CAPITOLO VI
Specifici
simbolici Afar: il sacrificio
VI.1.) Il sacrificio
cruento
Nella costruzione del
complesso tessuto simbolico della prassi culturale Afar, il
sacrificio ha avuto e continua ad avere, là dove permangono
condizioni di vita “tradizionali”, un ruolo molto importante. Il
sacrificio è una pratica rituale molto discussa soprattutto
nell’aspetto particolare di sacrificio cruento.
Nonostante i
numerosissimi studi svolti su questo tema, che hanno permesso di
illustrare e mettere in luce i suoi vari aspetti, non si è ancora
giunti a formulare una teoria compiuta su questo fenomeno.
Il sacrificio,
comunque, pur nella sua complessità, presuppone alcuni aspetti
centrali fissi, che in proiezione comparativa possiamo dire comuni a
tutte le culture. Prendendo spunto dall’analisi del concetto del
sacrificio più recente che dobbiamo a Cristiano Grottanelli (1999:
6), possiamo vedere che la pratica sacrificale si presenta
essenzialmente secondo due modelli: come dono rituale, ossia
l’offerta di un bene di prima necessità, a favore di una sfera
diversa sovrumana in un processo che possiamo definire di
“sacralizzazione”1
e come atto rituale che libera il bene sacralizzato per il suo
consumo da parte del gruppo umano. Così anche l’antropologo
francese Michel Cartry (1987: 268) autore di una raccolta di studi
antropologici sul tema del sacrificio animale.
Sulla base di questo
modello, si assume che i due aspetti del dono e dell’uccisione
rituali, presuppongono un passaggio dell’oggetto o della vittima
sacrificale, dal mondo degli umani e quindi del “profano”, al
mondo del sovrumano e quindi del “sacro” al fine di ottenere
qualche beneficio. Proprio su questi concetti fondamentali
dell’uccisione che organizzano il sacrificio cruento come rituale
sacralizzante e modo di liberare il bene per il consumo, ruota una
delle principali teorie del sacrificio dei nostri tempi, che noi
utilizziamo per poter far luce su alcuni aspetti importanti per
l’analisi che andiamo ad intraprendere in questo capitolo. Si
tratta della teoria proposta da Angelo Brelich (edizione 1995: 44)
che riconduce il fenomeno del sacrificio a tre divese modalità di
scambio tra mondo umano “profano” e mondo sovrumano “sacro”,
che egli chiama rispettivamente, “offerta primiziale”,
“sacrificio-dono” e “comunione”. Brelich (1995: 45) riferisce
l’offerta primiziale a quelle società che si basano sulla caccia e
sulla raccolta e che agiscono in un mondo che non sentono come
proprio, ma come appartenente ad una realtà extraumana. Di
conseguenza esse, per potersi appropriare e poi consumare i beni
necessari alla loro sopravvivenza, devono in certo qual modo
“desacralizzarli”. Prima però, occorre che la prima parte (la
primizia), in cui essi concentrano la “sacralità” dell’alimento,
sia offerta agli esseri sovrumani eliminando così, il senso di colpa
per l’appropriazione indebita (Brelich 1995: 45).
La seconda modalità
di scambio con il mondo del “sacro”, è quella del
“sacrificio-dono” che, secondo Brelich (1995: 46), è propria
delle società che si dedicano all’allevamento e alla coltivazione
ed è quindi, quella che più ci interessa ai fini del nostro
discorso. Il concetto che sta alla base di questo tipo di sacrificio,
è opposto a quello dell’offerta primiziale, perché presuppone che
ciò che viene offerto al mondo superiore degli esseri sovrumani,
appartiene al mondo degli umani.
In queste società,
infatti, è il lavoro degli uomini che produce dei beni e quindi essi
sono ritenuti come una proprietà del gruppo umano.
In questo caso perciò,
è necessario che l’offerta fatta dagli esseri umani sia
preventivamente “sacralizzata”.
Brelich (1995: 47)
sottolinea, comunque, come in realtà, quasi tutti i riti sacrificali
intesi come dono prevedono il consumo totale o parziale della vittima
da parte di coloro che fanno l’offerta. Essi, infatti, sostengono
che gli esseri sovrumani “ne gustano l’“odore”, o ne prendono
la “vita”, o l’“anima”, ecc.” (Brelich 1995: 48).
I veri
beneficiari del rito sono quindi i sacrificanti che ottengono un
prezioso bene di consumo “liberato”. Possiamo aggiungere che la
pratica della macellazione “rituale” tipo “Kasher2”
richiesta dalla Legge ebraica ma anche dalla Legge islamica
rappresenta un modello sacrificale “dimezzato”.
Un altro modello
classificatorio importante della prassi sacrificale riguarda il
sacrificio cosiddetto di “comunione”. In questo caso si possono
verificare varie eventualità: si ritiene ad esempio che il consumo
della vittima sacrificale avviene in comunione con gli esseri
extraumani, oppure si può avere una comunione di tipo “totemico”,
cioè l’inglobamento dell’essere sovrumano da parte del gruppo
umano attraverso la consumazione della vittima. Ciò presuppone che
vi sia un’identità tra la vittima del sacrificio e la divinità.
Infine, la partecipazione al pasto che crea una comunione fra i
sacrificanti, che è tesa a rinsaldare i vincoli sociali che legano
ed uniscono il gruppo umano (Brelich 1995: 48-49). Ciò che è più
importante nell’analisi condotta da Brelich è che il sacrificio
oltre a comportare la messa in relazione delle due sfere umana e
divina prevede la dimensione del consumo alimentare.3
VI.2.) Il sistema sacrificale degli Afar
La grande importanza
che gli Afar attribuiscono agli animali che allevano è legata, come
abbiamo già visto, al fatto che essi, non solo rappresentano la base
della loro alimentazione, ma anche il mezzo con il quale stabiliscono
le relazioni e regolano i contrasti all’interno della loro società.
L’intera esistenza degli Afar ruota attorno alle esigenze del
bestiame e il rapporto che essi instaurano con i propri animali
oltrepassa la sfera meramente pratica, influenzando in maniera
decisiva anche quella religiosa.
