti possiamo dire extraumani. Abbiamo visto nel precedente capitolo come nel contesto specifico Afar la magia e la stregoneria sono spesso chiamate in causa per spiegare certi tipi di afflizioni e allo stesso tempo per curarne gli effetti. Allo stesso modo possiamo vedere che una grande quantità di sintomi, specialmente per quanto riguarda le afflizioni femminili, sono imputabili ai cosiddetti spiriti di possessione. Per l’etnomusicologo francese Gilbert Rouget (1980) si tratta genericamente di disturbi che la persona accusa in seguito alla presenza di uno spirito che la tormenta. Tuttavia il concetto di possessione è piuttosto vago e può generare confusione.
Nella società occidentale a cultura giudaico-cristiana il termine possessione viene riferito esclusivamente alla possessione demoniaca e il trattamento dell’indemoniato richiede il ricorso alla pratica dell’esorcismo riservato a speciali sacerdoti.
In altri contesti culturali la possessione viene riferita a varie entità extraumane ed è trattata seguendo due diversi e possiamo dire opposti trattamenti. La possessione può essere “ritualizzata” assumendo il carattere di una pratica “positiva” nell’ambito di una cerimonia. Il fenomeno della possessione entra così a far parte di un vero e proprio culto tributato allo spirito possessore con il fine di placarlo o meglio ancora “domarlo”. L’antropologo americano Joan Lewis (1993: 1) parla in proposito di “culti di afflizione” riferendosi all’aspetto prevalentemente terapeutico della cerimonia. Di seguito egli fornisce una spiegazione all’emergere di questi culti:
“…such “cult of affliction” address psychosocial stress reactions affecting female identity and relations with the opposite sex in a wide range of contexts, and are, thus, highly dynamic, changing in their epidemiology as sources of such stress change1.”
Secondo la spiegazione socio-psicologica fornita da Lewis l’incidenza di culti di afflizione da possessione è in certo modo indice delle tensioni e dei conflitti sociali. In questo senso non si discosta molto dalla componente sociale riscontrabile nelle accuse di stregoneria. Tuttavia si deve tener presente che mentre l’accusa di stregoneria è rivolta generalmente ad un altro essere umano, l’accusa di causare l’afflizione della possessione è rivolta ad uno spirito extraumano. Lewis (1993: 51) sostiene che la possessione è un fenomeno che riguarda principalmente le donne. Talvolta i posseduti possono anche essere uomini ma sempre si tratta di individui in condizioni sociali subordinate. Sono quindi persone che vivono situazioni di deprivazione, frustrazione, marginalizzazione e subordinazione e che trovano nella possessione uno sbocco a queste tensioni psico-sociali e una sorta di terapia alla loro sofferenza.
Le malattie generalmente attribuite alla possessione da parte di spiriti possono essere incluse nella categoria dei disturbi psicosomatici o nervosi. In questo senso egli parla di “culti di afflizione”. Al centro di tutti i culti di possessione vi è comunque l’esperienza della trance o “stato modificato di coscienza2 (SMC) secondo la terminologia adottata dagli antropologi americani J. Lewis ed Erika Bourguignon.
Rouget (1980: 17) definisce la trance uno stato alterato di coscienza passeggero o come indica la parola stessa transitorio. Per entrare in uno stato di trance si abbandona il proprio stato abituale e dopo un certo tempo, variabile a seconda dei casi, si torna allo stato originario. Diversa l’esperienza dell’estasi che riguarda un certo tipo di stati alterati di coscienza raggiunti nel silenzio, l’immobilità e la solitudine. Un esempio di estasi può essere lo stato di annientamento (fana) in Dio cercato dai sufi tramite la pratica del dhikr individuale di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, ma anche lo stato di “samadhi” ossia di annichilimento al quale aspirano gli yoghi dell’India (Rouget 1980: 18).
La trance invece, va riferita a quegli stati secondi a cui si giunge unicamente in condizioni rumorose, agitate e in compagnia di altre persone. In questo senso la trance, come fa notare Rouget, si addice proprio agli stati di possessione, in quanto essi sono in genere accompagnate da musica e danze e comportano molto spesso fasi convulsive e di agitazione.

