CAPITOLO VII
Gli
Afar tra modelli culturali preislamici
ed islamici
VII.1.) Il modello
“superficiale” islamico
Abbiamo già osservato
e sottolineato nei precedenti capitoli l’importanza della precoce
islamizzazione degli Afar iniziata già nel IX secolo, almeno per
quanto riguarda le popolazioni dislocate nelle zone costiere. Abbiamo
anche detto che il processo di diffusione dell’Islam e cioè di un
modello di organizzazione simbolica forte e strutturata, verso le
zone più interne ha seguito le rotte carovaniere di merci e schiavi
dirette verso il sud dell’Arabia, avvalendosi della costituzione di
sultanati come intermediari musulmani sul territorio. Queste semplici
premesse rendono ovvio il processo di mutamenti in senso islamico di
un modello “tradizionale” che a questo punto risulta spinto molto
indietro nel tempo. Cominciamo comunque con alcune considerazioni di
carattere generale. Secondo lo storico africanista Trimingham Spencer
(1980: 60) il processo di diffusione dell’Islam in Africa Orientale
può essere riassunto in tre fasi principali: germinazione, crisi e
graduale riorientamento.
Nella prima fase
l’Islam coesisterebbe parallelamente ai modelli culturali
preislamici. In un secondo momento si noterebbe un apparente declino
di molti riti tradizionali che però, rimangono disponibili per
momenti di crisi e di emergenza. Nella terza fase le istituzioni
sociali e religiose sarebbero profondamente islamizzate. Questo
modello può essere applicato soltanto in parte agli Afar. Secondo il
quadro tracciato nei precedenti capitoli e sulla base dei dati
storici in nostro possesso la terza fase non è stata mai stata
raggiunta da alcuna popolazione Afar.
L’Islam infatti, si
è diffuso fra di essi, così come nel resto dell’Africa Orientale,
mantenendo i caratteri propri di una “religione straniera”. Ciò
è dovuto in primo luogo alla resistenza di modelli culturali
preislamici. Il risultato dell’incontro fra l’Islam e la
situazione religiosa preislamica Afar è stato si può dire una
“contaminazione” ma non una vera e propria sintesi. L’Islam è
rimasto in superfice quasi come una superstruttura su un sottofondo
rappresentato da modelli culturali e ritualità “tradizionali”.
Osserva ancora
Trimingham Spencer (1980: 70) che si tratta dell’impatto di una
religione monoteistica basata su una rivelazione storica (cioè
sull’azione diretta di Dio, entità trascendente e onnipotente,
sulla storia) su modelli simbolico religiosi che, possiamo dire,
appaiono più “sciolti” e rimandano a situazioni culturali di
stampo anche “prepoliteistico1”. Un primo fondamentale
cambiamento è quello che riguarda l’adozione di un nuovo concetto
di Dio. Abbiamo già detto nei capitoli precedenti che le religiosità
Afar preislamica prevede la credenza in un Essere supremo celeste
identificato con il nome Figu2.
Pur non avendo i
caratteri propri di un Dio di una religione monoteistica, la presenza
di questa figura extraumana di Essere supremo celeste ha reso più
facile l’assimilazione del Dio assoluto ed esclusivo dell’Islam,
Allah. La nuova concezione di Dio ha provocato cambiamenti importanti
soprattutto sulle credenze legate alla morte e alla vita dopo la
morte. L’idea islamica di una punizione nella tomba e dopo la vita
ha influenzato i rituali funerari degli Afar dove le norme islamiche
hanno oscurato le forme rituali tradizionali (Trimingham Spencer
1980: 78). L’Islam avrebbe, secondo Trimingham Spencer (1980:
70), portato gli Afar e gli altri popoli africani islamizzati, nella
storia3.
Conseguenza diretta è l’elaborazione di genealogie spesso
risalenti a personaggi o a mitici antenati arabi come nel caso di
Hadalmahis di cui abbiamo già parlato. Cambia anche il modo di
concepire il tempo in seguito all’adozione del calendario arabo
basato sulla divisione dell’anno in mesi lunari. Tuttavia come
abbiamo già detto, l’Islam rappresenta per gli Afar un modello
culturale di “superficie”. L’islamizzazione degli Afar si
presenta come un processo di acculturazione effettuato attraverso la
convergenza di istituzioni sociali e di modelli culturali
tradizionali in corrispondenti istituzioni islamiche senza che il
passaggio sia veramente chiarito. L’Islam deve la sua diffusione al
fatto di essere stato leggero, tollerante e non integralista. Secondo
quanto riferito da Lewis (1955: 172) e confermato da Chailley (1980:
93) l’Islam è penetrato in maniera variabile tra gli Afar. Sulla
costa e nei centri abitati della Dancalia si possono trovare numerose
moschee e le modalità di culto sono praticate in maniera più
rigorosa. Sempre secondo le notizie riferite da Chailley (1980: 94) e
Lewis (1955: 172) nella maggior parte delle “città” dancale
avrebbero riscontrato un certo successo modelli di tipo sufico, ma le
indicazioni sulle confraternite (Tai’fa4)
più diffuse sono piuttosto scarne. Nelle zone desertiche
dell’interno i modelli cultuali cambiano. Solo in alcuni distretti
interni come quello dell’Aussa e presso i gruppi dislocati sulle
montagne di Gouba e Mabla si riscontra un certo “fervore”
islamico.
Secondo Trimingham
Spencer (1980: 74) la debolezza della shari’a (la legge) in Africa
Orientale, anche in comunità dove vi è una grande concentrazione di
popolazione musulmana, è in gran parte dovuta proprio alla debolezza
delle scuole coraniche poco diffuse e confinate solo nelle città. Il
fatto è evidente per gli Afar.
Tuttavia, per poter
fare alcune considerazioni su una situazione di “islamizzazione”
dobbiamo premettere che, come dice colui che è stato forse il più
acuto interprete dell’Islam nel panorama culturale italiano, A.
Bausani (1999: 11), per poter parlare di religione a proposito
dell’Islam bisogna abbandonare il concetto tradizionale “cristiano”
di religione al quale siamo abituati:
“Per
l’Islam infatti la religione (din, che usualmente si traduce poco
esattamente con “religione” nelle lingue occidentali) è qualcosa
che abbraccia sia la nostra religione sia la nostra politica, è
regola di vita, legge, mentre le mancano le connotazioni
sacerdotali-ritualistiche essenziali nella nostra nozione di
religione.”
Possiamo
definire l’Islam essenzialmente come un sistema di vita il cui
centro è rappresentato dalla “legge”, la sari’a5.