A questo proposito è
importante stabilire che, al pari di tanti altri popoli dediti al
pastoralismo nomade, gli Afar non uccidono quasi mai i propri animali
esclusivamente per cibarsene, ma soltanto in occasione delle
cerimonie che scandiscono il loro ciclo individuale di vita e nelle
altre manifestazioni della loro vita religiosa.
Teniamo presente
da subito che viene praticata l’uccisione rituale richiesta dalla
legge islamica e che i sacrifici rituali vengono celebrati sia in
occasioni fisse, date importanti dell’anno liturgico più o meno
islamizzato, sia in occasioni importanti ma non fisse. Tuttavia le
occasioni ufficiali di sacrificio si dispongono solo virtualmente
nell’ambito dell’anno “sacrale” islamico. In realtà la
prassi sacrificale rimanda alle tradizioni degli Afar extra o
preislamiche. Le grandi feste ufficiali dell’anno liturgico
musulmano che prevedono sacrifici rituali sono pressochè ignorate
dagli Afar4.
Il processo di osmosi
con l’Islam appare comunque forte nella formalizzazione del rito.
La pratica sacrificale acquista così una collocazione “religiosa”
complessa. Certamente le modalità che essa produce sono influenzate
in maniera decisiva dalle norme stabilite in proposito nel testo
sacro dell’Islam, il Corano. Le regole alimentari ritualizzate sono
considerate un importante espressione del mantenimento dell’identità
di un gruppo e allo stesso tempo anche un mezzo dinamico di
promuovere l’identità stessa. Nella Sura XXII di Al-Hagg – il
pellegrinaggio, versetti 32-38 leggiamo:
“Chi
esalta in trionfo i vessilli del Dio lo fa come effetto dell’amore
del suo cuore.
Da
quegli animali trarrete vantaggi fino a un termine fisso; il luogo
della loro immolazione è la casa antica.
Abbiamo
assegnato a ogni comunità il rituale dei loro sacrifici perché
invochino il nome del Dio sul bestiame che gli è stato affidato in
alimento. Il Dio vostro in effetti è il Dio unico: siate a lui
muslimuna. E tu, apporta lieta nòva a quanti si umiliano,
che
palpitano in cuore quando il Dio viene menzionato, che sopportano con
pazienza le avversità, che pregan nei tempi dovuti, che elemosine
fanno di ciò che abbiamo dato.
Per
quanto riguarda le bestie del sacrificio, le abbiam destinate proprio
ai riti sacrificali per il Dio, in esse c’è un bene per voi.
Invocate su loro il nome del Dio mentre aspettano in fila. Quando
sian cadute sui fianchi, mangiatene pure, datene da mangiare al
rassegnato e al mendicante. Per questo le abbiamo a voi sottomesse.
Speriamo almeno che ve ne ricordiate per ringraziare.
Le
carni e il sangue di tali animali non giungono al Dio, ma a lui
giunge il vostro atto di devozione. Ve li ha proprio sottomessi
affinchè il Dio possiate esaltare, giacchè egli vi ha guidati sul
retto cammino. E tu, porta la buona nòva alle genti di bene!
Il
Dio si impegna a difender coloro che credono, il Dio non ama il
traditore ingrato.”
In un’altra Sura del
Corano e precisamente la XVI, la sura delle api, versetti 115-116, si
menzionano le prescrizioni che riguardano il divieto di cibarsi di
determinate carni:
“ In
verità egli ha dichiarato haram per voi la carne di animale morto di
morte naturale, il sangue, la carne suina e l’animale ucciso sul
quale sia stato invocato altro nome diverso dal nome divino: che vi è
costretto, tuttavia, senza esserne voglioso e trasgressore, per lui
il Dio sarà indulgente e compassionevole.
Non
affermate, mentendo: “Questo è lecito e quest’altro è haram”,
con intenzione di inventare contro il Dio una menzogna. Chi inventa
menzogne contro il Dio non sarà mai felice.”
Nel primo passo,
si stabilisce che è Allah ad aver istituito il regime sacrificale e
che gli animali appartengono a Lui. Essi sono dati agli esseri umani
affinchè questi possano trarne i vantaggi di cui necessitano e
possano utilizzarli per i riti di sacrificio5.
Inoltre, si precisa che a Dio non giungono né le carni (di cui
invece si possono cibare liberamente gli uomini), né il sangue degli
animali sacrificati, ma che invece, Egli apprezza la “pietà” e
il timore di Dio mostrato dai sacrificanti. Infine, in questa Sura, è
stabilito che gli animali vanno sacrificati per glorificare Allah e
la Sua Onnipotenza, che guida gli esseri umani verso la “verità”
e la retta via (Grottanelli 1999: 89-90). Nel secondo passo, invece,
è importante rilevare il divieto di nutrirsi della carne di animali
morti che non siano stati uccisi ritualmente, o di quelli macellati
senza invocare il nome di Dio. Presso gli Afar, in materia di
sacrifici, si segue generalmente, quanto prescritto dal Corano e
quindi non è consentito mangiare la carne di animali che non siano
stati sacrificati in nome di Dio e il mancato rispetto di questo
divieto, da parte anche solo di un singolo individuo, si crede possa
far ricadere gravi afflizioni su tutto il gruppo (Lewis 1983)6.
Tuttavia
l’antropologo francese Didier Morin (1991) e quello inglese Joan M.
Lewis (1955), che si basano su testimonianze ed elementi raccolti nel
corso di ricerche effettuate sul campo, riferiscono che il sacrificio
cruento per il consumo alimentare praticato dagli Afar viene rivolto
a varie entità extraumane che risultano legate a forme e modelli
religiosi islamici e preislamici. Queste entità possono essere
individuate principalmente nell’Essere Supremo celeste Figu (Wak)
della religione pre-islamica, negli antenati, i ginn, i santi sufici
e gli zar. Lo statuto della “religione” Afar preislamico è molto
difficile da ricostruire. Gli elementi che possiamo estrarre dalle
fonti vengono a ricostruire un tipo di religione “primitiva”
dominata dalla presenza di un Essere supremo celeste7.