Nelle trance di possessione, dice Rouget (1980: 42):
“…si ritiene che, durante la trance, il soggetto abbia mutato personalità, e che quella di un dio, di uno spirito, di un genio, di un antenato, diciamo di una divinità, abbia preso possesso del suo corpo, sostituendosi a lui e agendo al suo posto…Il soggetto diventa, per un periodo di tempo più o meno lungo, il dio. Egli è il dio. Diremo che, in questo caso, si ha possessione nel senso stretto della parola.”  
Oltre a questo tipo di trance di possessione si possono riconoscere, sempre secondo Rouget (1980: 41) altre due tipologie in cui la trance si manifesta. La prima è quella che possiamo definire di ispirazione. In essa il soggetto è invaso dalla divinità o da una forza emanante da essa, che coesiste con lui dominandolo e facendolo parlare o agire in suo nome. È il caso delle trance attribuite alla presenza dello spirito santo, ma anche della trance divinatoria praticata nel mondo greco nel grande centro oracolare di Delfi, dove il dio Apollo “possedeva” la sua sacerdotessa, la Pythia, parlando attraverso lei. Come vedremo più avanti, anche la trance in opera nel corso della danza coreutica divinatoria del ginnili praticata dagli Afar è una trance ispirata.
La seconda tipologia è rappresentata dalla trance cosiddetta di comunione in cui non opera alcuna incarnazione. La relazione con la divinità è vissuta dal soggetto in transe come una rivelazione o un’illuminazione, o appunto come una comunione. È il caso della trance (wajd) ottenuta attraverso la pratica collettiva del dhikr presso i mistici musulmani sufi. Ricordiamo in proposito che per un musulmano (ma è lo stesso per un cristiano o un ebreo) è praticamente impossibile incarnare Allah o identificarsi in Lui. L’identificazione con la divinità è proprio la caratteristica essenziale dei culti cosiddetti di possessione il cui scopo principale è quello di scoprire qual è la divinità responsabile dell’afflizione e quindi d’identificarla ritualmente. L’identificazione permette di sapere come rivolgersi e comportarsi nei confronti della divinità e di stabilire quali sacrifici o rituali le spettano. In molti culti di possessione si giunge ad una vera e propria istituzionalizzazione della possessione con l’apertura di vere scuole d’iniziazione. In questi casi si viene a stabilire una sorta di alleanza tra la divinità e i suoi fedeli o adepti in base alla quale la divinità viene spinta ad esercitare il suo potere in favore del gruppo umano o a rinunciare ad usarlo contro esso.
Nel continente africano e soprattutto nell’Africa sud-sahariana la trance rituale di possessione è molto diffusa3. Con lo svilupparsi della tratta dei neri e degli schiavi verso le americhe e nell’Africa del nord essa ha avuto una rapida espansione manifestandosi attraverso forme che possiamo definire “sincretiche”.
I culti di possessione più studiati sono: il culto degli Yoruba, in Nigeria, dal quale è derivato il Candomblè brasiliano; il culto dei Vodun, praticato dai Fon del Benin (ex Dahomey), dal quale ha avuto origine il Vodoo haitiano; il culto di Holey, presso gli Songhay della Nigeria; il culto dei Bori, praticato in Nigeria e in Niger;
infine il culto degli Zar in Etiopia, che andiamo a descrivere. Premettiamo che le cerimonie dello zar rivestono un ruolo importante tra gli Afar per il loro legame con la pratica divinatoria che essi chiamano con il nome “kalluwallé” e con il rituale che accompagna la danza coreutica, anch’essa divinatoria, del ginnili. Tuttavia tra gli Afar che abitano le zone isolate e desertiche dell’interno non si effettua la forma rituale istituazionalizzata che stiamo per descrivere. Prevalgono “semplici” cerimonie degli zar che non danno vita a forme d’iniziazione al culto. Gli zar non sono altro che i ginn antropomorfici di cui abbiamo già avuto occasione di parlare nel corso della nostra trattazione. Con il termine zar si definiscono sia gli spiriti che l’afflizione che causano. Dice Lewis (1993: 52):
Sono noti generalmente come sar (in etiopico zar)  una parola che descrive sia gli spiritelli stessi che il sintomi loro attribuiti. La vittima afflitta è descritta come se fosse stata “penetrata”, “catturata”, o “posseduta” dal zar.”
Gli spiriti zar sono considerati di stirpe umana e storicamente definiti. Il mito d’origine degli zar li fa risalire agli albori della creazione secondo la versione biblica. Esso ci viene riferito da Michel Leiris (1958: 13). Secondo il racconto mitico Eva aveva dato alla luce il suo trentesimo figlio e temeva l’invidia di Dio. Così quando Dio volle vederli, Eva nascose il quindicesimo dei suoi figli che era il più bello. Dio allora per punizione decretò che quello che era stato nascosto rimanesse nascosto per l’eternità divenendo uno zar con potere di controllare i suoi fratelli umani.
