CAPITOLO 5 - GIORGIO CINGOLANI Antropologo e Regista

GIORGIO CINGOLANI
Antropologo e Regista
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SECONDA PARTE
MODELLI SIMBOLICO-RELIGIOSI
DELLA SOCIETA’ AFAR

 

 

 

CAPITOLO V
I percorsi simbolici nel ciclo della vita Afar

 
 

V.1.) Nascita e circoncisione

 
Abbiamo già detto che il modo di vita nomado-pastorale influisce in maniera determinante sugli aspetti della società Afar. La sfera del  simbolico religioso Afar, è caratterizzata da modelli e rituali che manifestano inequivocabilmente l’importanza che gli animali allevati rivestono nella cultura di questo popolo di pastori nomadi. Tutte le fasi che scandiscono il ciclo della vita individuale e sociale sono improntate dal legame fortemente simbolico dell’uomo con l’animale e la transizione da una fase all’altra, è segnata da un insieme di rituali che sono comunemente definiti come “riti di passaggio”. Questi riti vengono celebrati sempre in rapporto con dei cambiamenti importanti della condizione individuale o dell’intera società e sono determinanti, dal punto di vista di chi li pratica, per la realizzazione dei mutamenti di condizione all’interno del gruppo. Se tali riti non vengono effettuati, i cambiamenti da uno stato all’altro non sono considerati come realmente avvenuti (Brelich 1995: 34). La funzione principale di queste azioni rituali, infatti, è quella di assicurare il controllo di ciò che, sfuggendo al dominio umano (culturale), metterebbe a rischio il precario equilibrio di un gruppo di individui (Brelich 1995: 38).  
Ciò perché, la maggior parte dei riti di passaggio, si concentra sulla fase di transizione, operando su tutte quelle incertezze che la caratterizzano, al fine di riportare l’ordine nell’esistenza sociale del gruppo umano1.  
In questo capitolo descriveremo tuttavia soltanto quelle pratiche rituali che accompagnano il passaggio dell’individuo attraverso le varie fasi del suo ciclo vitale, senza soffermarci sull’analisi dei complessi significati simbolici ad esse legate, che ci riserviamo di affrontare nel capitolo seguente dedicato al tema del sacrificio. Nascita, adolescenza, maturità, matrimonio, vecchiaia e morte scandiscono le tappe di un’esistenza guidata ritualmente. Questo almeno in una ricostruzione “ideale” che riguarda una realtà Afar che fino ad oggi è rimasta intatta solo nei gruppi isolati dell’interno. Iniziamo con la nascita e l’acquisizione del nome.  
La descrizione completa di tutte le fasi riguardanti la nascita di un bambino Afar e dei riti ad essa associati, è riportata da diversi studiosi e, in particolare, da Chailley (1980: 48) che ne fa una descrizione abbastanza minuziosa. Secondo quanto da lui riferito, quando una donna è incinta, continua a lavorare normalmente fino quasi al momento di partorire.  
La società patriarcale e maschilista degli Afar, non permette alcuna agevolazione che possa alleviare il carico dei lavori quotidiani che essa deve svolgere nell’accampamento. Una delle poche prescrizioni che la donna deve rispettare, è quella di bere del latte di cammella subito prima del parto. Esistono, poi, dei periodi dell’anno che gli anziani reputano nefasti a causa della posizione delle stelle e di particolari congiunzioni astrali2.  
In questi casi, per scongiurare il pericolo che la cattiva sorte possa abbattersi sul gruppo o sul nuovo nato, vengono recitate delle preghiere e delle formule di scongiuro e preparati alcuni filtri o tisane che la partoriente deve consumare prima della nascita del bambino. Nessun uomo può essere presente al momento del parto, neanche il marito. Ad assistere la partoriente è una delle donne anziane del gruppo, adibita appositamente a questo compito.  
La nascita di un bambino è, in genere, un’operazione difficile, soprattutto a causa del fatto che la donna ha subito da piccola, escissione e infibulazione. L’assistente al parto deve perciò praticare con un coltello una rudimentale asepsia per permettere al bambino di venire alla luce. Il sesso del neonato viene annunciato subito dopo la nascita. Se il bambino è un maschio, l’intero gruppo manifesta la propria gioia, mentre se è di sesso femminile reagisce con assoluta indifferenza. In ogni caso il rituale che accompagna la nascita di un bambino prevede il rituale del sacrificio cruento di una capra che può essere di qualsiasi colore tranne il nero.  