Secondo le informazioni che fornisce Didier Morin (1991: 28, 31)
sacrifici e offerte in onore di Figu (Wak), il Dio del Cielo adorato
anche dalle altre popolazioni classificate nel gruppo linguistico
“cuscitico” e il cui nome, dopo l’islamizzazione, è divenuto
generalmente sinonimo di Allah, sarebbero tuttora praticati
occasionalmente tra gli Afar.
Queste forme
rituali di sacrificio animale sono realizzate in determinati luoghi
(ad esempio certe montagne o vulcani8,
laghi e in genere tutti i punti d’acqua) ritenuti sede dell’essere
supremo e posti in cui si manifesta la sua massima potenza.
Dice
Morin (1991: 28): “…certaines
montagnes ont été (ou sont encore) des lieux de culte ancestraux,
par exemple le mont Falùm et le Dagàrri, en Erythrée, le cone
volcanique de l’Ayyàlu au sud-est de Gawwani. Ces montagnes sont
le siège d’une puissance supreme, dont le nom Fìgu, encore
conservé, est naturellement devenu synonyme d’Allah avec
l’islamisation, ma renvoie clairement à ce dieu du Ciel d’autres
populations de langues couchitiques9.”
Anche Lewis (1955:
172) testimonia della localizzazione del potere divino in specifici
luoghi montani e di sacrifici qui effettuati:
“On
the high peaks of Mount Ayelu is a shrine to which the Afar come on
pilgrimage from as far as Aussa, there to sacrifice after the rain,
to pray for the prosperity of stock, success in war and for good
health and well-being10.”
Morin (1991:
31-32) riferisce anche di offerte in onore di Figu poste ai piedi di
determinati alberi11
ritenuti sacri o appositamente consacrati. Dice
Morin:
“L’arbre
n’est pas vénéré en tant que tel, mais comme moyen de contact
avec l’au-delà. On sait que dans la religion ancestrale des Afars
des offrandes à Figu étaient déposées au pied de certains arbres
consacrés12.”
Il sacrificio
cruento rientra anche nel cosiddetto culto degli antenati. Si tratta
anche in questo caso di sacrifici praticati in date non fisse
dell’anno liturgico nel corso di determinate cerimonie (ad esempio
riti di passaggio) svolte per richiedere la loro benevolenza o il
loro aiuto. Anche per i sacrifici tributati agli antenati esistono
dei luoghi di culto specifico. In particolare Lewis (1955: 172)
riferisce un legame che gli Afar stabiliscono tra i propri antenati e
un albero che chiama “shola13”.
Concordiamo con Lewis (1995: 172) nel sostenere che i sacrifici
effettuati sui luoghi di sepoltura degli antenati tribali hanno con
ogni probabilità una grande importanza per il sistema dei lignaggi
Afar. Alle pratiche sacrificali legate al culto degli antenati si
legano i frequenti sacrifici fatti sulle tombe di importanti
personaggi, tra i quali un posto di rilievo occupano i cosiddetti
santi sufici (marabutti).
I sacrifici
animali in loro onore sono realizzati anche in occasioni ufficiali
del calendario liturgico, come nel caso di culti votivi o di
pellegrinaggi commemorativi annuali sulle loro tombe o sui luoghi da
loro visitati. Traiamo da Morin (1991: 27-28) l’informazione che si
tratta di santi musulmani della tradizione mistica sufica14
(accettata dall’Islam) sparsi lungo il territorio dancalo per
impartire i rudimenti della dottrina coranica. Ad essi la popolazione
Afar ricorre in varie occasioni specie per la costruzione di
talismani per protezione individuale. Ritenuti essere in possesso di
miracolosi poteri in vita, una volta morti essi intercedono presso
Dio nei luoghi della loro sepoltura. Alcuni dei luoghi in cui si
realizzano pratiche sacrificali in loro onore sono menzionati da
Morin (1991: 28-29).
Un sacrificio animale
speciale e sempre occasionale, chiamato “derqa” viene celebrato
come atto rituale nel culto di possessione detto degli zar. Ne parla
Michel Leiris (1988: 17) nel suo testo che analizza la possessione
degli zar presso gli etiopi di Gondar.
Gli zar sono ginn
antropomorfici caratterizzati da determinati nomi, caratteri, origini
e storia. Il nome zar definisce sia l’entità extraumana, sia il
tipo di afflizione che essa causa, ossia la possessione (Lewis 1993:
57). Il culto degli zar è una forma cerimoniale istituzionalizzata
che prevede una vera e propria iniziazione all’interno di una
confraternita di adepti. Il sacrificio cruento denominato “derqa”,
rientra in un complesso procedimento rituale volto ad identificare e
poi onorare lo spirito zar che si è “impossessato” della vittima
umana. Il fine è quello di far assumere al “paziente” afflitto
dallo spirito possessore una dignità particolare all’interno della
confraternita attraverso l’identificazione con un particolare
spirito zar. Citiamo in proposito un passo tratto dal testo di Leiris
(1998: 17):
“All’interno
della confraternita viene osservata una gerarchia che rispecchia
quella degli zar. La posizione di ogni membro della confraternita
dipende dal rango occupato nel mondo invisibile dallo spirito di cui
è il “cavallo”, e a cui, dopo l’interrogatorio, è stato
fatto, in suo nome, un derqa o sacrificio propiziatorio nel quale lo
spirito in causa beve pubblicamente un po’ di sangue e mangia un
po’ o tutta la carne della vittima, tramite la mediazione del
“cavallo”. Ai pazienti sono assegnati spiriti di rango più o
meno elevato a seconda dell’importanza del sacrificio…Ogni
sacrificio del tipo derqa serve insomma al paziente ad acquistare una
dignità particolare: come se il sacrificio fosse l’investimento
necessario per accedere a un certo grado della confraternita.”
Per la descrizione
particolareggiata del culto degli zar rimando al capitolo VIII.
Sacrifici sono celebrati in onore dei geni (ginn) del mare o di altri
luoghi naturali (laghi, alberi, rocce). Lewis (1955: 173) riferisce
di una cerimonia annuale che si svolgeva a Tagiura chiamata
“Cerimonia di ottobre dell’elemosina al mare” in cui si
praticavano sacrifici ai ginn del mare per placarli. In merito a
questa cerimonia sacrificale Morin (1991: 34) sostiene che essa
avrebbe avuto luogo l’ultima volta nel 1973.
