CAPITOLO 7 - GIORGIO CINGOLANI Antropologo e Regista

GIORGIO CINGOLANI
Antropologo e Regista
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CAPITOLO VII
Gli Afar tra modelli culturali preislamici ed islamici


VII.1.) Il modello “superficiale” islamico

Abbiamo già osservato e sottolineato nei precedenti capitoli l’importanza della precoce islamizzazione degli Afar iniziata già nel IX secolo, almeno per quanto riguarda le popolazioni dislocate nelle zone costiere. Abbiamo anche detto che il processo di diffusione dell’Islam e cioè di un modello di organizzazione simbolica forte e strutturata, verso le zone più interne ha seguito le rotte carovaniere di merci e schiavi dirette verso il sud dell’Arabia, avvalendosi della costituzione di sultanati come intermediari musulmani sul territorio. Queste semplici premesse rendono ovvio il processo di mutamenti in senso islamico di un modello “tradizionale” che a questo punto risulta spinto molto indietro nel tempo. Cominciamo comunque con alcune considerazioni di carattere generale. Secondo lo storico africanista Trimingham Spencer (1980: 60) il processo di diffusione dell’Islam in Africa Orientale può essere riassunto in tre fasi principali: germinazione, crisi e graduale riorientamento.
Nella prima fase l’Islam coesisterebbe parallelamente ai modelli culturali preislamici. In un secondo momento si noterebbe un apparente declino di molti riti tradizionali che però, rimangono disponibili per momenti di crisi e di emergenza. Nella terza fase le istituzioni sociali e religiose sarebbero profondamente islamizzate. Questo modello può essere applicato soltanto in parte agli Afar. Secondo il quadro tracciato nei precedenti capitoli e sulla base dei dati storici in nostro possesso la terza fase non è stata mai stata raggiunta da alcuna popolazione Afar.
L’Islam infatti, si è diffuso fra di essi, così come nel resto dell’Africa Orientale, mantenendo i caratteri propri di una “religione straniera”. Ciò è dovuto in primo luogo alla resistenza di modelli culturali preislamici. Il risultato dell’incontro fra l’Islam e la situazione religiosa preislamica Afar è stato si può dire una “contaminazione” ma non una vera e propria sintesi. L’Islam è rimasto in superfice quasi come una superstruttura su un sottofondo rappresentato da modelli culturali e ritualità “tradizionali”.
Osserva ancora Trimingham Spencer (1980: 70) che si tratta dell’impatto di una religione monoteistica basata su una rivelazione storica (cioè sull’azione diretta di Dio, entità trascendente e onnipotente, sulla storia) su modelli simbolico religiosi che, possiamo dire, appaiono più “sciolti” e rimandano a situazioni culturali di stampo anche “prepoliteistico1”. Un primo fondamentale cambiamento è quello che riguarda l’adozione di un nuovo concetto di Dio. Abbiamo già detto nei capitoli precedenti che le religiosità Afar preislamica prevede la credenza in un Essere supremo celeste identificato con il nome Figu2.
Pur non avendo i caratteri propri di un Dio di una religione monoteistica, la presenza di questa figura extraumana di Essere supremo celeste ha reso più facile l’assimilazione del Dio assoluto ed esclusivo dell’Islam, Allah. La nuova concezione di Dio ha provocato cambiamenti importanti soprattutto sulle credenze legate alla morte e alla vita dopo la morte. L’idea islamica di una punizione nella tomba e dopo la vita ha influenzato i rituali funerari degli Afar dove le norme islamiche hanno oscurato le forme rituali tradizionali (Trimingham Spencer 1980: 78). L’Islam avrebbe, secondo Trimingham Spencer (1980: 70), portato gli Afar e gli altri popoli africani islamizzati, nella storia3. Conseguenza diretta è l’elaborazione di genealogie spesso risalenti a personaggi o a mitici antenati arabi come nel caso di Hadalmahis di cui abbiamo già parlato. Cambia anche il modo di concepire il tempo in seguito all’adozione del calendario arabo basato sulla divisione dell’anno in mesi lunari. Tuttavia come abbiamo già detto, l’Islam rappresenta per gli Afar un modello culturale di “superficie”. L’islamizzazione degli Afar si presenta come un processo di acculturazione effettuato attraverso la convergenza di istituzioni sociali e di modelli culturali tradizionali in corrispondenti istituzioni islamiche senza che il passaggio sia veramente chiarito. L’Islam deve la sua diffusione al fatto di essere stato leggero, tollerante e non integralista. Secondo quanto riferito da Lewis (1955: 172) e confermato da Chailley (1980: 93) l’Islam è penetrato in maniera variabile tra gli Afar. Sulla costa e nei centri abitati della Dancalia si possono trovare numerose moschee e le modalità di culto sono praticate in maniera più rigorosa. Sempre secondo le notizie riferite da Chailley (1980: 94) e Lewis (1955: 172) nella maggior parte delle “città” dancale avrebbero riscontrato un certo successo modelli di tipo sufico, ma le indicazioni sulle confraternite (Tai’fa4) più diffuse sono piuttosto scarne. Nelle zone desertiche dell’interno i modelli cultuali cambiano. Solo in alcuni distretti interni come quello dell’Aussa e presso i gruppi dislocati sulle montagne di Gouba e Mabla si riscontra un certo “fervore” islamico.
Secondo Trimingham Spencer (1980: 74) la debolezza della shari’a (la legge) in Africa Orientale, anche in comunità dove vi è una grande concentrazione di popolazione musulmana, è in gran parte dovuta proprio alla debolezza delle scuole coraniche poco diffuse e confinate solo nelle città. Il fatto è evidente per gli Afar.
Tuttavia, per poter fare alcune considerazioni su una situazione di “islamizzazione” dobbiamo premettere che, come dice colui che è stato forse il più acuto interprete dell’Islam nel panorama culturale italiano, A. Bausani (1999: 11), per poter parlare di religione a proposito dell’Islam bisogna abbandonare il concetto tradizionale “cristiano” di religione al quale siamo abituati:
Per l’Islam infatti la religione (din, che usualmente si traduce poco esattamente con “religione” nelle lingue occidentali) è qualcosa che abbraccia sia la nostra religione sia la nostra politica, è regola di vita, legge, mentre le mancano le connotazioni sacerdotali-ritualistiche essenziali nella nostra nozione di religione.”
Possiamo definire l’Islam essenzialmente come un sistema di vita il cui centro è rappresentato dalla “legge”, la sari’a5.
L’adesione all’Islam comporta il rispetto di precisi atti cultuali.