L’adesione
all’Islam comporta il rispetto di precisi atti cultuali.
In particolare i
cinque atti cultuali fondamentali su cui è basato l’Islam, i
cosiddetti cinque pilastri dell’Islam: la professione di fede,
shahada, la preghiera, salat, l’elemosina rituale, zakat, il
pellegrinaggio alla Mecca, hagg e il digiuno, saum, del mese di
Ramadan (Bausani 1999: 43). Tuttavia, entrare a far parte della
comunità islamica prevede anche l’acquisizione di una “mitologia
nuova”. Mi riferisco ai miti che l’Islam condivide con le altre
religioni monoteistiche, in particolare quello della creazione del
mondo e del genere umano, il mito di Adamo ed Eva, il mito di Abramo
(a giustificazione anche della circoncisione), e tutte quelle
tradizioni, Hadit, riguardanti il Profeta Maometto. Questi miti
servono a spiegare e a giustificare credenze, rituali, costumi
sociali e tabù tutti basati sui principi enunciati esplicitamente o
espressi in maniera implicita attraverso i comportamenti e le azioni
del Profeta Maometto6.
In linea generale non
sappiamo quanto gli Afar delle zone desertiche più interne che
vivono isolati e distanti dai centri abitati e dalle moschee hanno
conosciuto dell’Islam. Chailley (1980: 93) sostiene che i pochi
Afar in grado di leggere il Corano sono confinati nelle città. Si
tratta di individui che hanno conseguito una certa istruzione di
base. Per il resto la diffusione di norme e principi fondamentali
stabiliti nel Corano tra le varie popolazioni Afar nel corso dei
secoli, sembrerebbe essere opera di mistici musulmani itineranti e di
Qadis, ossia giudici del diritto musulmano. Così in Lewis (1955:
172):
“Qadis
versed in the Shariah are found scattered through the country as well
as itinerant holy men who make some attempt to impart the rudiments
of islamic doctrine, not perhaps very successfully, since they often
come to be identified with pre-islamic cushitic priests7.”
Interessante è una
notizia che troviamo nel testo di Chailley (1980: 93), una raccolta
di note sugli Afar che egli ha trascritto nel corso dei suoi viaggi
effettuati dal 1935 al 1937 nei territori dell’attuale Repubblica
di Gibuti. Secondo quanto da lui riportato, presso la popolazione dei
Badoytammela sarebbe considerato estremamente pericoloso per i
bambini studiare il Corano perché potrebbe attirare su di loro delle
gravi afflizioni fino a provocarne anche la morte:
“…il
n’y a pas longtemps encore que chez les Badoytammela (Gofto), par
exemple, on considérait qu’il était dangereux pout les enfants
d’étudier le Coran, qu’ils pouvaient ainsi s’attirer de
grosses calamités pouvant aller jusqu’à la mort8.”
Tuttavia il Corano è
considerato tra tutti gli Afar un libro sacro.
La “sacralità”,
a sua volta, lo propone come un libro-medicina. Secondo un modello
che ha svariate ripercussioni, l’“efficacia” e il “valore”
del Corano si misurano in termini terapeutici. Gran parte dei rimedi
contro afflizioni di vario genere hanno per base il potere magico
attribuito a certi versi del Corano9.
Su frasi del Corano si basa la costruzione di amuleti per la
protezione e il benessere individuale. Il Corano vale non perché
dona salvezza ma salute.
Per quanto riguarda il
rispetto dei cinque pilastri dell’Islam da parte degli Afar,
Chailley (1980: 94) osserva che essi non praticano il pellegrinaggio
alla Mecca. Il ramadan è pressochè sconosciuto nelle zone
desertiche, mentre sarebbe praticato dagli Afar che vivono nella
città di Gibuti e in altri piccoli centri islamizzati. La preghiera
sarebbe regolarmente praticata nelle “città” dancale dove vi
sono delle moschee e spesso dimenticata nelle zone isolate
dell’interno.
Tuttavia è
interessante un’informazione riportata ancora da Chailley (1980:
93) secondo la quale tra le popolazioni che vivono nelle zone isolate
dell’interno sarebbero costruite semplici recinzioni in pietra con
l’intento di sopperire in qualche modo la mancanza di moschee:
“En
ville les mosquées sont en pierre; fréquemment, en brousse, elles
sont remplacées par un enclos carré délimité par une murette en
pierre sèche et comportant une alvéole formant un mihrab. Une peau
séchée de mâle, une natte blanche, dont simuler le Mihrab remplace
le tapis de prières, qui n’existe pour ainsi dire pas10.”
Appare chiaro da
quanto detto fin qui, che l’islamizzazione degli Afar ha incontrato
molte difficoltà nonostante il contatto precoce.
Ciò risulta
anche da certi dati che sembrerebbero più legati ai modelli
simbolico-religiosi islamici come la venerazione dei santi sufici11
e la pratica di discipline sufi. Da un’osservazione fatta da
Trimingham Spencer (1980: 93), possiamo ipotizzare che la diffusione
del culto dei santi sufi tra gli Afar derivi in certo senso dal fatto
che il modello sufico offre loro una esperienza più vicina agli
aspetti della loro realtà tradizionale. In effetti vi è un legame
con il sostrato tradizionale Afar in quanto le figure di questi santi
vengono spesso messe in stretta relazione con le origini di “lignaggi
tribali”. È soprattutto nelle zone più isolate e lontane dai
centri d’insediamento stabile comunque, che si tende ad
assottigliare il confine che separa i culti propiziatori tributati
agli antenati o ad altre potenze sovrannaturali, da quelli riservati
alle figure dei mistici musulmani. Mi sembra importante fissare
brevemente alcuni punti fondamentali del misticismo islamico per
introdurre l’idea di “santo” e per capire l’importanza e la
diffusa venerazione di questi personaggi tra gli Afar. Per le notizie
che vado a riferire traggo spunto dal testo dell’islamista Bausani
(1999: 69-93).
Secondo quanto da lui
sostenuto (1999: 70-71), il sufismo può essere definito come una via
mistica che porta al contatto diretto e personale fra uomo e Dio. In
ciò non si contraddice in alcun modo quanto stabilito dalla legge
islamica. Citiamo in proposito un passo tratto da Bausani (1999: 70):
“L’anima
del musulmano assetato di una esperienza diretta del divino vi giunge
proprio attraverso una accentuazione, non una diminuzione delle
posizioni religiose centrali dell’Islam. È l’assoluta
personalità di Dio che è spinta a un punto tale che non c’è più
posto per altre persone reali che non siano la Sua persona.”