È naturale che
attualmente tra gli Afar vi sia una certa disaffezione nei confronti
dei luoghi di culto tradizionali e un certo abbandono (almeno
apparente) di molti dei riti legati alle forme religiose anteriori
all’islamizzazione. Ciò è in gran parte dovuto al forte
depopolamento delle zone interne a causa della sempre più accentuata
desertificazione e delle periodiche disastrose carestie che
colpiscono questo popolo, che li spinge a migrare verso le città
della costa, dove l’influenza dell’Islam è molto più forte e
dove la memoria di certe pratiche religiose “tradizionali” si
smarrisce.
Altri aspetti del
rituale sacrificale praticato dagli Afar comunque, mostrano delle
implicazioni simboliche di vario tipo che esulano dall’ambito delle
prescrizioni coraniche sul sacrificio e che invece rimandano alla
conservazione di elementi simbolico-religiosi che hanno un’origine
anteriore all’avvento dell’Islam. Assumendo che l’esecuzione di
un sacrificio rappresenta un avvenimento di grande importanza, perché
comporta l’intima convinzione, da parte di chi lo pratica, di
entrare in contatto con il mondo delle potenze sovrumane spirituali
ed invisibili, possiamo capire la rilevanza che assumono i singoli
particolari. L’azione sacrificale ha una sua precisa liturgia.
Prima di tutto si presceglie la vittima e questo atto riguarda sia la
specie, sia il sesso e sia, infine, il colore dell’animale. Poi si
passa alla sua consacrazione in modo da renderlo degno di essere
accettato dagli esseri sovrumani. Per quanto riguarda la scelta della
specie sacrificata, il cammello è l’animale di maggior valore per
la società Afar e assume una particolare rilevanza anche da un punto
di vista simbolico-religioso. Va rilevato in proposito il particolare
che gli Afar non cavalcano i cammelli. Questo aspetto sembra assumere
per loro la forma di un “tabù”. Il cammello comunque, viene
sacrificato ritualmente solo in occasione delle cerimonie più
importanti, oppure quando si tratta di onorare personaggi di grande
valore e prestigio. Occorre sottolineare che il sacrificio di un
cammello è una pratica antieconomica per gli Afar. Non sempre quindi
essi hanno la disponibilità pratica di poterne sacrificare uno. Più
comunemente usate sono le capre (e in alcune zone le vacche e le
pecore), anche per il loro minor valore economico e sociale.
Il sacrificio della
capra è quello più comune, essendo presente in quasi tutti i loro
principali rituali. Ciò permette agli Afar di integrare la loro
dieta alimentare a base di latte con della carne, per la sottolineata
correlazione tra allevamento e sacrificio e tra questo e il consumo
di carne. Il tutto fa perno sull’assoluta centralità sociale,
economica e simbolica che il bestiame assume nella loro società.
Per quanto riguarda il
sesso dell’animale sacrificato occorre dire che esso è quasi
sempre maschile (Chailley 1980; Lewis 1983).
Le femmine da latte
hanno una funzione troppo importante nell’alimentazione degli
animali da svezzare e in quella del gruppo umano. Il colore della
vittima sacrificale, invece, è un elemento che, nel caso degli Afar,
riguarda solo le capre e varia generalmente tra il bianco e il nero
(ma sono possibili anche altre opzioni). Come rilevato nel testo di
Cartry (1987: 56-62), presso molte popolazioni africane il colore
bianco è generalmente associato ad una certa idea di ordine divino e
di armonia. Il nero invece, viene comunemente associato ad un’idea
del male come turbatore dell’armonia e del buon ordine delle cose.
Spesso questo colore viene assimilato alla malattia e mostra un certo
legame con il simbolico della morte.
Se si considera che
ogni momento fondamentale del ciclo simbolico dell’esistenza
individuale Afar, nascita, iniziazioni, morte, presuppone un
vacillare pericoloso tra il mondo degli esseri sovrumani e quello
degli uomini, si può capire l’importanza che riveste il sacrificio
per loro (e in particolare, la preferenza di vittime di colore
bianco), con la sua funzione di evitare che gli equilibri del gruppo
umano possano venir turbati dal contatto con la sfera extraumana.
Di seguito si passa
alla fase della “consacrazione” dell’animale. Presso le varie
popolazioni Afar la “sacralizzazione” della vittima può avvenire
in diverse maniere. Un esempio, che traiamo da Chailley (1980: 48),
può essere l’azione con la quale si fa girare l’animale per
sette volte attorno al soggetto cui è dedicato il sacrificio.
La fase successiva è
l’uccisione dell’animale che avviene, secondo la prassi islamica,
con il taglio della gola, preceduto dal proferimento della frase “Nel
nome di Dio”.
La conclusione del
rituale sacrificale, prevede il consumo collettivo dell’animale,
che è la parte più festiva del rito ed è volta a rinsaldare i
legami sociali e di unione del gruppo.
Esaminiamo ora più da
vicino le modalità sacrificali Afar introducendo elementi che
rimandano a chiare modalità preislamiche. Per l’analisi che
andiamo ad intraprendere ci serviremo degli studi realizzati da
alcuni antropologi francesi sulla pratica sacrificale presso alcune
popolazioni dell’Africa occidentale che sono stati raccolti da
Cartry nel suo testo sul sacrificio. Sulla base di questi modelli di
studio analizzeremo gli elementi simbolici presenti nel sistema
sacrificale Afar che abbiamo potuto ricavare dalle nostre fonti. Il
testo più ricco di informazioni è quello di Chailley (1980). È
soprattutto ai dati raccolti in questo libro che faremo riferimento.
Iniziamo con i riti
sacrificali effettuati in occasione della nascita di un bambino.
Ovviamente essi rientrano nella categoria dei sacrifici occasionali.