Come vedremo e analizzeremo nel prossimo capitolo dedicato al tema del sacrificio, quest’elemento del colore dell’animale sacrificato va inserito in un preciso codice di valori simbolici che mette in relazione il sesso, la specie della vittima sacrificale e il suo colore. La capra, prima del sacrificio, viene fatta girare attorno alla capanna in cui è avvenuto il parto per sette volte e ciò, sostengono gli Afar, con lo scopo di scacciare il diavolo e le cattive influenze.  
Dopo aver sacrificato la capra, vengono tagliate dalla sua pelle delle strisce, che sono allacciate intorno ai polsi, alle caviglie e al collo della madre. Appena nato il bambino riceve un nome. Il nome per un primogenito è, generalmente, scelto dalla madre tra quelli di uno dei suoi parenti, mentre il nome di un secondogenito, gli viene dato dal padre. Ogni bambino comunque, ha due nomi, quello che gli viene dato alla nascita, preceduto da quello del padre.  
La nominazione del neonato avviene con un’operazione particolare compiuta da un’esperta donna anziana che assiste la partoriente e che ha anche un ruolo rituale. Nell’istante esatto della nascita, infatti, essa taglia il cordone ombelicale pronunciando il nome assegnato al bambino. E’ questo il momento chiave che stabilisce la sua effettiva entrata nel mondo umano dei vivi. Al momento della nascita, infatti, il bambino non è ancora considerato come un essere umano vivente. Affinchè questo accada, occorre che vengano praticati quei rituali che sono ritenuti necessari per il passaggio del bambino alla condizione effettiva di nuovo nato. Nella maggior parte delle società di pastori nomadi e in generale, in tutte quelle società dette “primitive” o tradizionali, la nascita di un bambino, è percepita quasi sempre come un qualcosa che turba l’equilibrio preesistente (Brelich 1995: 35). Questo accade, non solo perché si ha un cambiamento nel numero degli appartenenti ad un certo gruppo o ad una famiglia (mutamento sociale), ma anche perché, secondo il loro pensiero, il bambino proviene dal mondo del non umano e del non vivo e occorre, quindi, farlo uscire da questa condizione, in modo che il suo inserimento nella comunità umana possa essere accettato (Brelich 1995: 35).  
Alla nascita, poi (come abbiamo detto nel capitolo precedente), viene anche costituita la base del futuro gregge del bambino. Due giovani capre, una del padre e una della madre, vengono donate al neonato.  
Quella regalata dalla madre viene denominata, in lingua Afar, “hundubi” che significa “cordone ombelicale”. Infatti, al collo di questa capra viene attaccato un pezzo del cordone ombelicale, in modo che possa essere riconosciuta. Quella regalata dal padre, invece, viene fatta vedere al bambino e per questo motivo prende il nome di “Inti-l lah” “bestia dell’occhio”. In seguito queste due capre ricevono un nome proprio. Il resto del gregge individuale, viene formato gradualmente in seguito ai doni che il ragazzo riceve dai parenti più vicini, nel corso delle tappe che segnano la sua crescita fino all’età adulta. Durante i primi giorni di vita del bambino, poi, è usanza diffusa tra gli Afar che l’uomo reputato come il più coraggioso della famiglia, faccia ingurgitare al bambino alcune gocce di latte di cammello o del burro (a volte anche di caffè), poiché si reputa che questo gli faccia acquisire il coraggio del donatore.  
Numerosi sono anche gli amuleti che vengono attaccati agli arti o al collo del bambino, specialmente quelli costituiti da sacchettini di pelle che racchiudono dei pezzetti di carta in cui vengono scritti dei versetti del Corano3. Per la costruzione di questi amuleti gli Afar, non essendo alfabetizzati, ricorrono ai cosiddetti santi sufici.
La seconda tappa è segnata dalla circoncisione. La circoncisione è un rito d’iniziazione e di purificazione che segna l’ingresso effettivo di un individuo nella condizione sociale di adulto. Essa è praticata da tutti i musulmani ed è considerata un segno distintivo dell’Islam.  
Il rito della circoncisione era già presente in Egitto da diversi millenni e fu praticato, in Arabia, molto tempo prima della nascita dell’Islam (Hosken 1982: 71). Questa cerimonia non è mai menzionata dal Corano e non è strettamente obbligatoria come altri precetti islamici, ma la sua pratica è fortemente raccomandata per il suo valore individuale e sociale (Bausani 1999: 43).  