Joseph Tubiana in uno studio dedicato al culto degli zar presente nel testo curato da Lewis “Women’s medicine: the zar-bori cult in Africa and beyond” (1991: 29), definisce gli zar attribuendo loro determinati attributi. Egli sostiene che gli zar sono invisibili e che possiedono determinati nomi, caratteri, temperamenti, abiti, usanze, origini e storia che sono propri ad ognuno di loro. In genere risiedono in un luogo preciso spesso conosciuto dagli esseri umani che per questo lo ritengono pericoloso. Possono parlare linguaggi umani e possono avere figli dei quali si prendono cura. Vi sono zar femmine e zar maschi. Tutti gli zar sono collocati in un pantheon strutturato in maniera gerarchica (somigliante alla vecchia struttura monarchica etiope incentrata sulla figura del Negus).
All’interno del pantheon perciò vi sono zar più importanti e meno importanti. Vi si trovano santi e guerrieri, padroni e servi ecc… Interessante notare che vi sono anche “zar buda”. In questo senso Tubiana (in Lewis 1991: 30) precisa che tra zar e buda vi è una totale ostilità. In forma di iena infatti i buda attaccano gli zar per mangiarli. Inoltre hanno caratteristiche diverse, spesso opposte.
Egli sottolinea che lo zar buda non è altro che uno spirito zar posseduto da un buda. Poi spiega la presenza di zar-buda nel pantheon degli zar dicendo:
“…the society of the zars is the image of the society of men which parallels it. When one considers the zar budas, the novelty is that the society of zars reproduces ethiopian society fully and comprehensively, including its outcasts. From the moment that ethiopian society has its evil budas, the society of zar will have its budas, but adapted to the customs of zar, that is to say without wickedness4.”
Lewis (1993: 57) sostiene anche che gli zar sono particolarmente avidi di abbigliamenti di lusso, gioielli e beni prelibati. Essi sono attratti anche da buoni odori e profumi. In particolare l’odore del caffè ha un potere attrattivo molto forte sugli zar e la sua presenza è sempre richiesta per la celebrazione di sedute rituali.
Da un punto di vista storico l’origine degli zar in Etiopia è piuttosto difficile da stabilire. Lewis (1991: 11) sostiene che il termine zar sia d’origine pre-cristiana e pre-islamica. Esso deriverebbe da uno dei nomi dell’Essere Supremo dell’antica “religione cuscitica”.
Sembra certo che il culto sia nato in Etiopia e si sarebbe poi diffuso in Egitto, Sudan e Somalia seguendo le vie del commercio degli schiavi che partivano dall’Africa Orientale. L’origine del culto però, non può essere datata con certezza. Secondo le fonti reperite da Lewis (1991: 11) la sua presenza era già attestata nel 1820 in Sudan e poco tempo dopo in Egitto. Ciò farebbe presupporre che il culto fosse già diffuso in Etiopia nel XVIII secolo. Tuttavia un ruolo decisivo nel suo sviluppo e nella sua diffusione può essere accreditato alla sempre più dilagante influenza dell’Islam e del Cristianesimo tra le popolazioni dell’area etiope. In  Etiopia infatti, il culto degli zar è praticato sia in ambito cristiano che in ambito musulmano.
Secondo Lewis (1991: 12) l’Islam potrebbe avere un ruolo importante anche nella sua creazione. L’influenza dell’Islam è evidente per il fatto che la prima di sette categorie di spiriti nel pantheon degli spiriti zar è costituita di santi sufici. Di provenienza islamica sono anche gli inni cantati all’inizio e al termine delle sedute e l’uso del termine “shaikha” per il leader del culto in luogo del termine “alaqa” usato dai cristiano-copti etiopi. Altro influsso islamico riguarda l’uso della parola “hadra” che deriva dalla pratica rituale del dhikr, per denominare la seduta zar e il fatto di associare cerimonie degli zar con la visita alle tombe dei santi sufici.
Altri elementi di derivazione islamica compaiono nel corso della cerimonia. Mi riferisco in particolare all’uso rituale del caffè e della pianta stimolante qat della quale abbiamo parlato nel precedente capitolo. Riguardo al caffè, Tubiana (in Lewis 1991: 31) informa che durante il regno del Negus Menelik, bere caffè era proibito ai cristiani perché ritenuto un segno di adesione all’islam.
Accanto all’influsso islamico è cresciuto nel tempo quello cristiano. Riferisce sempre Lewis (1991: 12) che nel pantheon degli zar compare una classe di spiriti zar conosciuta come “casa del lato destro” di derivazione cristiana. Molti santi e imperatori cristiani sono stati trasformati in spiriti zar. Si tratta dunque di un culto che presenta l’unione possiamo dire “sincretica” di modelli culturali di varia provenienza. Il culto degli zar rappresenta una forma istituzionalizzata della possessione da parte degli spiriti zar.
Gli zar infatti, intervengono anche al di fuori del rituale comparendo spesso nella vita quotidiana a giustificare sventure e malattie, ma anche gesti, umori e atteggiamenti. Quando inserita nella sua forma cultuale, la possessione degli zar prevede una vera e propria iniziazione dei pazienti al culto. Naturalmente vi sono molte varianti di culti zar. Un tipo di prassi iniziatoria con la descrizione dello svolgimento rituale è ben analizzata da Michel Leiris (1958) che ha assistito personalmente a cerimonie zar nella città etiope di Gondar uno dei centri più importanti del culto in area cristiano-copta. Secondo il suo resoconto il guaritore istruisce il novizio sulle forme stereotipate, fissate dalla tradizione, in base alle quali si manifestano le crisi. Egli insegna al neofita il modo corretto di eseguire il “gurri” che rappresenta il momento caratteristico della trance di possessione e che consiste in una serie di movimenti violenti accompagnati da emissioni rumorose di fiato. Il “gurri” varia a seconda degli zar e per alcuni di essi non si manifesta.