Riferisce Chailley (1980: 48) che presso gli Afar, al momento della
nascita di un bambino viene uccisa una capra che può essere di
qualsiasi colore tranne il nero. Quasi sempre, predomina l’impiego
di capre di colore bianco. In Cartry (1987: 259) vediamo che presso
le popolazioni cosiddette primitive, la nascita viene spesso
associata all’idea di una morte essendo concepita come un viaggio
estremamente pericoloso ai limiti del mondo umano. Il parto, a sua
volta, può essere visto come un combattimento contro la morte e in
questo senso, vi è una forte affinità con lo schema del sacrificio.
In entrambi infatti,
si ha un contatto con la sfera delle forze invisibili. Il corpo
femminile e il sacrificio cruento sono i mezzi che permettono una
mediazione tra il mondo sovrumano e il mondo terreno ed è grazie ad
essi che si possono evitare i rischi connessi con il contatto tra le
due sfere. Il corpo femminile è pensato come il tramite attraverso
il quale possono transitare forze ed entità da una sfera all’altra
e quindi quello attraverso il quale il bambino può passare dal mondo
dei non vivi a quello degli esseri viventi (Cartry 1987: 264). Il
sacrificio, in questo caso, serve a stabilire un contatto con gli
esseri sovrumani al fine di circoscrivere le forze invisibili che
potrebbero risultare pericolose sia per il bambino che deve venire
alla vita, sia per il resto del gruppo. Al momento del sacrificio di
un animale ci si priva di un bene prezioso per la società umana per
il suo potenziale di riproduzione oppure per il lavoro che esso può
svolgere e per le cose che può produrre. Questa privazione (e quindi
separazione) di un bene di prima necessità può essere associata
all’idea di una morte simbolica, già all’opera anche nel momento
del parto e che ricorre poi in altre cerimonie, come i riti
d’iniziazione e quelli funerari (l’osservazione è in Cartry
1987: 260). Questo forte legame simbolico che unisce la nascita di un
bambino, con l’idea di morte e con lo schema sacrificale ha la sua
base nell’idea di un confronto sempre aperto tra la società degli
uomini e quella sovrumana delle forze invisibili (Cartry 1987: 264).
Il parto e il sacrificio “mettono in scena” ritualmente questo
confronto cercando, in qualche modo, di evitare i pericoli connessi
con questi passaggi fondamentali della vita individuale e della
collettività, e di fare in modo che gli equilibri del gruppo umano
non vengano turbati.
Seguendo ancora
il modello di analisi proposto nel testo di Cartry (1987: 255-259)
vediamo che il corpo femminile è ritenuto anche fonte di possibili
contaminazioni tramite le perdite di sangue durante il ciclo
mestruale e durante il parto15.
Come molte altre popolazioni africane, anche gli Afar credono che
queste perdite di sangue incontrollate da parte delle donne siano
estremamente pericolose perché contaminano in qualche modo, tutto
ciò che è nelle vicinanze. E’ per questo, secondo quanto
riportato da Chailley (1980), che essi stabiliscono delle proibizioni
che interdicono il contatto delle partorienti o delle donne con
mestruazioni, con determinati oggetti, animali e con gli uomini. In
Chailley (1980: 45, 48) sono menzionate alcune precauzioni o regole
in vigore presso gli Afar per limitare al minimo i rischi legati
all’impurità del sangue femminile in occasione del parto o delle
mestruazioni. Egli sostiene ad esempio che nessun uomo può assistere
al momento del parto. Questo fatto potrebbe avere relazione con il
timore diffuso in molte popolazioni africane cosiddette “primitive”
di cui si parla in Cartry (1987: 256) e cioè che il sangue della
partoriente possa influire negativamente sulla potenza sessuale
maschile. Per quanto concerne le regole che riguardano le donne che
hanno il loro ciclo mestruale, consistono soprattutto in divieti di
utilizzare determinati oggetti o di nutrirsi di certi alimenti, come
ad esempio il latte di cammella16
(Chailley 1980: 45). Citiamo ora un passo tratto da uno degli studi
raccolti da Cartry17
(1987: 253):
“Alors
que certains saignements sont le resultat d’un acte fait sur un
autre corps, humain ou animal, par un agent externe (sangs de la
chasse, du sacrifice, de la guerre, des rixes sanglantes, de la
circoncision, mais aussi des la defloration), d’autres ne sont que
la manifestation de processus internes et incontrolables (menstrues,
lochies). Les uns sont principalment le fait des hommes, dont
l’identité sexuelle s’affirme dans une série d’actes qui
provoquent l’écoulement de sang. Les autres sont propres aux
femmes qui périodiquement assistent passivement à l’écoulement
de leur propre sang comme à la suite d’une blessure interne18.”
I motivi del diffuso
timore tra le popolazioni africane cosiddette “primitive” nei
confronti di queste perdite di sangue femminile deriverebbero perciò,
soprattutto dal fatto che esse scaturiscono da processi fisiologici
interni e quindi sono ritenute fuori da qualsiasi controllo umano.
Per questi motivi, esse sono considerate particolarmente pericolose
per l’ordine sociale e devono essere inserite in contesti rituali
in cui sono previsti sacrifici animali.
L’elemento del
versamento ritualizzato di sangue occupa un posto di rilievo anche
nei modelli sacrificali dei rituali di circoncisione e di “rasatura
della testa”. Tuttavia in questi casi, esso si presenta con una
valenza simbolica diversa. Seguendo il modello proposto nel passo
citato sopra vediamo che il versamento di sangue è legato ad azioni
che risultano perfettamente sotto il controllo di un agente esterno e
che vengono effettuate sui corpi dell’animale sacrificato e, nel
primo caso, anche del ragazzo che deve essere iniziato.
Il rituale sacrificale
previsto dalla cerimonia di circoncisione può essere incluso
nell’ambito dei sacrifici occasionali, come del resto tutti quelli
che fanno parte del ciclo individuale della vita degli Afar (nascita,
ciclo dell’iniziazione, matrimonio, morte).
La prassi
cerimoniale prevede un sacrificio rituale nel quale, come abbiamo
visto nel capitolo precedente, al ragazzo viene fatto bere il proprio
sangue mescolato con il violento antisettico (latte agro, sale e
peperoncino) che viene versato sulla ferita. Poi viene sacrificata
una capra e con la sua pelle sono fatte delle striscioline che
vengono fissate agli arti e al corpo del ragazzo circonciso.