La circoncisione, in quanto rito di passaggio iniziatico può iscriversi nel consueto schema simbolico  di morte-rinascita perché il suo senso è quello di produrre un nuovo individuo sociale, attraverso la morte simbolica di quello vecchio. Dominique Zahan nel saggio “La religione dell’Africa nera” che appare nel libro sulle religioni dei popoli senza scrittura curato da Henri-Charles Puech (1992: 63-64), riferendosi alla condizione in cui si trova la persona che deve essere iniziata parla, non a caso, di “stadio fetale” posto tra una simbolica morte (ritorno al ventre materno) e rinascita. Ed è in questo stadio fetale transitorio, che avviene la vera formazione del nuovo individuo. A questo proposito è importante un osservazione che traiamo dal testo di Cartry (1987: 38) secondo la quale tutti i riti di natura iniziatica sono simbolicamente volti a liberare il ragazzo dai suoi legami con la vita prenatale, per permettergli di entrare nel mondo adulto degli uomini. Va messa in rilievo la grande importanza sociale che il rito di circoncisione riveste per le popolazioni islamizzate africane.  
Esso svolge la funzione di trasformare l’individuo in una persona sociale. Il non iniziato rimane ai margini della società. Egli non acquisisce lo stato di adulto e quindi non può sposarsi, partecipare alle attività guerriere e svolgere mansioni pubbliche (Brelich 1995: 34).  
L’importanza attribuita alla circoncisione da molte popolazioni africane, uguale in questo senso a quella degli altri riti di passaggio che completano il ciclo dell’iniziazione, come la rasatura della testa e la donazione di un nome, sta comunque, soprattutto nel fatto che, attraverso di essa e con l’ingresso nel mondo degli adulti, viene aperta agli iniziati la porta del lignaggio, ossia degli antenati (Cartry 1987). Torneremo su questo elemento nel capitolo dedicato al sacrificio. Secondo lo schema proposto da Trimingham Spencer (1980: 129) il rito di circoncisione in via generale può essere suddiviso in tre fasi principali rappresentate da un periodo di ritiro e di separazione dalla propria famiglia e dal resto della comunità, dall’atto effettivo della circoncisione e dal ritorno alla vita sociale comune accompagnato da feste con danze, canti e libagioni. Gli Afar praticano la circoncisione per i ragazzi e l’escissione, seguita poi dall’infibulazione, per le ragazze.4 Secondo Lewis (1955: 166) i ragazzi Afar appartenenti alle “tribù” degli cAsahyammàra, vengono circoncisi all’età di quindici anni e dopo il rituale aquisiscono il diritto di portare il caratteristico pugnale Afar a lama ricurva, ghilé. Egli parla di una circoncisione collettiva praticata subito prima dell’inizio della stagione delle grandi piogge, su tutti i ragazzi appartenenti alla stessa classe di età.  
Per gli cAdohyammàra, invece, l’età dell’iniziazione sarebbe di circa nove anni, ma probabilmente senza alcuna connessione con un vero e proprio sistema di classi di età. Su questo punto occorre dire che non ci sono testimonianze precise sull’esistenza di un sistema ben organizzato di classi d’età nella società Afar, anche se sembrerebbe probabile, vista la grande importanza che essi danno ai passaggi tra un’età e l’altra. Questo, però, ai fini del nostro discorso, non è rilevante perché, se anche nella società Afar non esistesse un sistema specifico e istituzionalizzato di classi d’età (come invece, ad esempio, presentano altre popolazioni seminomadi del contesto multietnico etiope, come i Galla), queste potrebbero ugualmente risultare importanti e segnate da precisi riti di passaggio e d’iniziazione.5  