In particolare i cinque atti cultuali fondamentali su cui è basato l’Islam, i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam: la professione di fede, shahada, la preghiera, salat, l’elemosina rituale, zakat, il pellegrinaggio alla Mecca, hagg e il digiuno, saum, del mese di Ramadan (Bausani 1999: 43). Tuttavia, entrare a far parte della comunità islamica prevede anche l’acquisizione di una “mitologia nuova”. Mi riferisco ai miti che l’Islam condivide con le altre religioni monoteistiche, in particolare quello della creazione del mondo e del genere umano, il mito di Adamo ed Eva, il mito di Abramo (a giustificazione anche della circoncisione), e tutte quelle tradizioni, Hadit, riguardanti il Profeta Maometto. Questi miti servono a spiegare e a giustificare credenze, rituali, costumi sociali e tabù tutti basati sui principi enunciati esplicitamente o espressi in maniera implicita attraverso i comportamenti e le azioni del Profeta Maometto6.
In linea generale non sappiamo quanto gli Afar delle zone desertiche più interne che vivono isolati e distanti dai centri abitati e dalle moschee hanno conosciuto dell’Islam. Chailley (1980: 93) sostiene che i pochi Afar in grado di leggere il Corano sono confinati nelle città. Si tratta di individui che hanno conseguito una certa istruzione di base. Per il resto la diffusione di norme e principi fondamentali stabiliti nel Corano tra le varie popolazioni Afar nel corso dei secoli, sembrerebbe essere opera di mistici musulmani itineranti e di Qadis, ossia giudici del diritto musulmano. Così in Lewis (1955: 172):
Qadis versed in the Shariah are found scattered through the country as well as itinerant holy men who make some attempt to impart the rudiments of islamic doctrine, not perhaps very successfully, since they often come to be identified with pre-islamic cushitic priests7.”
Interessante è una notizia che troviamo nel testo di Chailley (1980: 93), una raccolta di note sugli Afar che egli ha trascritto nel corso dei suoi viaggi effettuati dal 1935 al 1937 nei territori dell’attuale Repubblica di Gibuti. Secondo quanto da lui riportato, presso la popolazione dei Badoytammela sarebbe considerato estremamente pericoloso per i bambini studiare il Corano perché potrebbe attirare su di loro delle gravi afflizioni fino a provocarne anche la morte:
“…il n’y a pas longtemps encore que chez les Badoytammela (Gofto), par exemple, on considérait qu’il était dangereux pout les enfants d’étudier le Coran, qu’ils pouvaient ainsi s’attirer de grosses calamités pouvant aller jusqu’à la mort8.”
Tuttavia il Corano è considerato tra tutti gli Afar un libro sacro.
La “sacralità”, a sua volta, lo propone come un libro-medicina. Secondo un modello che ha svariate ripercussioni, l’“efficacia” e il “valore” del Corano si misurano in termini terapeutici. Gran parte dei rimedi contro afflizioni di vario genere hanno per base il potere magico attribuito a certi versi del Corano9. Su frasi del Corano si basa la costruzione di amuleti per la protezione e il benessere individuale. Il Corano vale non perché dona salvezza ma salute.
Per quanto riguarda il rispetto dei cinque pilastri dell’Islam da parte degli Afar, Chailley (1980: 94) osserva che essi non praticano il pellegrinaggio alla Mecca. Il ramadan è pressochè sconosciuto nelle zone desertiche, mentre sarebbe praticato dagli Afar che vivono nella città di Gibuti e in altri piccoli centri islamizzati. La preghiera sarebbe regolarmente praticata nelle “città” dancale dove vi sono delle moschee e spesso dimenticata nelle zone isolate dell’interno.
Tuttavia è interessante un’informazione riportata ancora da Chailley (1980: 93) secondo la quale tra le popolazioni che vivono nelle zone isolate dell’interno sarebbero costruite semplici recinzioni in pietra con l’intento di sopperire in qualche modo la mancanza di moschee:
En ville les mosquées sont en pierre; fréquemment, en brousse, elles sont remplacées par un enclos carré délimité par une murette en pierre sèche et comportant une alvéole formant un mihrab. Une peau séchée de mâle, une natte blanche, dont simuler le Mihrab remplace le tapis de prières, qui n’existe pour ainsi dire pas10.”
Appare chiaro da quanto detto fin qui, che l’islamizzazione degli Afar ha incontrato molte difficoltà nonostante il contatto precoce.
Ciò risulta anche da certi dati che sembrerebbero più legati ai modelli simbolico-religiosi islamici come la venerazione dei santi sufici11 e la pratica di discipline sufi. Da un’osservazione fatta da Trimingham Spencer (1980: 93), possiamo ipotizzare che la diffusione del culto dei santi sufi tra gli Afar derivi in certo senso dal fatto che il modello sufico offre loro una esperienza più vicina agli aspetti della loro realtà tradizionale. In effetti vi è un legame con il sostrato tradizionale Afar in quanto le figure di questi santi vengono spesso messe in stretta relazione con le origini di “lignaggi tribali”. È soprattutto nelle zone più isolate e lontane dai centri d’insediamento stabile comunque, che si tende ad assottigliare il confine che separa i culti propiziatori tributati agli antenati o ad altre potenze sovrannaturali, da quelli riservati alle figure dei mistici musulmani. Mi sembra importante fissare brevemente alcuni punti fondamentali del misticismo islamico per introdurre l’idea di “santo” e per capire l’importanza e la diffusa venerazione di questi personaggi tra gli Afar. Per le notizie che vado a riferire traggo spunto dal testo dell’islamista Bausani (1999: 69-93).
Secondo quanto da lui sostenuto (1999: 70-71), il sufismo può essere definito come una via mistica che porta al contatto diretto e personale fra uomo e Dio. In ciò non si contraddice in alcun modo quanto stabilito dalla legge islamica. Citiamo in proposito un passo tratto da Bausani (1999: 70):
L’anima del musulmano assetato di una esperienza diretta del divino vi giunge proprio attraverso una accentuazione, non una diminuzione delle posizioni religiose centrali dell’Islam. È l’assoluta personalità di Dio che è spinta a un punto tale che non c’è più posto per altre persone reali che non siano la Sua persona.”