Oltre che al “gurri” i neofiti vengono istruiti sull’atteggiamento da tenere nel corso della cerimonia. Gli zar sono invocati nel corso di riunioni notturne chiamate “wadaga” in cui i novizi eseguono il gurri accompagnati da canti e dal suono di tamburi. All’interno di ogni confraternita di adepti vi è una precisa gerarchia di posizioni in base alla quale vengono collocati gli zar. Gli spiriti occupano una posizione che rispecchia l’importanza del sacrificio (derka) loro tributato. L’iniziazione si completa dopo una serie di “wadaga”.
Alla fine del ciclo di sedute il paziente può considerarsi a tutti gli effetti un iniziato al culto dello zar che lo ha posseduto e si può considerare praticamente  guarito. La cura si basa sull’intervento diretto del guaritori che attraverso il rituale coreutico riescono a mettersi in contatto con lo spirito possessore raggiungendo un intesa e inducendolo a possedere regolarmente il suo paziente. Leiris (1958) sottolinea come l’assegnazione di uno zar conferisce un modello preciso d’identità all’individuo posseduto.
A ciò contribuisce anche il rapporto particolare che si instaura tra paziente e guaritore. Una volta iniziato al culto egli quando si recherà presso altre confraternite dovrà sempre presentarsi con il nome del proprio zar e del suo guaritore. È importante sottolineare il legame che questi culti presentano con la vita sociale.
Le possessioni da parte degli zar hanno un andamento periodico coincidente con i momenti dell’anno più fecondi da un punto di vista delle relazioni sociali. I rituali sono legati in genere alle occasioni ufficiali festive. Talvolta però, interviene anche in occasioni non ufficiali ma legate a rituali di grande importanza nella vita sociale del gruppo. Più di tutto però, essi offrono alla maggioranza femminile che li pratica una sorta di deterrente alla loro posizione subordinata e priva di sbocchi in una società dominata dai maschi.
Tra gli Afar al di fuori della pratica delle cerimonie cultuali degli zar vi sono altre manifestazioni della possessione da parte di entità spirituali. Mi riferisco ad un tipo di possessione da parte di ginn malvagi della quale parla Chailley (1980. 95). Per liberare l’individuo colpito da questa forma di possessione dagli spiriti che lo tormentano si ricorre alla pratica dell’esorcismo. L’esorcismo viene effettuato sia con l’aiuto del Corano, sia con l’aiuto di amuleti.
Nel primo caso il posseduto deve rimanere in piedi mentre colui che pratica l’esorcismo si pone al suo fianco recitando all’orecchio del malato dei versetti del Corano5. Il “paziente” deve a sua volta rispondere recitando altri versi coranici fino a quando lo spirito non acconsente ad uscire dal corpo umano dettando le sue condizioni.
Ad esempio può richiedere che sia compiuto il sacrificio di una capra di un determinato colore.
Tuttavia la più importante manifestazione del modello della possessione tra gli Afar è legata, come già detto, a rituali coreutici di divinazione. Occorre premettere che gli Afar accanto alle forme divinatorie rituali, praticano anche forme di divinazione basate su segni astrologici e geomantici. Abbiamo già parlato nel quinto capitolo delle conoscenze astrologiche in possesso degli individui più anziani del gruppo e del loro utilizzo per stabilire i periodi astrologicamente propizi per la celebrazione di riti (in particolare matrimoni) o per particolari avvenimenti d’interesse sociale.
Questi metodi sono parzialmente improntati sul calendario lunare arabo e sull’astrologia e la magia arabe. Didier Morin (1991: 119) riferisce che gli Afar praticano una forma di divinazione chiamata “ràmrì” che consiste nel tirare a sorte trentaquattro sassi appositamente predisposti e contraddistinti da segni.
Questo tipo di divinazione rientra nella tipologia delle predizioni basate sul principio divinatorio che trasforma i fatti casuali in “segni” (si tratta, come dice Brelich (1995: 52), della cosiddetta “cleromanzia”). Ancora in Morin (1991: 25) troviamo menzione di un’altra forma di predizione questa volta associata alla figura del sultano dell’Aussa (Anfari). Dalle notizie da lui riferite sembrerebbe si tratti della forma di divinazione di derivazione islamica basata sul rosario (tusbah in arabo) delle confraternite di dervisci :
Le sultan de l’Awsa détenait un chapelet inaytà (de inà “mère”, inaytà désignaint l’arbitre d’une compétition, celui dont on attend la décision) permettant de prédire l’avenir6.”
In ogni caso queste pratiche divinatorie, spesso riservate all’uso domestico, non hanno il prestigio della vaticinazione rituale usata per le predizioni riguardanti la pioggia, o l’esito della ricerca di pascoli e della guerra, la cosiddetta “danza del ginnili”.