Tuttavia osserva
Bausani (1999: 72), questa trascendenza assoluta di Dio porta spesso
a conseguenze paradossali come ad esempio la negazione del proprio
essere per affermare Dio solo, che è sfociata in affermazioni
teopatiche come quella di al-Hallag: “Io sono Dio” che gli costò
la vita. Per l’ortodossia è più corretto parlare di “fana”
annientamento in Dio e non di “baqa” stare insieme a Dio alla
pari. Ancora Bausani (1999: 73) sottolinea come queste tendenze
eterodosse comportino seri pericoli per l’ortodossia in quanto il
mistico tende per queste vie ad attribuirsi un importanza superiore
addirittura a quella del Profeta, ignorando la sua mediazione nel
contatto con il divino. È a questo punto che può essere introdotta
l’idea di “santo” (“wali” in arabo, plurale “awliya”,
che significa “amico”, di Dio s’intende). Nel misticismo
popolare l’idea di “santo” viene riferita ad una categoria di
persone dotate di potere taumaturgico che manifestano o esercitano il
“carisma” o santità (baraka) compiendo miracoli veri o presunti.
Queste credenze portano ad una degenerazione nella venerazione
dell’uomo spinta a livelli estremi. Essa continua a manifestarsi
anche dopo la morte dei mistici con pellegrinaggi e la celebrazione
di riti commemorativi o culti votivi sulle loro tombe. Per
l’ortodossia islamica sia sunnita sia sciita, questi aspetti
paradossali che possono essere raggiunti attraverso la via emozionale
mistica al contatto diretto con Dio, rappresentano una sorta di
“eresia” dalla quale cerca di prendere le distanze. Come abbiamo
già detto sopra, il sufismo,12
ossia la mistica islamica, è una presenza sentita soprattutto nelle
“città” della Dancalia, specie nella zona del Golfo di Tagiura
(Repubblica di Gibuti). È qui che si concentrano i mistici sufi
raccolti in confraternite (ta’ifa) ed è da qui che essi si muovono
per compiere itinerari nelle zone più isolate dell’interno
portando il loro insegnamento. Il misticismo islamico in Africa
sembrerebbe, almeno secondo quanto riferisce
Trimingham Spencer (1980: 93), una tarda importazione. Certamente la
penetrazione dei modelli sufici in tutta l’Africa Orientale ha una
datazione posteriore alla loro radicalizzazione nel sud dell’Arabia
dalla quale sono venuti:
“Sufi
disciplines (turq, singolare tariqa) were probably a late importation
and certainly would not date before their popularization in South
Arabia from which they were introduced13.”
Tra gli Afar la
venerazione dei cosiddetti “santi sufici” assume le proporzioni
di un vero e proprio culto. Tuttavia in proposito è interessante una
informazione che troviamo in Morin (1991: 27-28). Egli sottolinea che
la parola araba “wali”, cioè santo, non viene riferita dagli
Afar solo ai santi musulmani della tradizione sufica, ma anche ad
individui che si ritiene siano ispirati, oppure dotati di capacità
premonitorie e in relazione con un santo o un antenato. Egli sostiene
che con questo termine gli Afar sono soliti designare anche coloro la
cui presenza casuale o improvvisa sia la manifestazione di una forza
invisibile in risposta ad una preghiera formulata. Così la comparsa
improvvisa di un animale nel corso di una cerimonia può essere
interpretata come il segno della manifestazione di una potenza
sovrannaturale. In questo caso l’animale è chiamato “wali” e
considerato intoccabile. Più che la figura del “santo sufico”
quindi, il termine “wali” sembra denominare per gli Afar uno
stato particolare di potenza e divinità e perciò è messo in
relazione anche con gli esseri sovrumani dei propri modelli culturali
tradizionali. Ciò non toglie che determinate forme di culto siano
rivolte alle figure più importanti di mistici musulmani e che
pellegrinaggi commemorativi e sacrifici rituali siano compiuti sui
luoghi delle loro sepolture.
Lewis (1955:
172) riferisce di un pellegrinaggio alla tomba dello sceicco Abba
Yeddidi sulla vetta del monte Gouda. Anche Morin (1991: 29) fa
menzione di rituali effettuati sui luoghi di sepoltura di alcuni
importanti mistici sufici. Ad esempio egli cita il caso di un
pellegrinaggio sulla sommità del monte Baracbarré
nel Godà vicino Tagiura, dove è sepolto il mistico iraniano del III
secolo dell’egira, lo sceicco Abazed Bayazid al-Bistami. Gli Afar
tributano un culto votivo a questo “santo” perché ritengono che
egli abbia combattuto su questo monte contro gli spiriti malvagi e il
diavolo. Un'altra informazione importante è quella riportata da
Lewis (1955: 172) e da Chailley (1980: 94) secondo i quali a Gibuti e
a Tagiura sarebbero presenti alcune confraternite in cui si
praticherebbe il dhikr14.
La cerimonia di dhikr rientra nella vasta morfologia dei cosiddetti
stati modificati di coscienza15.
Letteralmente il termine dhikr significa “menzione” del nome di
Dio o di qualche suo attributo. La pratica di dhikr viene così
definita nel testo dell’etnomusicologo Gilbert Rouget (1980: 354):
“In
senso molto generale, il dhikr può essere definito come un esercizio
religioso che consiste nel ripetere il nome divino per rievocare Dio
e al tempo stesso per farsi ricordare da lui, nella speranza di
attirare su di sé la sua benedizione”.
In effetti si
tratta di un esercizio complesso che si può effettuare
individualmente o collettivamente e che consiste nel ripetere
ritmicamente a voce alta o interiormente uno dei nomi di Allah16
o di determinate frasi, spesso coraniche, come ad esempio “non v’è
altro Dio a eccezione di Allah”. Come metodo individuale il dhikr
si risolve in un insieme di elaborate tecniche psico-fisiche, quali
il controllo del respiro, movimenti ritmici del corpo e una
ripetizione ritmica silenziosa ed interiore del nome divino, volte al
raggiungimento di uno stato di estasi, un totale assorbimento in Dio,
il considdetto stato di fanâ’. La cerimonia del dhikr collettivo è
invece legata indissolubilmente alla musica e alla danza e in alcuni
casi anche a pratiche fachiriche. Al culmine della cerimonia si
raggiunge uno stato di trance mistica che può assumere anche la
forma di “trance di possessione”. In questo caso occorre
precisare che non si tratta di una presa di possesso della persona da
parte di Dio, poiché nell’Islam ciò sarebbe ritenuto empio, ma di
una relazione immediata con Dio che possiamo definire di “comunione”.