Tuttavia osserva Bausani (1999: 72), questa trascendenza assoluta di Dio porta spesso a conseguenze paradossali come ad esempio la negazione del proprio essere per affermare Dio solo, che è sfociata in affermazioni teopatiche come quella di al-Hallag: “Io sono Dio” che gli costò la vita. Per l’ortodossia è più corretto parlare di “fana” annientamento in Dio e non di “baqa” stare insieme a Dio alla pari. Ancora Bausani (1999: 73) sottolinea come queste tendenze eterodosse comportino seri pericoli per l’ortodossia in quanto il mistico tende per queste vie ad attribuirsi un importanza superiore addirittura a quella del Profeta, ignorando la sua mediazione nel contatto con il divino. È a questo punto che può essere introdotta l’idea di “santo” (“wali” in arabo, plurale “awliya”, che significa “amico”, di Dio s’intende). Nel misticismo popolare l’idea di “santo” viene riferita ad una categoria di persone dotate di potere taumaturgico che manifestano o esercitano il “carisma” o santità (baraka) compiendo miracoli veri o presunti. Queste credenze portano ad una degenerazione nella venerazione dell’uomo spinta a livelli estremi. Essa continua a manifestarsi anche dopo la morte dei mistici con pellegrinaggi e la celebrazione di riti commemorativi o culti votivi sulle loro tombe. Per l’ortodossia islamica sia sunnita sia sciita, questi aspetti paradossali che possono essere raggiunti attraverso la via emozionale mistica al contatto diretto con Dio, rappresentano una sorta di “eresia” dalla quale cerca di prendere le distanze. Come abbiamo già detto sopra, il sufismo,12 ossia la mistica islamica, è una presenza sentita soprattutto nelle “città” della Dancalia, specie nella zona del Golfo di Tagiura (Repubblica di Gibuti). È qui che si concentrano i mistici sufi raccolti in confraternite (ta’ifa) ed è da qui che essi si muovono per compiere itinerari nelle zone più isolate dell’interno portando il loro insegnamento. Il misticismo islamico in Africa sembrerebbe, almeno secondo quanto riferisce Trimingham Spencer (1980: 93), una tarda importazione. Certamente la penetrazione dei modelli sufici in tutta l’Africa Orientale ha una datazione posteriore alla loro radicalizzazione nel sud dell’Arabia dalla quale sono venuti:
Sufi disciplines (turq, singolare tariqa) were probably a late importation and certainly would not date before their popularization in South Arabia from which they were introduced13.”
Tra gli Afar la venerazione dei cosiddetti “santi sufici” assume le proporzioni di un vero e proprio culto. Tuttavia in proposito è interessante una informazione che troviamo in Morin (1991: 27-28). Egli sottolinea che la parola araba “wali”, cioè santo, non viene riferita dagli Afar solo ai santi musulmani della tradizione sufica, ma anche ad individui che si ritiene siano ispirati, oppure dotati di capacità premonitorie e in relazione con un santo o un antenato. Egli sostiene che con questo termine gli Afar sono soliti designare anche coloro la cui presenza casuale o improvvisa sia la manifestazione di una forza invisibile in risposta ad una preghiera formulata. Così la comparsa improvvisa di un animale nel corso di una cerimonia può essere interpretata come il segno della manifestazione di una potenza sovrannaturale. In questo caso l’animale è chiamato “wali” e considerato intoccabile. Più che la figura del “santo sufico” quindi, il termine “wali” sembra denominare per gli Afar uno stato particolare di potenza e divinità e perciò è messo in relazione anche con gli esseri sovrumani dei propri modelli culturali tradizionali. Ciò non toglie che determinate forme di culto siano rivolte alle figure più importanti di mistici musulmani e che pellegrinaggi commemorativi e sacrifici rituali siano compiuti sui luoghi delle loro sepolture.
Lewis (1955: 172) riferisce di un pellegrinaggio alla tomba dello sceicco Abba Yeddidi sulla vetta del monte Gouda. Anche Morin (1991: 29) fa menzione di rituali effettuati sui luoghi di sepoltura di alcuni importanti mistici sufici. Ad esempio egli cita il caso di un pellegrinaggio sulla sommità del monte Baracbarré nel Godà vicino Tagiura, dove è sepolto il mistico iraniano del III secolo dell’egira, lo sceicco Abazed Bayazid al-Bistami. Gli Afar tributano un culto votivo a questo “santo” perché ritengono che egli abbia combattuto su questo monte contro gli spiriti malvagi e il diavolo. Un'altra informazione importante è quella riportata da Lewis (1955: 172) e da Chailley (1980: 94) secondo i quali a Gibuti e a Tagiura sarebbero presenti alcune confraternite in cui si praticherebbe il dhikr14. La cerimonia di dhikr rientra nella vasta morfologia dei cosiddetti stati modificati di coscienza15. Letteralmente il termine dhikr significa “menzione” del nome di Dio o di qualche suo attributo. La pratica di dhikr viene così definita nel testo dell’etnomusicologo Gilbert Rouget (1980: 354):
In senso molto generale, il dhikr può essere definito come un esercizio religioso che consiste nel ripetere il nome divino per rievocare Dio e al tempo stesso per farsi ricordare da lui, nella speranza di attirare su di sé la sua benedizione”.
In effetti si tratta di un esercizio complesso che si può effettuare individualmente o collettivamente e che consiste nel ripetere ritmicamente a voce alta o interiormente uno dei nomi di Allah16 o di determinate frasi, spesso coraniche, come ad esempio “non v’è altro Dio a eccezione di Allah”. Come metodo individuale il dhikr si risolve in un insieme di elaborate tecniche psico-fisiche, quali il controllo del respiro, movimenti ritmici del corpo e una ripetizione ritmica silenziosa ed interiore del nome divino, volte al raggiungimento di uno stato di estasi, un totale assorbimento in Dio, il considdetto stato di fanâ’. La cerimonia del dhikr collettivo è invece legata indissolubilmente alla musica e alla danza e in alcuni casi anche a pratiche fachiriche. Al culmine della cerimonia si raggiunge uno stato di trance mistica che può assumere anche la forma di “trance di possessione”. In questo caso occorre precisare che non si tratta di una presa di possesso della persona da parte di Dio, poiché nell’Islam ciò sarebbe ritenuto empio, ma di una relazione immediata con Dio che possiamo definire di “comunione”. L’adozione di rituali come il dhikr da parte degli Afar, almeno in alcuni centri abitati islamizzati, è un’altra testimonianza della “vicinanza” del modello sufico con la situazione culturale tradizionale che non è estranea a rituali che rientrano nella tipologia degli stati modificati di coscienza. Possiamo citare ad esempio il rituale “tradizionale” coreutico divinatorio denominato “danza del ginnili”, al centro del quale è un’esperienza di trance di possessione ispirata.
La risultanza di questi dati dimostra che la situazione culturale degli Afar rispetto l’Islam, mantiene un forte sottofondo tradizionale.