Si tratta di un rituale coreutico divinatorio che è forse l’esempio più eclatante della resistenza di modelli culturali pre-islamici. Per la descrizione dettagliata di questo importante rituale facciamo riferimento soprattutto al testo di Didier Morin (1991) incentrato proprio sull’analisi di questa “danza divinatoria”. Egli sostiene (1991: 25) che il prestigio conferito dagli Afar a questo rituale deriva essenzialmente da due fattori: il fatto di riguardare situazioni di fondamentale importanza per l’esistenza stessa del gruppo e il fatto di essere celebrata in forma cantata e versificata, considerata dagli Afar come la forma superiore dell’eloquenza.
Prima di inoltrarci nell’analisi dettagliata della “danza del ginnili” dobbiamo delineare le forme in cui si manifesta un altro modello di divinazione ritualizzata che è ad essa legata, il cosiddetto “kalluwallé”. Un primo riferimento a questa pratica divinatoria lo troviamo in Marcel Chailley (1980: 96). Secondo il suo resoconto i rituali di divinazione del kalluwallé e della danza del ginnili sono due aspetti della “malattia” di possessione che gli Afar chiamano “dar”.
Il termine dar, dice Chailley, è l’equivalente tra gli Afar di zar.
Il riferimento è quindi alla possessione degli spiriri zar. Egli sostiene che la divinazione da lui denominata “dar kalluwallé” può essere eseguita solamente da donne, mentre la danza del ginnili (dar ginnili) riguarda solo gli uomini. Entrambe sono accompagnate da movimenti convulsivi e conducono ad uno stato di trance durante il quale avviene la predizione. Di seguito Chailley (1980: 96) fornisce le seguenti indicazioni:
Ce sont surtout les femmes qui peuvent entrer en transes, à des périodes déterminées: on peut, cependant, provoquer les crises par certaines danses (horra), la femme perd connaisance, puis répond aux questions que lui pose l’assistance. Le dar serait transmissible, par un certain nombre de massages et de passes plus ou moins magnétiques: le sujet dois, autant que possible, etre une jolie jeune fille. Les cas des possession masculine par le dar sont moins fréquents: les hommes qui en sont atteints sont honorés ils sont vetus de neuf, leur chevelure est beurrée, une chaine de cuivre est passée à leur cou. On leur demande la permission de les interroger. Le campement se réunit, chante, bat des mains, joue du tambour jusqu’an moment où le possédé se decide à lire l’avenir7.”
I dati fornitici da Chailley sono troppo scarni per riuscire a stabilire una vera differenziazione tra i due atti rituali (kàlluwalle e danza del ginnili). Risalta solo l’elemento della differenziazione sessuale e l’eccezionalità di casi di possessione maschile a conferma del fatto che la possessione è una questione, o meglio un’afflizione, che riguarda prevalentemente la sfera femminile. Troppo poco però, per giungere a conclusioni plausibili sulla funzione della cerimonia e sulle occasioni in cui viene effettuata. Morin (1991: 23) fornisce un resoconto molto più approfondito. L’importanza dello studio di Morin consiste soprattutto nell’aver chiarito i veri scopi del rituale divinatorio. Tutti gli autori che ne hanno fatto menzione precedentemente non sono mai stati in grado di definire in modo preciso la funzione della danza del ginnili e le occasioni in cui viene celebrata. Grazie a lui si è potuto stabilire che la danza del ginnili è una pratica rituale divinatoria legata alla guerra e alla pastorizia nomade, ossia due dei punti cardine dell’identità culturale e sociale degli Afar. Le predizioni fatte dal ginnili nel corso della cerimonia riguardano quindi gli esiti di una battaglia che si sta per intraprendere e gli esiti della ricerca di nuovi pascoli o dell’arrivo delle piogge.
La validità della fonte alla quale egli ha attinto le informazioni sul rituale rende attendibile la sua ricostruzione8.
Per prima cosa egli inizia facendo un’analisi linguistica dei termini “ginnili” e “kalluwallé”. Ciò permette di rilevare subito alcuni elementi importanti dei due rituali divinatori. Il termine ginnili viene tradotto da Morin sia come “colui che ha i demoni” sia come “colui che ha a che fare con i demoni”. Con il nome ginnili quindi viene identificato colui che opera la premonizione. Se seguiamo l’analisi di Morin (1991: 23) vediamo che il nome “ginnili” può essere scomposto in due parti: “ginni” è un termine che deriva dall’arabo, ed è un nome collettivo che rimanda alla comunità degli spiritelli antropomorfici cosiddetti ginn. Da “ginni” nasce il singolare “ginneytà” che identifica il demone femminile protettore del vaticinatore e figura essenziale per il rituale coreutico del ginnili. È alla ginneytà che si rivolge il ginnili chiamandola “ya-cas-annà” ossia la “mia zia rossa9”.
“li” è un suffisso maschile che viene impiegato sia per indicare un appropriazione di qualcosa, sia che si ha a che fare con qualcosa.