L’adozione di rituali come il dhikr da parte degli Afar, almeno in
alcuni centri abitati islamizzati, è un’altra testimonianza della
“vicinanza” del modello sufico con la situazione culturale
tradizionale che non è estranea a rituali che rientrano nella
tipologia degli stati modificati di coscienza. Possiamo citare ad
esempio il rituale “tradizionale” coreutico divinatorio
denominato “danza del ginnili”, al centro del quale è
un’esperienza di trance di possessione ispirata.
La risultanza di
questi dati dimostra che la situazione culturale degli Afar rispetto
l’Islam, mantiene un forte sottofondo tradizionale.
VII.2.) L’organizzazione
simbolico-religiosa Afar
Arrivare al
pre-islamico Afar è difficile. È stato già detto che al centro
della religione tradizionale Afar dovrebbe esserci un
cosiddetto Essere Supremo Celeste17, che essi chiamato
Figu/Wak/Zar.
Per gli Afar,
Figu (Wak\Zar) è il creatore del mondo e di tutti gli esseri viventi
(Lewis 1955: 172). Ha il potere di controllare (non in maniera
esclusiva però) tutti gli elementi che non sono controllabili dagli
esseri umani e che sono di fondamentale importanza per la loro
esistenza. Ad esempio la nascita, la morte e la malattia, ma anche la
pioggia, il tellurismo (molto diffuso in tutta l’Africa Orientale e
alimentato da un intenso vulcanesimo), la siccità sono tutti
elementi che manifestano la presenza e l’intervento di entità
extraumane su natura e vita umana (vedi in proposito Morin 1991:
28-34). Le entità extraumane che affiancano l’Essere Supremo sono
quelle che abbiamo già menzionato a proposito dei destinatari della
pratica sacrificale: antenati, spiriti di morti, geni dell’acqua e
della terra (o spiriti della natura). Quest’ultimi dopo
l’islamizzazione sono confluiti nella categoria di spiriti
dell’Islam denominata con il nome di ginn. Questi ginn sono degli
spiriti la cui esistenza è sancita anche dal Corano18.
Lewis (1993: 57) propone i ginn come esseri antropomorfici che si
appostano in determinati luoghi naturali (punti d’acqua, alberi,
rocce) e sono pronti a colpire i passanti.
I culti rivolti ai
ginn dagli Afar hanno come scopo principale quello di assicurarsi la
loro benevolenza (è il caso, già visto nel capitolo VI, dei
sacrifici fatti per acquietare i ginn del mare durante la festa del
mare di ottobre che si svolge ogni anno a Tagiura).
Altri aspetti di
un certo rilievo nel contesto del religioso preislamico Afar sono le
pratiche magiche e di stregoneria. Affrontare il problema del
“magico” Afar appare troppo complesso. Tuttavia in base ai dati a
nostra disposizione possiamo vedere che tra gli Afar, come del resto
accade in gran parte del continento africano, è molto diffusa la
convinzione nell’efficacia delle pratiche magiche e di
stregoneria19.
Ciò ha notevoli ripercussioni nell’ambito sociale e influenza
comportamenti e modi di pensare. Spesso vari tipi di malattie o
afflizioni e talvolta anche decessi, sono spiegati dagli Afar
invocando cause magiche o stregonesche. Tuttavia questa non è la
regola. Responsabili principali delle sventure che colpiscono i
singoli individui o la collettività sono, secondo gli Afar, gli
esseri extraumani che in questo modo intendono punirli per qualche
loro inadempienza. Gli Afar distinguono in maniera piuttosto netta
tra magia e stregoneria. Mentre la prima può essere interpretata
come una manipolazione di forze misteriose per ottenere dei fini
pratici non sempre benevoli. La seconda consiste in un uso di mezzi e
spiriti agenti nel loro più segreto e antisociale aspetto. Per
questo gli Afar mostrano un diffuso timore delle pratiche di
stregoneria e soprattutto di coloro che si reputa ne facciano uso.
Sulla base delle
informazioni e degli esempi forniti da Chailley (1980: 95) si ricava
che la magia praticata dagli Afar è soprattutto una magia
simpatetica e contagiosa. Egli segue nella sua indagine un modello
interpretativo basato sulla formula di Frazer (The magic art I, 1911)
nota come “legge di simpatia”. Si tratta di un principio generale
che secondo Frazer governerebbe il mondo magico.
La “legge di
simpatia” si basa sull’assunto che il simile produce il simile.
Ciò significa che qualcosa che è stato in contatto con una persona
continua ad agire su di essa anche quando il contatto viene meno.
Questo principio rende possibile la cosiddetta “magia contagiosa”.
Per essa è possibile agire su una persona se si è in possesso di
qualcosa che gli appartiene, come ad esempio capelli, unghie, un
pezzo di vestito. Analogamente è possibile agire, sempre per lo
stesso principio, sull’immagine di una persona o ad esempio su una
sua impronta. Vediamo di seguito una testimonianza riportata da
Chailley (1980: 95), di un uso del “magico” tra gli Afar che
possiamo interpretare secondo la formula di Frazer:
“L’indigène
de la brousse a soin d’enterrer dans un endroit caché ses ongles
et ses cheveux. Le prétexte qu’il invoque maintenant est de se
retrouver au complet, lors du judgement dernier20.”
In questo caso
possiamo osservare che la magia è fatta in prospettiva non più
immediata ma addirittura escatologica.
Ciò mostra il segno
evidente di una contaminazione con il modello culturale islamico. Di
seguito Chailley riferisce di un uso negativo, possiamo dire
stregonesco, della magia “contagiosa” tra gli Afar. Alla base
della sua interpretazione vi è l’idea condivisa da tutti gli Afar
che lasciare qualcosa di se stessi a disposizione di nemici da loro
la possibilità di compiere una stregoneria malefica:
“C’est
dans cet esprit que, lorsque l’indigène veut nuire à quelqu’un,
il cherche à recouper sa trace, il poignarde l’empreinte d’un de
ses pas; il ramassera ensuite le sable, l’emportera, le mélangera
d’herbes, en récitant quelque formule, et dispersera le tout au
vent. L’envouté, invariablement deviendra boiteux21.”
Queste forme di
“magia” sono utilizzate dagli Afar soprattutto nella sfera
terapeutica. Si può osservare in proposito una ritualizzazione della
pratica medica. Il processo risulta influenzato dall’Islam22.
Come dice Trimingham Spencer (1980: 121) nell’Islam una delle basi
del potere magico è proprio il Corano che rappresenta la parola di
Dio23.