VII.2.) L’organizzazione simbolico-religiosa Afar

Arrivare al pre-islamico Afar è difficile. È stato già detto che al centro della religione tradizionale Afar dovrebbe esserci un cosiddetto Essere Supremo Celeste17, che essi chiamato Figu/Wak/Zar.
Per gli Afar, Figu (Wak\Zar) è il creatore del mondo e di tutti gli esseri viventi (Lewis 1955: 172). Ha il potere di controllare (non in maniera esclusiva però) tutti gli elementi che non sono controllabili dagli esseri umani e che sono di fondamentale importanza per la loro esistenza. Ad esempio la nascita, la morte e la malattia, ma anche la pioggia, il tellurismo (molto diffuso in tutta l’Africa Orientale e alimentato da un intenso vulcanesimo), la siccità sono tutti elementi che manifestano la presenza e l’intervento di entità extraumane su natura e vita umana (vedi in proposito Morin 1991: 28-34). Le entità extraumane che affiancano l’Essere Supremo sono quelle che abbiamo già menzionato a proposito dei destinatari della pratica sacrificale: antenati, spiriti di morti, geni dell’acqua e della terra (o spiriti della natura). Quest’ultimi dopo l’islamizzazione sono confluiti nella categoria di spiriti dell’Islam denominata con il nome di ginn. Questi ginn sono degli spiriti la cui esistenza è sancita anche dal Corano18. Lewis (1993: 57) propone i ginn come esseri antropomorfici che si appostano in determinati luoghi naturali (punti d’acqua, alberi, rocce) e sono pronti a colpire i passanti.
I culti rivolti ai ginn dagli Afar hanno come scopo principale quello di assicurarsi la loro benevolenza (è il caso, già visto nel capitolo VI, dei sacrifici fatti per acquietare i ginn del mare durante la festa del mare di ottobre che si svolge ogni anno a Tagiura).
Altri aspetti di un certo rilievo nel contesto del religioso preislamico Afar sono le pratiche magiche e di stregoneria. Affrontare il problema del “magico” Afar appare troppo complesso. Tuttavia in base ai dati a nostra disposizione possiamo vedere che tra gli Afar, come del resto accade in gran parte del continento africano, è molto diffusa la convinzione nell’efficacia delle pratiche magiche e di stregoneria19. Ciò ha notevoli ripercussioni nell’ambito sociale e influenza comportamenti e modi di pensare. Spesso vari tipi di malattie o afflizioni e talvolta anche decessi, sono spiegati dagli Afar invocando cause magiche o stregonesche. Tuttavia questa non è la regola. Responsabili principali delle sventure che colpiscono i singoli individui o la collettività sono, secondo gli Afar, gli esseri extraumani che in questo modo intendono punirli per qualche loro inadempienza. Gli Afar distinguono in maniera piuttosto netta tra magia e stregoneria. Mentre la prima può essere interpretata come una manipolazione di forze misteriose per ottenere dei fini pratici non sempre benevoli. La seconda consiste in un uso di mezzi e spiriti agenti nel loro più segreto e antisociale aspetto. Per questo gli Afar mostrano un diffuso timore delle pratiche di stregoneria e soprattutto di coloro che si reputa ne facciano uso.
Sulla base delle informazioni e degli esempi forniti da Chailley (1980: 95) si ricava che la magia praticata dagli Afar è soprattutto una magia simpatetica e contagiosa.  Egli segue nella sua indagine un modello interpretativo basato sulla formula di Frazer (The magic art I, 1911) nota come “legge di simpatia”. Si tratta di un principio generale che secondo Frazer governerebbe il mondo magico.
La “legge di simpatia” si basa sull’assunto che il simile produce il simile. Ciò significa che qualcosa che è stato in contatto con una persona continua ad agire su di essa anche quando il contatto viene meno. Questo principio rende possibile la cosiddetta “magia contagiosa”. Per essa è possibile agire su una persona se si è in possesso di qualcosa che gli appartiene, come ad esempio capelli, unghie, un pezzo di vestito. Analogamente è possibile agire, sempre per lo stesso principio, sull’immagine di una persona o ad esempio su una sua impronta. Vediamo di seguito una testimonianza riportata da Chailley (1980: 95), di un uso del “magico” tra gli Afar che possiamo interpretare secondo la formula di Frazer:
L’indigène de la brousse a soin d’enterrer dans un endroit caché ses ongles et ses cheveux. Le prétexte qu’il invoque maintenant est de se retrouver au complet, lors du judgement dernier20.”
In questo caso possiamo osservare che la magia è fatta in prospettiva non più immediata ma addirittura escatologica.
Ciò mostra il segno evidente di una contaminazione con il modello culturale islamico. Di seguito Chailley riferisce di un uso negativo, possiamo dire stregonesco, della magia “contagiosa” tra gli Afar. Alla base della sua interpretazione vi è l’idea condivisa da tutti gli  Afar che lasciare qualcosa di se stessi a disposizione di nemici da loro la possibilità di compiere una stregoneria malefica:
C’est dans cet esprit que, lorsque l’indigène veut nuire à quelqu’un, il cherche à recouper sa trace, il poignarde l’empreinte d’un de ses pas; il ramassera ensuite le sable, l’emportera, le mélangera d’herbes, en récitant quelque formule, et dispersera le tout au vent. L’envouté, invariablement deviendra boiteux21.”
Queste forme di “magia” sono utilizzate dagli Afar soprattutto nella sfera terapeutica. Si può osservare in proposito una ritualizzazione della pratica medica. Il processo risulta influenzato dall’Islam22. Come dice Trimingham Spencer (1980: 121) nell’Islam una delle basi del potere magico è proprio il Corano che rappresenta la parola di Dio23. Si ritiene che certi versi tratti dal testo sacro coranico hanno efficacia d’incantesimi. Trimingham Spencer (1980: 122) sostiene che la “magia” islamica fa uso di versi tratti dalla sura di Ya Sin (XXXVIV), dei versi 113-114 tratti dalla sura di mu’awwidhatan e di tutti quei versi in cui si glorifica il nome di Dio. Alla base del potere di questi versi sta la teoria secondo la quale le lettere dell’alfabeto sono i segni del linguaggio eterno di Dio. Questi segni sono all’origine della creazione e rappresentano la “materializzazione” della parola divina. Sul potere magico attribuito a certe frasi del Corano si basa anche la costruzione di amuleti (hirz in arabo). Tra gli Afar l’uso di amuleti è molto diffuso. Per la loro costruzione essi si rivolgono a santi sufici (marabutti). L’amuleto viene costruito inserendo dei foglietti di carta su cui sono scritti determinati versi del Corano o nomi di angeli e ginn, numeri e simboli, talvolta anche trascrizioni di versi o canti tradizionali Afar, in sacchettini di pelle che vengono indossati in parti diverse del corpo secondo prescrizioni individuali (Trimingham Spencer 1980: 123). Essi servono per protezione personale in guerra ad esempio, o contro il malocchio e per la cura di malattie. L’efficacia attribuita a questi amuleti risiede nella credenza che il potere inerente nelle parole o frasi del Corano o in altri segni, può essere trasferito ad oggetti e da essi alle persone che li indossano. Dice Trimingham Spencer (1980. 