Il termine kalluwallé viene scomposto così:  kàllu + wan + le. Secondo l’interpretazione linguistica fornita da Morin, “kàllu” significa “campana” e rimanderebbe anche a “suono”, “voce”; “wan” significa “suono” (della bocca); il suffisso femminile “le” indica invece l’appropriazione di qualcosa. Il termine kalluwallé quindi avrebbe all’incirca questo significato: “colei che ha il suono (voce) e la campana”. Il significato del nome rimanda agli elementi caratteristici della pratica di questo rituale divinatorio. Morin (1991: 23) informa che il rituale coreutico di divinazione del kalluwallé si basa sull’impiego di una campanella da parte della donna impegnata nella vaticinazione. Rispetto al resoconto fornito da Chailley (1980: 96) possiamo già fare alcune precisazioni. Morin conferma che il ruolo di vaticinatore nel rituale coreutico divinatorio detto kalluwallé spetta ad una donna. È ciò che scaturisce anche dall’analisi del nome stesso del rituale, come abbiamo appena visto. Per quanto riguarda il ruolo di ginnili invece, egli fornisce un’indicazione che però non chiarisce in maniera precisa la questione (1991: 23):
L’accès à la fonction de devin, dans la société afare, ne parait pas soumis à des conditions de naissance. Le ginnili n’est issu d’aucun groupe socialement déterminé. C’est d’abord la tribu, puis un public de plus en plus large, à mesure que leur renom s’étend, qui reconnait à certains hommes et à certains femmes la qualité de ginnili ou de kalluwallé10.”
Secondo quanto afferma Joan M. Lewis (1955: 173) il ruolo del ginnili non è un esclusiva maschile:
Jenile are seers who make prophecies in response to questions put to them while under the influence of the dance. They are ordinary men or women with no special position in the tribe11.”
Tuttavia non sembrerebbe improbabile una differenziazione sessuale dei due rituali come sostiene Chailley (1980: 96) alla luce anche della specificità e dell’importanza della predizione del ginnili. Dai due passi sopra citati si ricava anche un’altra importante informazione, ossia che il ruolo di ginnili non sarebbe rivestito da un individuo che occupa una posizione speciale all’interno del gruppo. È la “tribù” di appartenenza che riconosce a certi individui particolari qualità “superiori” e contribuisce a diffondere la loro fama di divinatori.
Altro punto di fondamentale importanza è capire che tipo di possessione è in gioco in questi rituali di divinazione.
Riguardo alla “danza del ginnili”, Morin (1991: 24) sostiene che si tratta di una forma di divinazione ispirata. Per affermare ciò egli si rifà alla classica divisione fatta da Bouché-Leclercq (“Histoire de la divination dans l’antiquité” Paris 1879-82) tra la divinazione per ispirazione interiore legata ad un luogo, come nel caso della pythia di Delfi, e quella legata alla persona del divino, come la sibilla che parla in nome del dio. In base a questa suddivisione Morin (1991: 24) dice che il ginnili si trova in una situazione intermedia poiché la sua predizione avviene sotto la protezione del suo demone, in un luogo e in un tempo ben precisi. La divinità non si sostituisce a lui.
Essa invade il corpo del ginnili e lo fa agire e parlare in sua vece coesistendo con lui. In questo senso il ginnili sarebbe, possiamo dire, una sorta di medium in rapporto con la sfera degli esseri sovrumani e in particolare con la ginneyta. Per quanto riguarda il rituale del kalluwàlle, non siamo in possesso di informazioni specifiche. Dicevamo prima che il rituale di vaticinazione del ginnili rappresenta una resistenza delle forme di religiosità pre-islamiche. Tuttavia un certo adattamento all’Islam è stato necessario. Si tratta però, di un’influenza di superficie che lascia immutati tutti gli elementi rituali tradizionali. Sia il ginnili, sia la ginneyta, secondo Morin (1991:24), discenderebbero direttamente dalle figure che operavano nel modello rituale preislamico, ossia qarin demone sovrumano e kahin il divino da lui ispirato che predice coperto da una pelle d’animale, come il ginnili. La forma con cui viene praticata la cerimonia è rimasta pressochè intatta nonostante l’Islam.
La sua sopravvivenza anche in zone in cui l’Islam è penetrato anticamente può essere spiegata con la formula che viene recitata dal ginnili durante il rituale: “amò baysa Rabbì yab baysah yanì”, ossia “Dio che arresta la vita può rendere il mio dire caduco”.
Questa frase può essere interpretata letteralmente come un atto di sottomissione ad Allah e al suo volere. In questo modo non vengono contraddetti né il dogma dell’unicità del Dio islamico, né la sua autorità assoluta. Passiamo ora alla descrizione del rituale. Gli Afar non hanno un nome preciso per designare la cerimonia divinatoria nel suo insieme. Tuttavia sulla base di quanto riportato da Morin (1991: 51) possono essere distinte tra parti sempre presenti in tutti i rituali divinatori: abana, yabissò e adal.
La prima parte è una sorta di introduzione in cui viene annunciata la vaticinazione. Il termine abana significa “essi fanno” e sarebbe riferito al fatto che i vaticinatori stanno per fare la predizione. Lo yabissò è la seconda parte del rituale. Consiste in una sorta di incitamento a parlare rivolto al ginnili. La terza parte è l’adal e consiste nel momento in cui viene fatta la predizione. Seguiamo la descrizione della parte iniziale della cerimonia fatta da Morin (1991: 51):