Si ritiene che certi versi tratti dal testo sacro coranico hanno
efficacia d’incantesimi. Trimingham Spencer (1980: 122) sostiene
che la “magia” islamica fa uso di versi tratti dalla sura di Ya
Sin (XXXVIV), dei versi 113-114 tratti dalla sura di mu’awwidhatan
e di tutti quei versi in cui si glorifica il nome di Dio. Alla base
del potere di questi versi sta la teoria secondo la quale le lettere
dell’alfabeto sono i segni del linguaggio eterno di Dio. Questi
segni sono all’origine della creazione e rappresentano la
“materializzazione” della parola divina. Sul potere magico
attribuito a certe frasi del Corano si basa anche la costruzione di
amuleti (hirz in arabo). Tra gli Afar l’uso di amuleti è molto
diffuso. Per la loro costruzione essi si rivolgono a santi sufici
(marabutti). L’amuleto viene costruito inserendo dei foglietti di
carta su cui sono scritti determinati versi del Corano o nomi di
angeli e ginn, numeri e simboli, talvolta anche trascrizioni di versi
o canti tradizionali Afar, in sacchettini di pelle che vengono
indossati in parti diverse del corpo secondo prescrizioni individuali
(Trimingham Spencer 1980: 123). Essi servono per protezione personale
in guerra ad esempio, o contro il malocchio e per la cura di
malattie. L’efficacia attribuita a questi amuleti risiede nella
credenza che il potere inerente nelle parole o frasi del Corano o in
altri segni, può essere trasferito ad oggetti e da essi alle persone
che li indossano. Dice Trimingham Spencer (1980. 123) che anche la
persona che costruisce questi amuleti deve essere ritenuto in
possesso di un potere taumaturgico e “carismatico”. Per questi
motivi gli Afar ricorrono quasi sempre ai “marabutti”. Tuttavia
Chailley (1980: 95) sostiene l’esistenza di un personale
specializzato in pratiche magiche anche all’interno dei gruppi
Afar, fermo restando il ricorso ai santi sufi o marabutti per la
costruzione di talismani e per altre pratiche magico-religiose:
“L’indigène
déclare que certains d’entre eux peuvent arreter un oued en crue,
le temps de sauver leurs troupeaux: il faut, après avoir récité
une formule, se précipiter au milieu de l’oued en le défiant de
sa lance24.”
Si tratta di persone
che si ritiene dotate di grandi poteri tra i quali la capacità di
immobilizzare intere mandrie di bestiame o di deviare il corso dei
fiumi. Il loro potere si basa anche sul possesso di conoscenze
particolari nel campo della botanica e nell’uso di erbe per scopi
magici. Importante è sempre la centralità dell’utilizzo della
parola a fini magici sotto forma di preghiera, incantesimo o canti.
In un passo precedente Chailley (1980: 89) riferendosi agli addetti
alla pratica medica presso gli Afar dice:
“…paiens
et musulmans, féticheurs ef marabouts, semblent faire trés bon
ménage. Et l’on arrive à une double évolution: d’une part, le
père de famille est remplacé dans l’excercise de la médicine par
un spécialiste, d’autre part, certains familles se sont
spécialisées dans la guérison de telle ou telle affection. Enfin,
dans bien des cas, la médicine est devenue secrète. Le sorcier
médicastre, conservant jalousement ses recettes, ne les transmet
qu’à son successeur. Il persuade à ses clients que les plantes
employées n’auraient aucun effet sans son intervention personelle,
bien plus, qu’elles pourraient etre nuisible25.”
Da questo passo si può
evincere l’esistenza di una specializzazione da parte di individui
e addirittura di certe famiglie o gruppi nella pratica di una
medicina che assume caratteri magico religiosi e di cui si esaltano
la segretezza e il possesso di consoscenze superiori.
In effetti poco dopo
Chailley (1980: 92) riporta nel suo testo un’elenco di “tribù”
che gli Afar ritengono in possesso, almeno fino al momento in cui
egli ha raccolto queste informazioni (1935-37), delle conoscenze
“magico-terapeutiche” necessarie per la cura di determinate
malattie e afflizioni. Da questo elenco si può vedere che i Seka
guariscono tutti i tipi di afflizione tramite la preghiera.
Gli Hamodadi sono
specializzati nel ricomporre le fratture.
I Garaysa curano
invece, le bruciature. Importante notare che ad essi è proibito
toccare il fuoco prima del tramonto. I Tak’il guariscono le
affezioni del ventre, mentre i Mafa sanano le piaghe con la saliva.
Infine gli Adniyto sono ritenuti grandi stregoni e specialisti negli
studi di medicina. Sia che si tratti di individui, sia di interi
gruppi, sempre sono richieste conoscenze particolari nella sfera
terapeutica e in alcuni casi poteri carismatici. Da rilevare in tutti
i casi è la grande importanza ed efficacia magico religiosa che
viene attribuita alla preghiera26
e alla formula recitata e scritta. A questa pratica di derivazione
islamica si affianca l’uso di rimedi pratici più tradizionali:
fuoco, piante, burro e persino escrementi.
Tra di essi il
primo posto è occupato senza dubbio dal fuoco. Dice un proverbio
Afar “Il fuoco e il male non restano mai insieme” (Chailley 1980:
89). Il fuoco viene imposto sulla parte malata del corpo soprattutto
in caso di dolori reumatici o mal di testa, bronchiti e mal di
stomaco. Il burro invece viene usato scaldato per cicatrizzare le
ferite. Chailley (1980: 90) riferisce che quando un guerriero si fa
evirare e riesce a scappare, versa del burro bollente sulla ferita
per cicatrizzarla. Egli di seguito fa menzione anche dei nomi di
alcune piante usate a scopi medici. Tra queste la Kusra (Zizyphus
mauritiana) le cui foglie vengono fatte macerare in acqua versata poi
su ferite e piaghe per aiutare la cicatrizzazione; un’altra pianta
è quella chiamata Sanu (Cassia italica detta anche “Senné del
Mecque” in francese). Le sue foglie vengono triturate e utilizzate
per fare delle tisane con effetti purgativi. In Morin (1991: 31) si
fa menzione di un’altra pianta utilizzata per scopi
magico-religiosi. Si tratta della Cadaba rotondifolia le cui foglie
usate in decotti o tisane sono ritenute avere facoltà di scacciare
la paura e sono per questo usate dai guerrieri.
Una pianta molto
particolare è il qat (Catha edulis). Di essa fanno menzione Chailley
(1980: 81) e Lewis (1991). Il qat è una pianta che ha proprietà
stimolanti. Le sue foglie sono consumate fresche ed hanno un gusto
molto amaro. L’uso comune è una lenta e prolungata masticazione.