123) che anche la persona che costruisce questi amuleti deve essere ritenuto in possesso di un potere taumaturgico e “carismatico”. Per questi motivi gli Afar ricorrono quasi sempre ai “marabutti”. Tuttavia Chailley (1980: 95) sostiene l’esistenza di un personale specializzato in pratiche magiche anche all’interno dei gruppi Afar, fermo restando il ricorso ai santi sufi o marabutti per la costruzione di talismani e per altre pratiche magico-religiose:
L’indigène déclare que certains d’entre eux peuvent arreter un oued en crue, le temps de sauver leurs troupeaux: il faut, après avoir récité une formule, se précipiter au milieu de l’oued en le défiant de sa lance24.”
Si tratta di persone che si ritiene dotate di grandi poteri tra i quali la capacità di immobilizzare intere mandrie di bestiame o di deviare il corso dei fiumi. Il loro potere si basa anche sul possesso di conoscenze particolari nel campo della botanica e nell’uso di erbe per scopi magici. Importante è sempre la centralità dell’utilizzo della parola a fini magici sotto forma di preghiera, incantesimo o canti. In un passo precedente Chailley (1980: 89) riferendosi agli addetti alla pratica medica presso gli Afar dice:
“…paiens et musulmans, féticheurs ef marabouts, semblent faire trés bon ménage. Et l’on arrive à une double évolution: d’une part, le père de famille est remplacé dans l’excercise de la médicine par un spécialiste, d’autre part, certains familles se sont spécialisées dans la guérison de telle ou telle affection. Enfin, dans bien des cas, la médicine est devenue secrète. Le sorcier médicastre, conservant jalousement ses recettes, ne les transmet qu’à son successeur. Il persuade à ses clients que les plantes employées n’auraient aucun effet sans son intervention personelle, bien plus, qu’elles pourraient etre nuisible25.”
Da questo passo si può evincere l’esistenza di una specializzazione da parte di individui e addirittura di certe famiglie o gruppi nella pratica di una medicina che assume caratteri magico religiosi e di cui si esaltano la segretezza e il possesso di consoscenze superiori.
In effetti poco dopo Chailley (1980: 92) riporta nel suo testo un’elenco di “tribù” che gli Afar ritengono in possesso, almeno fino al momento in cui egli ha raccolto queste informazioni (1935-37), delle conoscenze “magico-terapeutiche” necessarie per la cura di determinate malattie e afflizioni. Da questo elenco si può vedere che i Seka guariscono tutti i tipi di afflizione tramite la preghiera.
Gli Hamodadi sono specializzati nel ricomporre le fratture.
I Garaysa curano invece, le bruciature. Importante notare che ad essi è proibito toccare il fuoco prima del tramonto. I Tak’il guariscono le affezioni del ventre, mentre i Mafa sanano le piaghe con la saliva. Infine gli Adniyto sono ritenuti grandi stregoni e specialisti negli studi di medicina. Sia che si tratti di individui, sia di interi gruppi, sempre sono richieste conoscenze particolari nella sfera terapeutica e in alcuni casi poteri carismatici. Da rilevare in tutti i casi è la grande importanza ed efficacia magico religiosa che viene attribuita alla preghiera26 e alla formula recitata e scritta. A questa pratica di derivazione islamica si affianca l’uso di rimedi pratici più tradizionali: fuoco, piante, burro e persino escrementi.
Tra di essi il primo posto è occupato senza dubbio dal fuoco. Dice un proverbio Afar “Il fuoco e il male non restano mai insieme” (Chailley 1980: 89). Il fuoco viene imposto sulla parte malata del corpo soprattutto in caso di dolori reumatici o mal di testa, bronchiti e mal di stomaco. Il burro invece viene usato scaldato per cicatrizzare le ferite. Chailley (1980: 90) riferisce che quando un guerriero si fa evirare e riesce a scappare, versa del burro bollente sulla ferita per cicatrizzarla. Egli di seguito fa menzione anche dei nomi di alcune piante usate a scopi medici. Tra queste la Kusra (Zizyphus mauritiana) le cui foglie vengono fatte macerare in acqua versata poi su ferite e piaghe per aiutare la cicatrizzazione; un’altra pianta è quella chiamata Sanu (Cassia italica detta anche “Senné del Mecque” in francese). Le sue foglie vengono triturate e utilizzate per fare delle tisane con effetti purgativi. In Morin (1991: 31) si fa menzione di un’altra pianta utilizzata per scopi magico-religiosi. Si tratta della Cadaba rotondifolia le cui foglie usate in decotti o tisane sono ritenute avere facoltà di scacciare la paura e sono per questo usate dai guerrieri.
Una pianta molto particolare è il qat (Catha edulis). Di essa fanno menzione Chailley (1980: 81) e Lewis (1991). Il qat è una pianta che ha proprietà stimolanti. Le sue foglie sono consumate fresche ed hanno un gusto molto amaro. L’uso comune è una lenta e prolungata masticazione. Talvolta però, si usa sotto forma di infuso. Leggermente eccitante, afrodisiaca, la pianta del qat procura uno stato d’euforia e di veglia procurando anche un aumento nelle prestazioni fisiche. Proviene dagli altopiani etiopi e il suo uso è molto diffuso tra le popolazioni musulmane di pastori nomadi. Secondo quanto riportato da Lewis (1991: 12) il qat sembra avere un importante ruolo sociale, terapeutico e religioso. Essa è impiegata ritualmente nelle cerimonie del culto degli zar.
In un passo del testo di Michel Leiris (1988: 44) sui culti di possessione zar in Etiopia, si fa menzione di un uso magico-terapeutico del qat. Il procedimento consiste nel masticare foglie di qat e poi sputarle sul viso o sulla parte specifica in cui “risiede” il male. In questo modo si crede che il male, o il potere che lo provoca, venga eliminato. Il qat, in virtù dei poteri magico-religiosi che gli vengono assegnati, è considerata dagli Afar una pianta sacra. In questo senso può essere inserita tra le numerose piante dalle virtù allucinogene in grado di provocare ritualmente uno stato di trance indotta, usate in culti terapeutici quali il peyotismo27. Al consumo rituale e terapeutico si accompagna un uso sociale. Attualmente nella Repubblica di Gibuti vi sono dei luoghi deputati chiamati “mabraze” in cui si effettua una consumazione collettiva di qat.