Les hommes forment un cercle, au milieu duquel le ginnili se placera, jusqu’à etre pratiquement enveloppé par ceux-ci, épaules contre épaules, et dissimulé aux regards des assistants qui forment un second cercle plus lache. Auparavant de l’herbe fraiche a été disposée, là où se tiendra le devin, sur laquelle on a étendu une peau de chèvre ou de mouton, et parfois un morceau de tissu. Pendant que le ginnili se lave, fait ses ablutions, s’oint et revet un pagne de soie, le cercles des guerriers enchaine quatre chants du genre saré (louange) dont l’exécution n’est pas réservée à ce rituel…12
I guerrieri che formano il cerchio danzano rimanendo compatti e muovendo soltanto la parte superiore del corpo. I movimenti sono accompagnati da canti e battiti di mani. Compiute le sue abluzioni il ginnili entra nel cerchio coprendosi la testa con il suo abentà13 e intona l’abana. Durante la recitazione dell’abana egli si muove alla maniera dei guerrieri. Quando la predizione riguarda l’esito di una battaglia, il ruolo del ginnili in questa parte del rituale è quello di stemperare eventuali stati di tensione tra i guerrieri del gruppo scherzando con loro per far in modo di garantire una certa forza di coesione in vista del combattimento.
Subito dopo canti e battiti di mani cessano e inizia la seconda parte del rituale ossia la yabissò (Morin 1991: 53):
L’un des partecipants s’assied sur une pierre et s’adresse au ginnili, en lui parlant sur un rythme extremement rapide pratiquement incompréhensible14.”
Riprendono i canti in vista dell’ultima parte del rituale, l’adal.
I movimenti di danza dei guerrieri aumentano di ritmo, così come i canti e i battiti di mani. Il ginnili inizia la sua predizione e risponde alle domande (sabò) dei partecipanti. Un fatto importante che sottolinea Morin (1991: 52) è che il ginnili non entrerebbe in un vero e proprio stato di trance, anzi secondo quanto da lui riferito, egli resterebbe completamente cosciente per tutta la durata della seduta. Tuttavia si tratta pur sempre di una divinazione ispirata.
La ginneyta “invade” il corpo del ginnili, parla e agisce in sua vece e al tempo stesso lo protegge. Il ginnili infatti per il suo tramite entra in contatto con le forze invisibili extraumane il cui influsso e localizzazione, come abbiamo avuto modo di vedere nei capitoli precedenti, sono complesse. Secondo quanto riportato da Morin (1991: 26-27) la ginneyta a differenza delle altre entità sovrumane non interviene nella vita quotidiana degli uomini. Appartiene al mondo dei ginn ma le sue caratteristiche sono diverse. Non è ingannatrice, non si traveste e non si incarna nelle persone se non nel ginnili e solo durante le occasioni rituali. La ginneyta non rappresenta una minaccia per l’uomo. È quindi la protrettrice ideale per il ginnili.
Come abbiamo già detto la grande importanza che riveste la “danza del ginnili” per gli Afar deriva oltre che dalla rilevanza sociale degli argomenti su cui si effettua la predizione, anche dalla forma cantata e versificata in cui viene celebrata. Per gli Afar il “verso” è la forma più elevata dell’eloquenza. Dice Morin (1991: 93):
Faire des vers (gad ab, littéralement “faire gad”) signifie, pour les Afars, produire ou reproduire des bouts rimés chantés sur un rythme et une mélodie convenus15.”
La poesia (adar in Afar) è riservata solo a determinati momenti e in particolare la notte. È durante quelle che Morin chiama veglie notturne (kassow) che si svolgono le tenzoni oratorie (sadda) tra i giovani. Si tratta in genere di poesie d’amore intonate in toni scherzosi: canti di lode delle spose o canti amorosi che si svolgono secondo lo schema della tenzone scherzosa. Tuttavia la poesia non è tanto un fatto di composizione, ma soprattutto di rinnovamento  del ricordo di versi tradizionali appartenenti alla memoria collettiva del gruppo. Dice ancora Morin (1991: 94):
“…c’est ainsi d’abord se remémorer les vers des autres et prendre sa place dans une “chaine” poétique ininterrompue, parallèle à la chaine initiatique des mystiques16”.
Gli Afar riservano la poesia a momenti di pace. Tuttavia anche se la predizione fatta dal ginnili è generalmente legata alla pratica della guerra la tecnica usata per la sua celebrazione è la stessa.
Il linguaggio che egli adopera è un linguaggio poetico basato sulla cadenza e la melodia e quindi sul ritmo. L’enunciazione delle tre parti del rituale però sono fissate dalla tradizione. Come per la poesia perciò, si tratta di tramandare oralmente testi fissati una volta per tutte dai predecessori. Soltanto in occasione della predizione vera e propria viene aperto uno spiraglio all’improvvisazione del ginnili.
In proposito Morin (1991: 113) afferma che:
Chez les Afars où, historiquement, c’est le corps social tout entier qui sanctionne le poète, en retenent ou en oubliant sa production, le récitant est d’abord le “porte-parole” de la mémoire collective d’une tradiction poétique unique formant le creuset où se fondent toutes les créations individuelles.17
Anche il ginnili come il poeta è l’anello di una catena della memoria collettiva. In questo caso però, si tratta come dice Morin (1991: 116) di una catena più fragile in perpetuo rischio di essere interrotta dal suo stesso oggetto: la guerra.