Quest’uso delle varie parti dell’animale sacrificato (pelle,
sangue) sul corpo del sacrificante può essere interpretato con la
volontà di stabilire un legame d’identificazione tra la persona e
l’animale. Sulla base di questo vincolo, l’offerta dell’animale
diventa l’offerta del sacrificante stesso. Ci può essere d’aiuto
in questo caso uno studio presente nel testo di Cartry19
(1987: 279). In esso si analizza la pratica sacrificale in un
contesto differente dal nostro. Tuttavia nel riferire i vari elementi
simbolici che fanno parte del rito del sacrificio l’autore prende
in esame, estraendoli dal contesto specifico del suo studio, proprio
quelli che riguardano il nostro caso, ossia l’uso di fissare parti
della vittima al proprio corpo e quello di bagnare con il sangue il
corpo del sacrificante che ci tornerà utile fra poco. Secondo la sua
spiegazione queste usanze servono per interdire la netta distinzione
fra sacrificante e vittima sacrificale. Chi sacrifica viene
assimilato alla vittima ed entra a far parte dell’offerta. La
stessa situazione si ripete presso gli Afar in molte occasioni
rituali. Chailley (1980: 49) riferisce ad esempio, che nei riti che
accompagnano il momento della nascita, gli Afar usano attaccare un
pezzo del cordone ombelicale del neonato all’animale che la madre
gli ha donato subito dopo la nascita e quella di fissare delle
striscioline della pelle dell’animale sacrificato agli arti del
bambino e della madre. Alla luce di quanto detto sopra anche in
questo caso possiamo interpretare queste particolari azioni come
mezzi ritualizzati volti ad eliminare la netta distinzione tra il
sacrificante e la vittima sacrificale, ma anche a stipulare un forte
legame simbolico e sociale tra l’individuo e l’animale che si
perpetuerà per tutta la vita. Tornando al caso della circoncisione è
possibile dare un’ulteriore lettura. Da un punto di vista sociale,
tutto il rituale sembra volto ad ispirare coraggio nel ragazzo e a
renderlo più forte di fronte al dolore e alla sofferenza (Chailley
1980: 53).
Da un punto di vista
simbolico, invece, il rapporto di assimilazione tra il sacrificante e
la vittima sacrificale, come abbiamo già detto, permette al ragazzo
di entrare in contatto con la sfera sovrumana che in questi rituali
d’iniziazione all’età adulta può essere identificata
principalmente con il mondo degli antenati.
Il sacrificante, che
viene circonciso ritualmente, ingerendo il sangue che esce dal suo
corpo assume in certo senso il ruolo di vittima sacrificale ed entra
a far parte dell’offerta (Cartry 1987: 279). L’offerta di sé
diviene, poi, l’offerta di una parte del proprio corpo, ossia il
prepuzio tagliato che viene fissato su un bastoncino e lasciato sul
luogo scelto per praticare il rituale (Chailley 1980: 53-54).
Il dono è destinato
alla sfera sovrumana degli antenati.
Il ragazzo infatti con
la circoncisione entra nel mondo degli adulti e quindi nel ciclo
degli antenati entrando di diritto nella grande porta del lignaggio.
E in questo senso va interpretato anche la recita dei nomi dei propri
antenati da parte del ragazzo subito prima del taglio del prepuzio
citata da Chailley (1980: 53).
La cerimonia della
“rasatura della testa” che completa il ciclo dell’iniziazione,
prevede anch’essa un impiego rituale del sangue, ma questa volta
non si tratta del sangue dell’iniziato ma soltanto di quello
dell’animale sacrificale. Infatti, subito dopo aver compiuto il
sacrificio della capra, viene versato il sangue dell’animale sulla
testa del ragazzo (Chailley 1980: 51-52). Anche questo “bagno
rituale di sangue” può essere letto sempre seguendo le indicazioni
che abbiamo fornito a proposito del rito di circoncisione. Il
sacrificante s’identifica con l’animale sacrificato, diviene egli
stesso offerta sacrificale e per questa via si riunisce
simbolicamente con il mondo degli spiriti degli antenati del proprio
lignaggio (Cartry 1987). L’atto di versare il sangue dell’animale
ucciso ritualmente sulla testa del ragazzo e l’uso di fissare sul
corpo dell’iniziato delle strisce fatte con la pelle della vittima
sacrificale serve anche in questo caso ad annullare la netta
distinzione tra sacrificante e animale sacrificato e a fornire una
rappresentazione della loro simbolica identificazione nel ruolo di
vittime sacrificali offerte alla sfera extraumana (Cartry 1987: 279).
Un altro particolare
uso dell’elemento sangue è quello che si ha nel corso di un
rituale di tipo salutare medico propiziatorio, volto alla
preservazione dei cammelli da malattie. L’informazione la troviamo
sempre in Chailley (1980: 45). Questa pratica rituale viene
effettuata nel mese di ragab (luglio) e consiste nel sacrificare una
capra e di raccoglierne il sangue in un recipiente. Il sangue viene
versato sui cammelli e in questo modo si crede che saranno preservati
da malattie per il resto dell’anno.
È un’altra
testimonianza della grande valenza simbolica che ha il sangue di
animali sacrificati presso gli Afar.
Un'altra occasione non
ufficiale nell’ambito delle celebrazioni sacrificali dell’anno
liturgico seguito dagli Afar, è una particolare festa chiamata
“dasiga” riservata ai soli maschi del gruppo. Chailley (1980: 76)
fornisce una descrizione accurata sul suo svolgimento. Secondo il suo
resoconto la festa è un usanza praticata generalmente da giovani
maschi e consiste nel riunirsi in gran numero in un posto isolato dal
resto del gruppo per mangiare un cammello appositamente sacrificato.