Se ne parla in un reportage su Gibuti apparso nel numero 174 (marzo-aprile 1999) nella rivista francese “Le courrier”. All’interno del mabraze vi è un’atmosfera conviviale che facilita la costituzione e il rafforzamento di legami d’amicizia. Il punto culminante di questa consumazione è il raggiungimento dello stato cosiddetto di “mirghan” ossia lo stato euforico procurato dalla masticazione delle foglie della pianta. Le reazioni dei partecipanti sono diverse: al silenzio di alcuni si contrappone l’euforia oratoria di altri. Nel tardo pomeriggio tutti tornano alle loro case. Questo tipo di consumazione collettiva sembra essere una pratica quasi esclusivamente maschile. Presso le donne il fenomeno è ancora marginale.
Il consumo di qat è consentito dalle autorità soltanto una volta la settimana! Negli ultimi anni il presidente della Repubblica di Gibuti Hassan Gouled Aptidon ha alimentato una campagna contro l’uso del qat con lo scopo di proibirne la vendita e il consumo (è da sottolineare che il commercio del qat alimenta un lucroso giro di affari).
Gli argomenti del presidente si basano su una presunta pericolosità per la salute di chi fa un uso prolungato della pianta. Secondo delle recenti ricerche mediche gli effetti dannosi per la salute del consumo di qat sono a lungo termine e riguarderebbero problemi al tubo digestivo e in particolare ulcere. Inoltre l’assunzione regolare di qat provocherebbe danni cardio vascolari e neurologici. Tuttavia il commercio e il consumo di qat è ancora consentito in tutto il Corno d’Africa.
Ritornando alle credenze degli Afar occorre far menzione di una situazione di timore assai diffuso degli stregoni che si lega alla credenza nella licantropia28, nota tra gli Afar con il nome “butà”. Questo termine deriva secondo Morin (1991: 27) dall’amarico “buda” che in origine veniva usato per designare la categoria dei fabbri che si credeva stregoni dotati di un potere malefico negli occhi e accusati di nutrirsi di carne umana e di trasformarsi in iene o in altri rapaci notturni. In uno studio dell’antropologo italiano Vinigi Luigi Grottanelli (1976) si fa riferimento al radicato convincimento popolare di questa credenza in Etiopia tale da assumere il valore di realtà sociale. Egli dice (1976: 64) che in Etiopia la credenza nella reale esistenza di questi esseri viene suffragata citando dei fatti concreti a supporto:
La realtà di simili metamorfosi, l’effettiva identità dell’uomo con la belva, sono ritenuti dimostrati da indubbi indizi: si scoprono orme di iena che conducono diritto alla capanna dell’individuo sospetto, oppure sul corpo di questo si riscontra la stessa ferita che in una notte precedente qualcuno riuscì a ferire l’animale.”
In questo senso il buda non è molto differente dal licantropo europeo o lupo mannaro. Tra gli Afar è diffusa la credenza nei licantropi-iena. Per essi il licantropo è un individuo in possesso di poteri magici, temibile per il malocchio e che la notte si trasforma in una iena per divorare gli esseri umani o più spesso i cadaveri29. Nel testo di Vinigi L. Grottanelli vengono riportati alcuni racconti di viaggiatori europei che riguaderebbero casi reali di licantropia associati a cannibalismo. Tra questi racconti ve ne sono alcuni che riguardano gli Afar. Si tratta di un caso di antropofagia riferito da C. W: Harris30.
Secondo il suo racconto l’individuo che aveva compiuto cannibalismo fu messo al bando dalla società (galeila). Harris sostiene che il cannibale portava al collo una collana di intestini. Altro caso di cui si da notizia nel testo di Grottanelli è quello narrato da C. Johnston nel libro “Travels in southern Abyssinia” (s.d.). Anche in questo caso l’antropofago è un “galeila” ossia un espulso dalla società. Interessante il particolare secondo il quale il cannibale portava legata attorno al collo una coda di iena. Sulla base dei fatti riportati in questi racconti si può sostenere soltanto l’eccezionalità dei presunti casi di antropofagia praticati tra gli Afar confermata anche dalla marginalizzazione di questi individui dalla società. Quando scoperta l’antropofagia suscita orrore. Il cannibalismo reale o presunto praticato dagli uomini-iena va inserito in un contesto più ampio che racchiude le idee riguardanti il potere mistico in generale e la stregoneria in particolare. L’accusa di stregoneria viene fatta ad individui che impiegano forze oscure per raggiungere fini individuali ai danni della società. Chi pratica la stregoneria diviene perciò un individuo dotato di caratteristiche antisociali per eccellenza, come l’incesto o il cannibalismo. Interessante in proposito il particolare collegamento riferito da Grottanelli (1976: 65) secondo il quale i buda apparterrebbero sempre a basse “caste”:
“…l’aspetto sociale di questa credenza è provato dal fatto che i buda sono quasi universalmente reputati appartenere alle basse caste: essi sono ad un tempo i fabbri e i vasellai, gli stregoni e i licantropi.”
Anche nel testo di Lewis (1991: 24) sul culto degli zar compare un riferimento preciso alla credenza diffusa nei buda e al legame tra l’accusa di essere buda e individui o gruppi di individui socialmente emarginati. In questo caso si tratta della minoranza ebrea dei Falasha. Tutti i Falasha sono ritenuti essere buda attivamente o potenzialmente. Questa generale accusa rivolta ai Falasha ha condotto alla loro atroce persecuzione e discriminazione in Etiopia. Un passo riferito da Joseph Tubiana in un suo studio presente nel testo di Lewis (1991: 25) dice che:
Falasha told me that when one of them was killed by a christian who accused him of being a buda, the murderer was never condemned31.
In base a questi dati l’accusa di essere buda può essere assimilata all’accusa di stregoneria con la quale è legata dalla sua valenza antisociale. La credenza nei buda perciò, è tra gli Afar e presso altre popolazioni dell’area etiope, non una credenza superstiziosa, ma una “realtà” sociale. Essa serve a mascherare, al pari dell’accusa di stregoneria, stati di tensione o aggressività sociale.