Talvolta però, si usa sotto forma di infuso. Leggermente eccitante,
afrodisiaca, la pianta del qat procura uno stato d’euforia e di
veglia procurando anche un aumento nelle prestazioni fisiche.
Proviene dagli altopiani etiopi e il suo uso è molto diffuso tra le
popolazioni musulmane di pastori nomadi. Secondo quanto riportato da
Lewis (1991: 12) il qat sembra avere un importante ruolo sociale,
terapeutico e religioso. Essa è impiegata ritualmente nelle
cerimonie del culto degli zar.
In un passo del
testo di Michel Leiris (1988: 44) sui culti di possessione zar in
Etiopia, si fa menzione di un uso magico-terapeutico del qat. Il
procedimento consiste nel masticare foglie di qat e poi sputarle sul
viso o sulla parte specifica in cui “risiede” il male. In questo
modo si crede che il male, o il potere che lo provoca, venga
eliminato. Il qat, in virtù dei poteri magico-religiosi che gli
vengono assegnati, è considerata dagli Afar una pianta sacra. In
questo senso può essere inserita tra le numerose piante dalle virtù
allucinogene in grado di provocare ritualmente uno stato di trance
indotta, usate in culti terapeutici quali il peyotismo27.
Al consumo rituale e terapeutico si accompagna un uso sociale.
Attualmente nella Repubblica di Gibuti vi sono dei luoghi deputati
chiamati “mabraze” in cui si effettua una consumazione collettiva
di qat.
Se ne parla in un
reportage su Gibuti apparso nel numero 174 (marzo-aprile 1999) nella
rivista francese “Le courrier”. All’interno del mabraze vi è
un’atmosfera conviviale che facilita la costituzione e il
rafforzamento di legami d’amicizia. Il punto culminante di questa
consumazione è il raggiungimento dello stato cosiddetto di “mirghan”
ossia lo stato euforico procurato dalla masticazione delle foglie
della pianta. Le reazioni dei partecipanti sono diverse: al silenzio
di alcuni si contrappone l’euforia oratoria di altri. Nel tardo
pomeriggio tutti tornano alle loro case. Questo tipo di consumazione
collettiva sembra essere una pratica quasi esclusivamente maschile.
Presso le donne il fenomeno è ancora marginale.
Il consumo di qat è
consentito dalle autorità soltanto una volta la settimana! Negli
ultimi anni il presidente della Repubblica di Gibuti Hassan Gouled
Aptidon ha alimentato una campagna contro l’uso del qat con lo
scopo di proibirne la vendita e il consumo (è da sottolineare che il
commercio del qat alimenta un lucroso giro di affari).
Gli argomenti del
presidente si basano su una presunta pericolosità per la salute di
chi fa un uso prolungato della pianta. Secondo delle recenti ricerche
mediche gli effetti dannosi per la salute del consumo di qat sono a
lungo termine e riguarderebbero problemi al tubo digestivo e in
particolare ulcere. Inoltre l’assunzione regolare di qat
provocherebbe danni cardio vascolari e neurologici. Tuttavia il
commercio e il consumo di qat è ancora consentito in tutto il Corno
d’Africa.
Ritornando alle
credenze degli Afar occorre far menzione di una situazione di timore
assai diffuso degli stregoni che si lega alla credenza nella
licantropia28,
nota tra gli Afar con il nome “butà”. Questo termine deriva
secondo Morin (1991: 27) dall’amarico “buda” che in origine
veniva usato per designare la categoria dei fabbri che si credeva
stregoni dotati di un potere malefico negli occhi e accusati di
nutrirsi di carne umana e di trasformarsi in iene o in altri rapaci
notturni. In uno studio dell’antropologo italiano Vinigi Luigi
Grottanelli (1976) si fa riferimento al radicato convincimento
popolare di questa credenza in Etiopia tale da assumere il valore di
realtà sociale. Egli dice (1976: 64) che in Etiopia la credenza
nella reale esistenza di questi esseri viene suffragata citando dei
fatti concreti a supporto:
“La
realtà di simili metamorfosi, l’effettiva identità dell’uomo
con la belva, sono ritenuti dimostrati da indubbi indizi: si scoprono
orme di iena che conducono diritto alla capanna dell’individuo
sospetto, oppure sul corpo di questo si riscontra la stessa ferita
che in una notte precedente qualcuno riuscì a ferire l’animale.”
In questo senso
il buda non è molto differente dal licantropo europeo o lupo
mannaro. Tra gli Afar è diffusa la credenza nei licantropi-iena. Per
essi il licantropo è un individuo in possesso di poteri magici,
temibile per il malocchio e che la notte si trasforma in una iena per
divorare gli esseri umani o più spesso i cadaveri29.
Nel testo di Vinigi L. Grottanelli vengono riportati alcuni racconti
di viaggiatori europei che riguaderebbero casi reali di licantropia
associati a cannibalismo. Tra questi racconti ve ne sono alcuni che
riguardano gli Afar. Si tratta di un caso di antropofagia riferito da
C. W: Harris30.
Secondo il suo
racconto l’individuo che aveva compiuto cannibalismo fu messo al
bando dalla società (galeila). Harris sostiene che il cannibale
portava al collo una collana di intestini. Altro caso di cui si da
notizia nel testo di Grottanelli è quello narrato da C. Johnston nel
libro “Travels in southern Abyssinia” (s.d.). Anche in questo
caso l’antropofago è un “galeila” ossia un espulso dalla
società. Interessante il particolare secondo il quale il cannibale
portava legata attorno al collo una coda di iena. Sulla base dei
fatti riportati in questi racconti si può sostenere soltanto
l’eccezionalità dei presunti casi di antropofagia praticati tra
gli Afar confermata anche dalla marginalizzazione di questi individui
dalla società. Quando scoperta l’antropofagia suscita orrore. Il
cannibalismo reale o presunto praticato dagli uomini-iena va inserito
in un contesto più ampio che racchiude le idee riguardanti il potere
mistico in generale e la stregoneria in particolare. L’accusa di
stregoneria viene fatta ad individui che impiegano forze oscure per
raggiungere fini individuali ai danni della società. Chi pratica la
stregoneria diviene perciò un individuo dotato di caratteristiche
antisociali per eccellenza, come l’incesto o il cannibalismo.
Interessante in proposito il particolare collegamento riferito da
Grottanelli (1976: 65) secondo il quale i buda apparterrebbero sempre
a basse “caste”:
“…l’aspetto
sociale di questa credenza è provato dal fatto che i buda sono quasi
universalmente reputati appartenere alle basse caste: essi sono ad un
tempo i fabbri e i vasellai, gli stregoni e i licantropi.”