Egli sostiene che la scelta del luogo in cui celebrare il “dasiga”
è legata alla presenza di un albero (la specie non è specificata
dall’autore) sotto il quale tutti i giovani uomini si riuniscono e
alla vicinanza ad un pozzo d’acqua. Attorno al luogo della riunione
viene innalzato una sorta di recinto per non permettere ad estranei
di partecipare alla festa. Il ritiro dura una decina di giorni. Il
sacrificio del cammello viene effettuato ai piedi dell’albero.
Subito dopo la carne dell’animale viene tagliata in strisce che
vengono appese ai rami più bassi per farle essiccare. Delle
abluzioni vengono effettuate a intervalli stabiliti: otto ore prima
del pasto, verso mezzogiorno e alle sei di sera. Durante i primi due
giorni si mangia soltanto la carne rimasta attaccata alle ossa
dell’animale sacrificato. In seguito si tagliano le strisce di
carne appese ai rami dell’albero in cubettini per poi cuocerli e
mangiarli. L’ultimo giorno si fanno delle strisce con la pelle del
collo del cammello e si fissano agli arti dei partecipanti. Alla fine
della sua descrizione Chailley (1980: 76) fornisce la seguente
spiegazione del significato del “dasiga”:
“Quelle
serait l’origine de cette coutume, “cure recommandée à certains
changements de saisons, qui, dans le pensée indigènes, leur
permettrait d’acquérir des forces nouvelles”. C’est sans doute
le but actuel; l’usage cependant parait en avoir eu un plus précis
autrefois. En effet, ces réunions “dasiga” précédaient
naguérre le départ des guerriers en expédition; pour cette raison
étaient-elles secrètes, du moins cachées. C’était en quelque
sorte une préparation physique du combattant20.”
La spiegazione fornita
da Chailley lega pertanto il sacrificio del cammello e il consumo
alimentare della sua carne nel corso del “dasiga”, a determinate
occasioni in cui vi è necessità di acquisire maggiori forze
fisiche. In particolare egli sostiene che lo scopo attuale del
“dasiga” vada associato al cambio di stagione ossia il momento
dell’anno in cui il gruppo deve spostarsi sul territorio alla
ricerca di nuovi pascoli e punti d’acqua. Tuttavia Chailley
riferisce anche che precedentemente questa festa era celebrata come
preparazione fisica al combattimento che gli uomini abili del gruppo
andavano ad intraprendere. In tutti i casi comunque, resta il fatto
che si tratta di momenti decisivi da un punto di vista sociale per
gli Afar.
Dalla descrizione
fatta da Chailley possiamo ricavare alcuni elementi simbolici che
hanno una certa importanza in relazione al sacrificio. Uno di questi
elementi è l’albero ai piedi del quale viene compiuto il
sacrificio e si celebra il banchetto alimentare. Abbiamo già visto
che Morin (1991: 31) ci offre un’interpretazione simbolica
dell’albero come mezzo di contatto con l’al di là. Considerato
che il “dasiga” almeno fino a non molto tempo fa, era una
cerimonia di preparazione alla guerra è presumibile che il
sacrificio fosse legato ad una richiesta di protezione alla sfera
sovrumana per il gruppo dei giovani uomini che andava ad
intraprendere il combattimento.
Dall’analisi delle
varie tipologie simboliche con le quali si manifesta la pratica
sacrificale presso gli Afar, scaturisce tutta una serie di procedure
rituali ed atteggiamenti mentali che mettono in rilievo la
straordinarietà che assume il legame della collettività umana (e di
ogni singolo individuo) con gli animali allevati. Un vincolo che
porta fino all’identificazione simbolica tra soggetti umani e
animali e che rappresenta il tratto culturale più importante nel
contesto della religiosità Afar. L’istituto del sacrificio
s’inserisce in questo rapporto di simbiosi come fattore atto a
ristabilire l’equilibrio turbato dalla necessità di messa a morte
dell’animale per esigenze alimentari.
Per il tramite del
sacrificio l’uccisione dell’animale allevato viene resa
accettabile. La reciproca dipendenza che si stabilisce nelle società
di popoli allevatori tra l’uomo e il bestiame richiede che
l’uccisione dell’animale sia in certo modo occultata ritualmente.
Con l’inserimento
dell’atto cruento dell’uccisione dell’animale in un rituale
volto a stabilire un contatto tra la sfera umana e quella sovrumana,
si colloca il trauma della messa a morte dell’animale in una
dimensione straordinaria che la rende possibile.
NOTE
1
A questo proposito, Cristiano Grottanelli (1999: 8), fa
notare che il termine latino “Sacrificium” fa riferimento
proprio all’atto del “rendere sacro” e al passaggio
dell’oggetto o dell’animale sacrificato ad una sfera sovrumana.
2
“Kasher” è un termine ebraico che significa
“accettabile”. Denota qualsiasi cosa il cui uso è permesso
dalla legge ebraica. In particolare con questo termine si usa
connotare le leggi dietologiche ebree. Dal termine Kasher deriva
“kashrut” che riguarda precisamente le seguenti prescrizioni:
animali permessi o proibiti; parti proibite di animali altrimenti
permessi; il metodo di sgozzamento e preparazione degli animali
permessi; proibite mescolanze di cibo.
Le regole del Kashrut
derivano dalle prescrizioni stabilite nell’Antico Testamento,
dalle interpretazioni dei rabbini, dalla loro legislazione e da
usanze. La bibliografia sull’argomento è enorme. Ricordiamo
soltanto: Isidor Grunfeld “Dietary Laws with particular reference
to meat and meat products”, New York 1972 e Mary Douglas “Purity
and danger”, London 1966. (vedi The encyclopedia of religion, a
cura di Mircea Eliade, New York 1987).
3
Questo aspetto è evidenziato da Grottanelli 1999: 13, ma è
stato analizzato già prima dagli antichisti francesi Jean Pierre
Vernant e Marcel Detienne in “La cuisine du sacrifice en pays
grec” Paris 1979. Traduzione italiana “La cucina del sacrificio
in terra greca” Torino 1982.
4
Le due feste più importanti dell’anno liturgico musulmano,
ossia la cosiddetta “piccola festa” (al-‘id as-sagir) o anche
“festa della rottura del digiuno” perché si celebra il primo di
ottobre giorno in cui termina il mese di ramadan, e la “grande
festa” (al-‘id al-kabir) detta anche festa dei sacrifici che si
celebra il dieci di dicembre in concomitanza con i sacrifici fatti
in occasione del pellegrinaggio alla Mecca, non sono praticate dagli
Afar.