NOTE

1 Sul tema del politeismo vs monoteismo e sul rapporto tra politeismo e culture complesse con una struttura simbolica molto compatta rispetto a modelli “sciolti” anche prepoliteisti quali quelli degli Afar, vedi il dibattito che si è svolto nel corso del ‘900 nell’ambito degli studi antropologici e storico-religiosi (Brelich 1995: 18-19). Sul politeismo vedi: Dario Sabbatucci “Politeismo” 1998 Roma, Bulzoni Editore.

2 Il nome Figu letteralmente significa Dio. Come abbiamo visto nel capitolo dedicato al sacrificio, il nome di Figu viene tuttora conservato in alcune forme rituali tradizionali praticate nei luoghi ritenuti essere la sede della sua potenza. In Lewis (1955: 172) per identificare l’Essere supremo celeste adorato dagli Afar e dai Galla viene usato il nome Wak.

3 La dimensione storica tuttavia non è teologica. Dipende dalla messa in atto del sistema della genealogia che l’Islam ha ripreso dalla tradizione ebraica.

4 Ogni tai’fa segue una propria “Tariqa”. Tariqa è un termine arabo che significa “Via”, “metodo” e designa il modello sufico di ricerca di contatto con Dio seguito dalle confraternite mistiche islamiche. Tuttora, esistono numerose confraternite musulmane diffuse in tutto il Medio Oriente, in Asia e in Africa. Nelle città costiere del territorio dancalo, soprattutto a Gibuti, molto rappresentata sembra essere la setta dei Qadiriyyah, che è caratterizzata da un grande spirito di tolleranza. Così Lewis (1955: 172) e Chailley (1980: 94).

5 Traggo da Bausani (1999: 37)le seguenti informazioni: Sari’a letteralmente può essere tradotto come “la via battuta” o “via battuta”. “Essa disciplina tutta l’attività umana in quanto esplicata nel mondo esterno, prescindendo da quella fede e da quelle credenze di cui, nel foro interno è giudice Dio solo”. Per i musulmani la legge è la diretta e personale volontà di Dio così come è stata espressa al Profeta.

6 Dice Bausani (1999: 28): “la legge di Maometto è quella definitiva e valida per tutta l’umanità”.  Nel Corano (XXXIII, 40) egli è definito “il sigillo dei profeti” perché con lui si concludono la serie di rivelazioni fatte da Allah ai vari profeti ammessi dall’Islam.

7 “Qadis istruiti nella sari’a sono trovati sparsi attraverso il paese come pure wali musulmani itineranti che fanno qualche tentativo di impartire i rudimenti della dottrina islamica, forse non con pieno successo, in quanto spesso essi vengono identificati con i sacerdoti preislamici cusciti.”

8 “…non è trascorso ancora molto tempo che tra i Badoytammela (Gofto), per esempio, si considerava pericoloso per i bambini studiare il Corano, poiché poteva attirare su di loro delle gravi calamità fino a provocare la morte.”

9 Vedi M. Chailley (1980: 93 e 95) ma anche Trimingham Spencer (1980: 122)

10 “In città, le moschee sono in pietra; frequentemente nel deserto, esse sono rimpiazzate da un recinto quadrato delimitato da un muretto di pietra secca e includente un alveolo formante un mihrab. Una pelle secca di animale, una stuoia bianca, nella quale uno dei lati piccoli mostra una sporgenza semi-circolare per simulare il mihrab rimpiazza il tappeto di preghiera, che non esiste per così dire.”

11 Il culto dei santi musulmani (awliya) è diffuso in tutta l’Africa del nord. Al santo si attribuiscono uno speciale influsso salutare (baraka) e il compimento di atti miracolosi (Karamat, distinti dai miracoli maggiori, mu’gizat, dei profeti). La santità, mancando una chiesa che possa canonizzare i santi, è proclamata dall’opinione popolare e ha spesso valore locale. Sull’argomento vedi: H. Chambert-Loir e C. Guillot (a cura di), Le culte des saints dans le monde musulman, Ecole francaise de l’extreme orient, etudes thématiques, 4, 1995; E. Gellner, Saints of Atlas, Chicago University Press, Chicago-London 1969; C.Mayeur-Jaouen, L’intercession des saints, in “Annales islamologiques”, XXV (1991), pp. 364-388.

12 Il termine sufismo deriva dall’arabo “suf” che significa lana. Esso si riferisce alla materia con la quale erano fatti i sai con cui andavano vestiti i primi mistici-ascetici. Nella lingua araba “sufi” significa proprio “mistico”. Il sufismo designa il misticismo islamico, ossia il modo attraverso il quale si può ottenere un contatto personale e diretto tra l’uomo e Dio. Esso affianca alla dottrina e alle pratiche dell’Islam, alcuni elementi concettuali, liturgici (cerimonie del Dhikr), etico-ascetici e mistici, oltre ad avere un’organizzazione che prevede la costituzione di confraternite (Bausani 1999: 69).
13 “Le discipline sufi (turuq, singolare tariqa) furono probabilmente una tarda importazione e certamente non datano prima della loro popolarizzazione in Sud-Arabia dalla quale essi furono introdotti.”