Anche nel testo di
Lewis (1991: 24) sul culto degli zar compare un riferimento preciso
alla credenza diffusa nei buda e al legame tra l’accusa di essere
buda e individui o gruppi di individui socialmente emarginati. In
questo caso si tratta della minoranza ebrea dei Falasha. Tutti i
Falasha sono ritenuti essere buda attivamente o potenzialmente.
Questa generale accusa rivolta ai Falasha ha condotto alla loro
atroce persecuzione e discriminazione in Etiopia. Un passo riferito
da Joseph Tubiana in un suo studio presente nel testo di Lewis (1991:
25) dice che:
“Falasha
told me that when one of them was killed by a christian who accused
him of being a buda, the murderer was never condemned31.
“
In base a questi dati
l’accusa di essere buda può essere assimilata all’accusa di
stregoneria con la quale è legata dalla sua valenza antisociale. La
credenza nei buda perciò, è tra gli Afar e presso altre popolazioni
dell’area etiope, non una credenza superstiziosa, ma una “realtà”
sociale. Essa serve a mascherare, al pari dell’accusa di
stregoneria, stati di tensione o aggressività sociale.
NOTE
1
Sul tema del politeismo vs monoteismo e sul rapporto tra
politeismo e culture complesse con una struttura simbolica molto
compatta rispetto a modelli “sciolti” anche prepoliteisti quali
quelli degli Afar, vedi il dibattito che si è svolto nel corso del
‘900 nell’ambito degli studi antropologici e storico-religiosi
(Brelich 1995: 18-19). Sul politeismo vedi: Dario Sabbatucci
“Politeismo” 1998 Roma, Bulzoni Editore.
2
Il
nome Figu letteralmente significa Dio. Come abbiamo visto nel
capitolo dedicato al sacrificio, il nome di Figu viene tuttora
conservato in alcune forme rituali tradizionali praticate nei
luoghi
ritenuti essere la sede della sua potenza.
In
Lewis (1955: 172) per identificare l’Essere supremo celeste
adorato dagli Afar e dai Galla viene usato il nome Wak.
3
La dimensione storica tuttavia non è teologica. Dipende dalla messa
in atto del sistema della genealogia che l’Islam ha ripreso dalla
tradizione ebraica.
4
Ogni tai’fa segue una propria “Tariqa”. Tariqa è un termine
arabo che significa “Via”, “metodo” e designa il modello
sufico di ricerca di contatto con Dio seguito dalle confraternite
mistiche islamiche. Tuttora, esistono numerose confraternite
musulmane diffuse in tutto il Medio Oriente, in Asia e in Africa.
Nelle città costiere del territorio dancalo, soprattutto a Gibuti,
molto rappresentata sembra essere la setta dei Qadiriyyah, che è
caratterizzata da un grande spirito di tolleranza. Così Lewis
(1955: 172) e Chailley (1980: 94).
5
Traggo da Bausani (1999: 37)le seguenti informazioni: Sari’a
letteralmente può essere tradotto come “la via battuta” o “via
battuta”. “Essa disciplina tutta l’attività umana in quanto
esplicata nel mondo esterno, prescindendo da quella fede e da quelle
credenze di cui, nel foro interno è giudice Dio solo”. Per i
musulmani la legge è la diretta e personale volontà di Dio così
come è stata espressa al Profeta.
6
Dice
Bausani (1999: 28): “la legge di Maometto è quella definitiva e
valida per tutta l’umanità”. Nel Corano (XXXIII, 40) egli è
definito “il sigillo dei profeti” perché con lui si concludono
la serie di rivelazioni fatte da Allah ai vari profeti ammessi
dall’Islam.
7
“Qadis istruiti nella sari’a sono trovati sparsi
attraverso il paese come pure wali musulmani itineranti che fanno
qualche tentativo di impartire i rudimenti della dottrina islamica,
forse non con pieno successo, in quanto spesso essi vengono
identificati con i sacerdoti preislamici cusciti.”
8
“…non è trascorso ancora molto tempo che tra i
Badoytammela (Gofto), per esempio, si considerava pericoloso per i
bambini studiare il Corano, poiché poteva attirare su di loro delle
gravi calamità fino a provocare la morte.”
9
Vedi M. Chailley (1980: 93 e 95) ma anche Trimingham Spencer
(1980: 122)
10
“In città, le moschee sono in pietra; frequentemente nel
deserto, esse sono rimpiazzate da un recinto quadrato delimitato da
un muretto di pietra secca e includente un alveolo formante un
mihrab. Una pelle secca di animale, una stuoia bianca, nella quale
uno dei lati piccoli mostra una sporgenza semi-circolare per
simulare il mihrab rimpiazza il tappeto di preghiera, che non esiste
per così dire.”
11
Il culto dei santi musulmani (awliya) è diffuso in tutta
l’Africa del nord. Al santo si attribuiscono uno speciale influsso
salutare (baraka) e il compimento di atti miracolosi (Karamat,
distinti dai miracoli maggiori, mu’gizat, dei profeti). La
santità, mancando una chiesa che possa canonizzare i santi, è
proclamata dall’opinione popolare e ha spesso valore locale.
Sull’argomento vedi: H. Chambert-Loir e C. Guillot (a cura di), Le
culte des saints dans le monde musulman, Ecole francaise de
l’extreme orient, etudes thématiques, 4, 1995; E. Gellner, Saints
of Atlas, Chicago University Press, Chicago-London 1969;
C.Mayeur-Jaouen, L’intercession des saints, in “Annales
islamologiques”, XXV (1991), pp. 364-388.
12
Il termine sufismo deriva dall’arabo “suf” che
significa lana. Esso si riferisce alla materia con la quale erano
fatti i sai con cui andavano vestiti i primi mistici-ascetici. Nella
lingua araba “sufi” significa proprio “mistico”. Il sufismo
designa il misticismo islamico, ossia il modo attraverso il quale si
può ottenere un contatto personale e diretto tra l’uomo e Dio.
Esso affianca alla dottrina e alle pratiche dell’Islam, alcuni
elementi concettuali, liturgici (cerimonie del Dhikr),
etico-ascetici e mistici, oltre ad avere un’organizzazione che
prevede la costituzione di confraternite (Bausani 1999: 69).
13
“Le discipline sufi (turuq, singolare tariqa) furono
probabilmente una tarda importazione e certamente non datano prima
della loro popolarizzazione in Sud-Arabia dalla quale essi furono
introdotti.”