La migliore descrizione del rito della circoncisione, così come avviene nelle zone desertiche della Dancalia, è, comunque, quella che ci viene fornita da Chailley (1980: 53). Secondo il suo racconto, la circoncisione viene effettuata su ragazzi che hanno un età compresa tra gli otto e i dodici anni. Il rituale  viene effettuato di preferenza il lunedi su una collina o piccola altura6 nei pressi dell’accampamento e ad esso assistono tutti gli uomini del gruppo. Il periodo prescelto deve essere astrologicamente favorevole e ricade, quasi sempre, all’interno della stagione delle grandi piogge7, durante la quale grazie ad una maggiore abbondanza di acqua e pascoli ci si può permettere di festeggiare gli iniziati in maniera più ricca. Chailley non fa menzione di alcun periodo di ritiro per l’individuo che deve essere circonciso e passa direttamente alla descrizione del cerimoniale. Il ragazzo deve essere a digiuno e vestito di bianco. Una volta raggiunto il luogo scelto per l’iniziazione, egli viene fatto sedere su due grosse pietre poste una sopra l’altra e deve essere disposto in maniera di avere il volto rivolto verso nord. A praticare la circoncisione è lo zio paterno, mentre quello materno fa da assistente. Il momento del taglio del prepuzio, in genere, non è accompagnato da alcuna preghiera o formula particolare. Chailley (1980: 53) però, riporta un elemento importante e cioè il fatto che il ragazzo, subito prima di essere circonciso, recita a memoria il suo albero genealogico.  
Questo elemento sembra confermare l’interpretazione simbolica sopra menzionata, riguardante l’ingresso del ragazzo, attraverso i rituali d’iniziazione, nel grande ciclo del lignaggio e quindi degli antenati. Appena effettuata l’operazione viene gettato sulla ferita un violento antisettico fatto con latte, sale e peperoncino ed è importante che il ragazzo non reagisca lamentandosi del dolore, mostrandosi così degno di diventare un uomo. Il sangue che cola mescolato a questa mistura antisettica viene raccolto in un apposito recipiente e viene fatto bere all’iniziato, al quale, poi, viene anche gettato del peperoncino negli occhi. Tutte queste azioni servono a rendere coraggioso l’iniziato di fronte al dolore e alla sofferenza.  
Il coraggio, infatti, è uno dei valori più importanti e che conferiscono maggior prestigio ad un individuo, all’interno di una società come quella degli Afar, in cui le virtù guerriere occupano il posto preminente. Terminata questa prima fase del rituale, viene condotta una capra di colore bianco sul luogo dell’iniziazione e viene fatta girare per sette volte attorno al ragazzo circonciso. Quindi la capra viene uccisa e offerta in sacrificio, come per la nascita. Dalla sua pelle si ricavano delle striscioline che vengono fissate attorno alla fronte, al collo, ai polsi e alle caviglie dell’iniziato, che deve portarle finchè la guarigione della ferita non è completa. Il ragazzo viene poi lavato con uno speciale liquido preparato facendo macerare alcune erbe speciali con del peperoncino. A questo punto viene effettuato un altro rito, nel quale l’iniziato deve oltrepassare sette piccoli fuochi accesi e posti in fila. Anche questa pratica ha lo scopo di infondere il coraggio nel cuore del ragazzo. Infine lo zio paterno fa bere del burro sciolto al circonciso, poi lo cosparge, sempre con del burro, su tutto il corpo.
Il prepuzio tagliato viene fissato in cima ad un bastoncino e posto tra le due pietre usate per la cerimonia.  
A questo punto l’iniziato viene ricondotto all’accampamento e poco prima di raggiungere la sua capanna viene spogliato dei suoi abiti bianchi e rivestito con altri di colore nero che egli deve indossare fino a completa guarigione. Con il ritorno del giovane circonciso hanno inizio i festeggiamenti con giochi e danze. Lewis (1955: 166) sostiene che viene effettuata anche la cosiddetta “Danza del Ginnili” uno speciale rito coreutico in cui si effettua una danza oracolare a scopo divinatorio e che analizzeremo in un capitolo a parte. Ciò non può essere escluso anche se, secondo Didier Morin (1991) che ne fa un’analisi accurata, il suo significato sembra quasi esclusivamente legato a ricavare responsi riguardanti l’esito di una guerra che si va ad intraprendere o la ricerca di un pascolo e l’arrivo delle piogge.  
Per concludere, comunque, possiamo dire che oggi, soprattutto nelle città della costa, molte delle circoncisioni vengono effettuate negli ospedali, con conseguente perdita dei significati e dei valori tradizionalmente attribuiti a questa operazione e tuttora molto vivi nella società Afar. Ovviamente l’ospedale garantisce una maggiore sicurezza da un punto di vista igienico-sanitario. Tra le popolazioni che vivono nel deserto, però (dove questa possibilità è piuttosto remota), il rito appena descritto, continua ad essere praticato e considerato come una tappa fondamentale nel percorso che conduce all’ingresso dei giovani nel mondo degli adulti.