5
Del resto anche Ihwh (Javeh) ha dato nel Levitico le norme di
utilizzazione degli animali ad uso alimentare.
6
Su
questo argomento del divieto di nutrirsi della carne di animali non
sacrificati agli esseri sovrumani vedi e Grottanelli 1999: 39.
7
Sulla tipologia dell’Essere Supremo Celeste ovvio il
rimando all’ampio dibattito nell’ambito degli studi
storico-religiosi ed antropologici che ha avuto luogo nel primo ‘900
Vedi Angelo Brelich “Introduzione alla storia delle religioni”
Roma 1966.
8
Tra gli Afar è diffusa la credenza che i luoghi montani e
gli abissi (laghi, crepacci, crateri vulcanici…) siano
generalmente “abitati” da entità spirituali extraumane. La
presenza di numerosi vulcani associata al forte tellurismo della
zona alimenta la credenza che crepacci e crateri siano sedi di
demoni e di ginn malvagi. Nella regione del Tigré, esiste un
vulcano che possiede un cratere con un lago di lava permanente in
continua agitazione. Si tratta dell’cirtacalé
(in lingua Afar), ossia la “montagna che fuma”. Questo vulcano è
considerato dagli Afar una “montagna crepaccio” abitata perciò
da numerose entità sovrumane. Sarebbe interessante, vista la
diffusione di vulcani in Dancalia, effettuare uno studio sulle
possibili implicazioni rituali e sulle credenze Afar legate ai
fenomeni di vulcanismo.
9
“Certe montagne sono state (o sono ancora) dei luoghi di
culti ancestrali, per esempio il monte Falum et le Dagàrri, in
Eritrea, il cono vulcanico dell’Ayyàlu a sud-est di Gawwàni.
Queste montagne sono la sede d’una potenza suprema, il cui nome
Figu, ancora conservato, è naturalmente divenuto sinonimo di Allah
con l’islamizzazione, ma rinvia chiaramente a questo Dio del Cielo
di altre popolazioni di lingua cuscitica.”
10
“Sulle alte vette del Monte Ayelu c’è un santuario dove
gli Afar vanno in pellegrinaggio fin dall’Aussa per sacrificare
dopo le piogge, a pregare per la prosperità del bestiame, per il
successo in guerra e per salute e benessere.”
11
Troviamo alcuni riferimenti a specifiche specie arboree in
Morin (1991: 31). A questo proposito egli fa notare un importante
fatto e cioè che la nomenclatura botanica afar fa spesso
riferimento ai ginn. Esempi di piante usate dagli Afar per pratiche
rituali sono: Il Ficus populifolia (in Afar “ginnì-garén),
l’Orthosiphon Pallidus (ginnì-hibàk) e il Serra incana
(ginnì-hanboka).
12
“L’albero non è venerato in quanto tale, ma come mezzo
di contatto con l’al di là. Si sa che nella religione ancestrale
degli Afar delle offerte a Figu erano deposte ai piedi di certi
alberi consacrati.”
13
Ciò rimanda tra l’altro al mito di Hadalmahis (il cui nome
ricordiamo, significa “colui che salì sull’albero al mattino”)
ritenuto dagli Afar capostipite di molti dei lignaggi attuali.
14
Vedi in proposito: V. Goldziher, “Veneration of saints in
Islam” Muslim studies Vol. 2 Edizione S. M. Stern - C. R. Barber.
Chicago 1973 e A. Schimmel, “Mistical dimension
of Islam” Chapel, New York 1975.
15
Il tema dell’impurità del sangue femminile è molto
impegnativo. Per un’approfondimento vedi Mary Douglas “Purity
and danger” London 1966. Per il mediterraneo antico rimando a R.
Parker “Miasma” Oxford 1993.
16
La letteratura etno-antopologica fornisce numerosi esempi di
divieti e regole relative alle partorienti e alle donne con
mestruazioni. Tuttavia come viene osservato nel testo di Cartry
(1987: 255) il sangue versato durante il parto e nel corso delle
mestruazioni in alcuni casi viene utilizzato per effettuare riti a
scopo terapeutico o purificatorio. Per alcuni esempi in proposito si
rimanda a Biedelman T. O. “Swazi royal Ritual” (1966: 383) in
Africa XXXVI, 4 e a Dumas-Champion F. “Le sacrifice comme procès
rituel chez les Massa” (1979: 106) in “Sistèmes de pensée en
Afrique noire” cahier 4, 1979.
17
Si tratta di uno studio dell’antropologo francese Odile
Journet intitolato: “Le sang des femmes et le sacrifice: l’exemple
joola”.
18
“Mentre certe perdite di sangue sono il risultato di un
atto fatto su un altro corpo, umano o animale, da un agente esterno
(sangue della caccia, del sacrificio, della guerra, di risse
sanguinose, della circoncisione, ma anche della deflorazione), delle
altre non sono che la manifestazione di processi interni e
incontrollabili (mestruazioni, parto). Le prime sono principalmente
fatti riguardanti gli uomini, la cui identità sessuale si afferma
in una serie di atti che provocano versamenti di sangue. Le seconde
sono proprie delle femmine che periodicamente assistono passivamente
alla fuoriuscita del proprio sangue come a seguito di una ferita
interna.”
19
Lo studio in questione è quello compiuto da Andras Zempléni
intitolato “Des êtres sacrificiels”.
20
“Quale sarà l’origine di questo costume, “cura
raccomandata a certi cambi di stagioni, che nel pensiero degli
indigeni permetterà loro di acquisire nuove forze.” Questo è
senza dubbio lo scopo attuale; l’uso tuttavia parrebbe averne
avuto uno più preciso un tempo. In effetti queste riunioni “dasiga”
precedevano fino a poco tempo fa la partenza dei guerrieri per un
raid; per questa ragione esse erano segrete o meglio nascoste. Erano
una specie di preparazione fisica al combattimento.”