NOTE

1 “…tali “culti d’afflizione” vanno riferiti a stress e reazioni psicosociali riguardanti l’identità femminile e le relazioni con il sesso opposto in un ampio raggio di contesti, e sono dunque altamente dinamici, cambiando nella loro epidemiologia quando cambiano le origini di tali stress.”

2 Per gli stati modificati di coscienza vedi Georges Lapassade “Les états modifiés de coscience”, Paris 1987, traduzione italiana “Stati modificati e transe”, Roma 1993.

3 La presenza del fenomeno della trance di possessione è ampiamente diffusa non solo in Africa ma in tutto il mondo mediterraneo ed anche in Asia.

4 “… la società degli zar è l’immagine della società degli uomini alla quale è parallela. Quando si considerano gli zar-buda, la novità è che la società degli zar riproduce pienamente la società etiope incluse le sue basse caste. Dal momento che la società etiope ha i suoi cattivi buda, la società degli zar avrà i suoi buda ma adattati ai costumi degli zar, che sarebbe a dire senza malvagità.”

5 Difficile stabilire di quali versi del Corano si tratti visto che l’autore non fornisce alcuna indicazione al riguardo. Alla stesso modo in molte altre occasioni rituali che prevedono l’uso di passi tratti dal Corano gli autori dei resoconti generalmente non chiariscono quali passi siano usati.

6 “Il sultano dell’Aussa detiene un rosario inaytà (da inà “madre”, inaytà designante l’arbitro di una competizione, colui dal quale si attende una decisione) che permette di predire il futuro.”

7 “Sono soprattutto femmine che possono entrare in trance in determinati periodi: comunque, si possono provocare delle crisi attraverso certe danze (horra), la donna perde conoscenza, poi risponde alle domande che le pono l’assistente, Il dar è trasmissibile tramite un certo numero di massaggi e di passi più o meno magnetici: il soggetto deve, se possibile, essere una giovane spensierata ragazza. I casi di possessione maschile causati dai dar sono meno frequenti: gli uomini che ne sono colpiti vengono onorati, sono vestiti a nuovo, la loro capigliatura è imburrata, una catena di rame viene avvolta al loro collo. Si domanda loro il permesso di interrogarli. L’accampamento si riunisce, canta, batte le mani, suona i tamburi, fino al momento che il posseduto si decide a predire il futuro.”

8 Si tratta di Hamad-Lacdé appartenente alla frazione dei Debné, Harka-m-mela Arbahintò che forniva la discendenza dei sultani del Gobacàd, nella zona di Tagiura (Repubblica di Gibuti) destituiti dai francesi nel 1931. Grazie al suo aiuto Morin ha potuto tradurre ed  interpretare la registrazione di una cerimonia divinatoria di ginnili effettuata presso gli casasolé nel 1967.

9 Il termine “rosso” è sempre impiegato con funzione valorizzante presso gli Afar. Inserire la parola “rosso” negli appellativi è un segno di rispetto e di valore. Ricordiamo in proposito l’appellativo cAsahyammàra, ossia “uomini rossi” che, all’interno di uno schema binario che li vede contrapposti agli cAdohyammàra o “uomini bianchi”, identifica in certo modo la parte ritenuta più “nobile” della popolazione Afar.

10 “L’accesso alla funzione di divino, nella società afar, non sembrerebbe sottomessa a condizioni di nascita. Il ginnili non è nato da alcun gruppo socialmente determinato. È dapprima la tribù, poi un pubblico sempre più vasto, man mano che la loro fama si estende, che riconosce a certi uomini e a certe donne la qualità di ginnili o di kalluwallé.”

11 “I ginnili sono profeti che fanno profezie in risposta a domande poste loro mentre sono sotto l’influenza della danza. Essi sono uomini o donne ordinarie, senza nessuna speciale posizione nella tribù.”

12 “Gli uomini formano un cerchio, in mezzo al quale si porrà il ginnili, fino ad essere praticamente avviluppati tra loro, spalle contro spalle, e nascosto agli sguardi dei partecipanti che formano un secondo cerchio più largo. Prima, dell’erba fresca viene posta la dove di siederà il divino, sopra la quale si stende una pelle di capra o di montone e talvolta un pezzo di stoffa. Nel frattempo il ginnili si lava, fa le sue abluzioni, si unge e indossa un perizoma di seta, il cerchio dei guerrieri intona quattro canti di genere saré (lodi) la cui esecuzione non è riservata a questo rituale…”

13 Si tratta di un manto di origine abissina e abitualmente portato dagli Afar piegato sulle spalle (Morin 1991: 121).

14 “Uno dei guerrieri si siede su una pietra e si avvicina al ginnili parlandogli ad un ritmo estremamente rapido,  praticamente incomprensibile.”

15 “Fare dei versi (gad ab, letteralmente “fare gad”) significa, per gli Afar, produrre i riprodurre dei pezzi rimati e cantati su un ritmo e una melodia convenuti.”

16 “…si tratta soprattutto di ricordare i versi degli altri e prendere il proprio posto nella “catena” poetica ininterrotta parallela a la catena iniziatica dei mistici.”

17 “Presso gli Afar dove, storicamente, è il corpo sociale nel suo insieme che sanziona il poeta, ritenendone o obliandone la produzione, il recitante è prima di tutto il “porta-parole” della memoria collettiva di una tradizione poetica unica formante il crogiolo in cui si fondono tutte le creazioni individuali.”
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