 
V.2.) La controparte femminile

La “circoncisione femminile” è il termine generalmente usato (ma scorretto da un punto di vista medico) per designare le varie forme di mutilazioni sessuale attualmente praticate da popolazioni di religione musulmana dell’Africa e del Medio Oriente, su bambine in giovanissima età (Hosken 1982: 43). Come giustamente fa notare Fran Hosken (1982: 43-44) che compie un approfondita analisi delle pratiche di mutilazione sessuale femminili, non si può mettere sullo stesso piano la circoncisione maschile con le mutilazioni femminili, anche se entrambe sono assimilate nelle categorie dei riti iniziatici.  
A differenza della circoncisione maschile, l’escissione e l’infibulazione, vengono effettuate su bambine che, a volte, hanno solo pochi giorni di vita e sono estremamente pericolose perché possono procurare la loro morte.8 Esse, inoltre, hanno delle pesanti conseguenze sul piano individuale e sociale. Secondo l’analisi fatta da Hosken (1982: 24) va osservato che prima di tutto l’escissione e l’infibulazione, impediscono quasi completamente alle donne di provare piacere sessuale. In secondo luogo, attraverso queste pratiche, gli uomini mantengono le donne in uno stato di sottomissione sociale, preservando facilmente la loro verginità fino al matrimonio.  
Sempre secondo Hosken (1982: 71), ma la notizia è confermata da altre fonti, la circoncisione maschile fu anteriore a quella femminile e quindi questa, sembrerebbe esserne in qualche modo la controparte. Ma qualunque sia la causa prima e il significato originario attribuito nell’antichità a queste pratiche, oggi le mutilazioni sessuali femminili non sono legate ad alcun significato di tipo religioso e rappresentano, invece, un’usanza sociale basata su radicati pregiudizi maschili.  
Per certo entrambe le pratiche sono anteriori alla fondazione dell’Islam e non sono prescritte dal Corano9 (Hosken 1982: 78).  
Con la progressione della religione musulmana in Africa però, di certo le autorità delle società interessate al mantenimento di questo fenomeno, hanno tentato di fornire delle giustificazioni di tipo religioso alla pratica della “circoncisione femminile”, facendo credere che essa sia prescritta dai comandamenti dell’Islam. Numerosi e diffusi sono, poi, i pregiudizi basati soprattutto sul concetto (radicato anche nella dottrina islamica della segregazione dei sessi) dell’inferiorità della donna e della sua “naturale impurità” (Hosken 1982: 78-79). Il fatto di considerare la donna come “impura”, permette di giustificare e legittimare, da un punto di vista religioso, la necessità che essa venga sottoposta ad una pratica che viene fatta passare come se fosse di purificazione tramite escissione e infibulazione, in modo da permetterle di essere pronta a dare dei figli legittimi e legittimabili (Hosken 1982: 78). Anche tra gli Afar, le bambine sono sottoposte all’operazione dell’escissione e poi dell’infibulazione, ma queste due pratiche, a differenza della circoncisione maschile, non sono inserite in un contesto rituale e cerimoniale e non producono alcun “miglioramento” riconosciuto della loro condizione all’interno della società. Secondo quanto riportato da Chailley (1980: 49-50), in alcuni gruppi di Afar l’escissione viene effettuata subito al momento della nascita o al massimo qualche giorno dopo, mentre in altri essa viene praticata all’età di circa otto anni. A compiere questa operazione sono delle anziane donne specializzate. Seguendo le precise definizioni mediche riportate da Fran Hosken (1982: 44-45) nel suo libro di denuncia contro queste pratiche di mutilazione sessuale femminili, l’escissione consiste:
nell’ablazione del clitoride e delle piccole labbra in totalità o in parte”, mentre l’infibulazione, detta anche “circoncisione faraonica (escissione con infibulazione), viene così descritta:  
dopo l’ablazione del clitoride e delle piccole labbra, i due bordi della vulva sono capovolti o messi a vivo e poi cuciti insieme. L’entrata della vagina è così otturata salvo una piccola apertura nella parte posteriore che permette l’uscita delle urine e del sangue mestruale. Le gambe della bambina sono in seguito legate insieme e lei rimane immobilizzata per parecchie settimane per permettere la formazione dei tessuti cicatrizzati. L’inserimento di un piccolo bastoncino di legno nella vagina permette di preservare la minuscola apertura”.