14
Secondo
le informazioni riportate da Chailley (1980: 94) e da Lewis (1955:
172) le più diffuse confraternite (ta’ifa) in queste città
sarebbero due: quella più radicata sembrerebbe essere la
confraternita mistica dei Qadiriyya che fu fondata nel XII secolo a
Bagdad e che si caratterizza per un grande spirito di apertura e
tolleranza. Essa è diffusa in tutto il mondo musulmano. L’altra
sarebbe quella dei rifa’iyya, fondata in Iraq sempre nel XII
secolo. I suoi seguaci vengono chiamati “dervisci urlanti” per
via di particolari forme dhikr caratterizzate da pratiche fachiriche
come quella di camminare sopra i carboni ardenti.
15
Per una trattazione esauriente della tipologia degli stati
modificati di coscienza rimando a George Lapassade “Les états
modifiés de coscience” Paris 1987. Presses
universitaires de France. Traduzione italiana “Stati
modificati e transe” Roma 1993, Edizioni sensibili alle foglie
cooperativa a.r.l. Vedi anche Gilbert Rouget “La musique et la
trance” Paris 1980, Gallimard. Traduzione italiana “Musica e
transe” Torino 1986. Einaudi.
16
Nell’Islam, Allah è uno dei cento nomi con cui viene
nominato Dio, novantanove dei quali sono conosciuti, il centesimo è
sconosciuto.
17
Nell’ambito dell’ampio dibattito che si è svolto nel
corso del ‘900 nel contesto degli studi storico-religiosi e
antropologici, cui abbiamo già accennato in precedenza, sulla
figura dell’Essere Supremo celeste delle religioni dei popoli
cosiddetti “primitivi”, un importante contributo è stato
fornito dallo storico delle religioni italiano R. Pettazzoni.
Secondo Pettazzoni, l’Essere Supremo non è un Dio assoluto, unico
e onniscente al pari del Dio dei monoteismi. Accanto alla sua figura
compaiono altri esseri (antenati, spiriti ecc…) la cui venerazione
è compatibile con quella dell’Essere Supremo. Tuttavia l’Essere
Supremo non può essere assimilato ad un Dio delle religioni
politeistiche poiché non si differenzia sufficientemente dalle
altre entità spirituali venerate all’interno dello stesso modello
culturale di riferimento. In questa prospettiva possiamo stabilire
che la struttura simbolica di riferimento della religiosità Afar
non sembra avere un impianto di tipo politestico.
18
Ai ginn è dedicata la sura LXXII del Corano, “Gli
spiritelli, oppure i ginn”.
19
Per la magia e la stregoneria in Africa un testo classico è
quello di Evans-Pritchard intitolato: “Witchcraft, oracles, and
magic among the Azande” Oxford 1937. Sempre di Evans Prithcard
vedi “Witchcraft” in “Africa” volume 8, n. 4, Londra 1955.
20
“L’indigeno del deserto ha cura di interrare in un angolo
nascosto le sue unghie e i suoi capelli. Lo scopo che egli invoca
nel frattempo è quello di ritrovarsi al completo il giorno del
Giudizio ultimo.”
21
“E’ in questo spirito che quando un indigeno vuole
nuocere a qualcuno cerca di ritagliare la sua orma, e pugnalare
l’impronta di uno dei suoi passi; egli raccoglierà in seguito la
sabbia, la metterà in un vaso e al mescolerà con erbe recitando
qualche formula disperdendo il tutto al vento. Lo stregato diventerà
inevitabilmente zoppo.”
22
La magia (sihr) nell’Islam forma parte di quelle che sono
chiamate “ulum al-ghayb” “scienze occulte”, che includono la
divinazione, l’astrologia e l’oniromanzia (“The encyclopedia
of religion” a cura di Mircea Eliade, New York 1987.
23
Come sottolinea Bausani (1999: 23): “…non si tratta di
suoni sussistenti nella essenza di Dio, si tratta piuttosto di un
verbum mentis che non consiste in suoni e lettere. Contro coloro
che, al solito, giungevano a dire che le lettere stesse degli
esemplari del Corano erano parole di Dio, Al-Gazzali, il grande
teologo musulmano del XII secolo, ammette che le lettere sono
temporali, ma sono i segni del linguaggio eterno di Dio.”
24
“L’indigeno dichiara che alcuni individui tra di loro
possono fermare un fiume in piena per il tempo necessario a salvare
il loro bestiame: bisogna, dopo aver recitato una formula,
precipitarsi in mezzo al fiume deviandone il corso a partire dalla
sua lancia.”
25
“…pagani e musulmani, costruttori di feticci e marabutti,
sembrano fare un buon ménage. E si arriva ad una doppia evoluzione:
da una parte il padre di famiglia è rimpiazzato nell’esercizio
della medicina da uno specialista, dall’altra parte, certe
famiglie si sono specializzate nella guarigione di questa o
quell’altra afflizione. Infine, in molti casi, la medicina è
divenuta segreta. Lo stregone medicastro conserva gelosamente le sue
ricette, le trasmette solo al suo successore. Egli persuade i
clienti (pazienti) che le piante impiegate non avranno alcun effetto
senza il suo intervento personale e di più ancora che esse
potrebbero essere nocive.”
26
La preghiera a favore e contro qualcuno è il metodo usato
dai santi sufi per aiutare i bisognosi o per punire i loro nemici
(Trimingham Spencer 1980: 122).
27
Sul peyotismo vedi: Vittorio Lanternari “Movimenti
religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi” Milano
1960; W. La Barre “The peyote cult” in “Y.P.A.” XIX, 1938
28
Ancora oggi il tema rimanda ad un argomento che di per sé
richiederebbe un lungo studio in chiave comparata con precisi
riferimenti all’area culturale europea e mediterranea antica e
moderna. Per la presenza del ciclo del licantropo nelle tradizioni
folcloriche europee vedi: “Handwörterbuch des deutschen
aberglaubens”, Band IX, 1987. Walter De Gruyter. I edizione 1941.
29
Presso molti popoli “primitivi” tali concezioni si basano
sulla credenza che ogni individuo abbia un proprio “doppio” in
forma animale (“The encyclopedia of religion”, a cura di Mircea
Eliade, New York 1987).
30
C. W. Harris: “Gesandschaftsreise
nach Schoa und Aufenthalt in Sudabyssinien” 1841-43,
Stuttgart-Tubingen.
31
“I Falasha mi dissero che quando uno di loro veniva ucciso da un
cristiano che lo accusava di essere un buda, l’assassino non era
mai condannato”.