14 Secondo le informazioni riportate da Chailley (1980: 94) e da Lewis (1955: 172) le più diffuse confraternite (ta’ifa) in queste città sarebbero due: quella più radicata sembrerebbe essere la confraternita mistica dei Qadiriyya che fu fondata nel XII secolo a Bagdad e che si caratterizza per un grande spirito di apertura e tolleranza. Essa è diffusa in tutto il mondo musulmano. L’altra sarebbe quella dei rifa’iyya, fondata in Iraq sempre nel XII secolo. I suoi seguaci vengono chiamati “dervisci urlanti” per via di particolari forme dhikr caratterizzate da pratiche fachiriche come quella di camminare sopra i carboni ardenti.

15 Per una trattazione esauriente della tipologia degli stati modificati di coscienza rimando a George Lapassade “Les états modifiés de coscience” Paris 1987. Presses universitaires de France. Traduzione italiana “Stati modificati e transe” Roma 1993, Edizioni sensibili alle foglie cooperativa a.r.l. Vedi anche Gilbert Rouget “La musique et la trance” Paris 1980, Gallimard. Traduzione italiana “Musica e transe” Torino 1986. Einaudi.

16 Nell’Islam, Allah è uno dei cento nomi con cui viene nominato Dio, novantanove dei quali sono conosciuti, il centesimo è sconosciuto.

17 Nell’ambito dell’ampio dibattito che si è svolto nel corso del ‘900 nel contesto degli studi storico-religiosi e antropologici, cui abbiamo già accennato in precedenza, sulla figura dell’Essere Supremo celeste delle religioni dei popoli cosiddetti “primitivi”, un importante contributo è stato fornito dallo storico delle religioni italiano R. Pettazzoni. Secondo Pettazzoni, l’Essere Supremo non è un Dio assoluto, unico e onniscente al pari del Dio dei monoteismi. Accanto alla sua figura compaiono altri esseri (antenati, spiriti ecc…) la cui venerazione è compatibile con quella dell’Essere Supremo. Tuttavia l’Essere Supremo non può essere assimilato ad un Dio delle religioni politeistiche poiché non si differenzia sufficientemente dalle altre entità spirituali venerate all’interno dello stesso modello culturale di riferimento. In questa prospettiva possiamo stabilire che la struttura simbolica di riferimento della religiosità Afar non sembra avere un impianto di tipo politestico.

18 Ai ginn è dedicata la sura LXXII del Corano, “Gli spiritelli, oppure i ginn”.

19 Per la magia e la stregoneria in Africa un testo classico è quello di Evans-Pritchard intitolato: “Witchcraft, oracles, and magic among the Azande” Oxford 1937. Sempre di Evans Prithcard vedi “Witchcraft” in “Africa” volume 8, n. 4, Londra 1955.

20 “L’indigeno del deserto ha cura di interrare in un angolo nascosto le sue unghie e i suoi capelli. Lo scopo che egli invoca nel frattempo è quello di ritrovarsi al completo il giorno del Giudizio ultimo.”

21 “E’ in questo spirito che quando un indigeno vuole nuocere a qualcuno cerca di ritagliare la sua orma, e pugnalare l’impronta di uno dei suoi passi; egli raccoglierà in seguito la sabbia, la metterà in un vaso e al mescolerà con erbe recitando qualche formula disperdendo il tutto al vento. Lo stregato diventerà inevitabilmente zoppo.”

22 La magia (sihr) nell’Islam forma parte di quelle che sono chiamate “ulum al-ghayb” “scienze occulte”, che includono la divinazione, l’astrologia e l’oniromanzia (“The encyclopedia of religion” a cura di Mircea Eliade, New York 1987.

23 Come sottolinea Bausani (1999: 23): “…non si tratta di suoni sussistenti nella essenza di Dio, si tratta piuttosto di un verbum mentis che non consiste in suoni e lettere. Contro coloro che, al solito, giungevano a dire che le lettere stesse degli esemplari del Corano erano parole di Dio, Al-Gazzali, il grande teologo musulmano del XII secolo, ammette che le lettere sono temporali, ma sono i segni del linguaggio eterno di Dio.”

24 “L’indigeno dichiara che alcuni individui tra di loro possono fermare un fiume in piena per il tempo necessario a salvare il loro bestiame: bisogna, dopo aver recitato una formula, precipitarsi in mezzo al fiume deviandone il corso a partire dalla sua lancia.”

25 “…pagani e musulmani, costruttori di feticci e marabutti, sembrano fare un buon ménage. E si arriva ad una doppia evoluzione: da una parte il padre di famiglia è rimpiazzato nell’esercizio della medicina da uno specialista, dall’altra parte, certe famiglie si sono specializzate nella guarigione di questa o quell’altra afflizione. Infine, in molti casi, la medicina è divenuta segreta. Lo stregone medicastro conserva gelosamente le sue ricette, le trasmette solo al suo successore. Egli persuade i clienti (pazienti) che le piante impiegate non avranno alcun effetto senza il suo intervento personale e di più ancora che esse potrebbero essere nocive.”

26 La preghiera a favore e contro qualcuno è il metodo usato dai santi sufi per aiutare i bisognosi o per punire i loro nemici (Trimingham Spencer 1980: 122).

27 Sul  peyotismo vedi: Vittorio Lanternari “Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi” Milano 1960; W. La Barre “The peyote cult” in “Y.P.A.” XIX, 1938

28 Ancora oggi il tema rimanda ad un argomento che di per sé richiederebbe un lungo studio in chiave comparata con precisi riferimenti all’area culturale europea e mediterranea antica e moderna. Per la presenza del ciclo del licantropo nelle tradizioni folcloriche europee vedi: “Handwörterbuch des deutschen aberglaubens”, Band IX, 1987. Walter De Gruyter. I edizione 1941.

29 Presso molti popoli “primitivi” tali concezioni si basano sulla credenza che ogni individuo abbia un proprio “doppio” in forma animale (“The encyclopedia of religion”, a cura di Mircea Eliade, New York 1987).

30 C. W. Harris: “Gesandschaftsreise nach Schoa und Aufenthalt in Sudabyssinien” 1841-43, Stuttgart-Tubingen.

31 “I Falasha mi dissero che quando uno di loro veniva ucciso da un cristiano che lo accusava di essere un buda, l’assassino non era mai condannato”.
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