 
V.3.) Teste maschili e teste femminili: l’acconciatura

 
Gli interventi sul corpo in crescita nell’ambito dell’introduzione rituale allo stato adolescenziale pieno ed al successivo passaggio alla maturità si concludono, presso gli Afar, con una cerimonia chiamata “Darre-K Kalti”, cioè  “rasatura della testa”, che segna il passaggio definitivo del ragazzo nella categoria degli uomini, facendone un guerriero a tutti gli effetti (Chailley 1980: 51).  
A dispetto del nome, questo rituale non comporta una rasatura della capigliatura, ma il momento, a partire dal quale il ragazzo può iniziare a far ricrescere i suoi capelli come un uomo. Infatti, verso l’età di cinque o sei anni, sulla parte superiore della testa di tutti i bambini del gruppo, viene praticata una rasatura circolare (Chailley 1980: 21).  
I maschi devono mantenere la rasatura fino al compimento del rituale del “Darre-k Kalti”.
Le femmine devono riservare altri trattamenti alla loro capigliatura. Infatti, subito dopo la rasatura della parte superiore della testa di tutte le bambine, i capelli restanti formano come un anello circolare intorno alla testa e con essi vengono fatte delle treccine che prendono il nome afar di “kummudda” (Chailley 1980: 21).  
Successivamente la capigliatura viene lasciata ricrescere liberamente e la rasatura scompare rapidamente, ma i capelli ricresciuti devono essere tenuti separati dagli altri e quindi vengono intrecciati e riuniti insieme con un pezzo di stoffa nero.  
Essi prendono il nome di “Yaggarritte” (Chailley 1980: 21).  
I capelli sono imburrati ogni giorno e solo dopo il matrimonio le treccine, tenute fino ad allora separate, vengono riunite tutte insieme tramite un’unica fascia di stoffa nera a simboleggiare lo status di donna sposata (Chailley 1980: 21).  
Il rito maschile del “Darre-k Kalti”, viene effettuato quando i ragazzi raggiungono pressappoco l’età di quattordici o quindici anni e ad officiarlo è adibito lo zio di parte materna. Per la sua descrizione facciamo riferimento nuovamente a quanto riportato da Chailley (1980: 51-52). Come per la circoncisione, il luogo prescelto per compiere il rito è un’altura vicina all’accampamento e a parteciparvi sono soltanto lo zio materno, il padre del ragazzo e un amico che fa da aiutante. Il ragazzo viene posto a sedere su una grossa pietra e deve essere rivolto con lo sguardo fisso verso sud. Strumenti cerimoniali sono un’otre piena d’acqua in cui sono messe a macerare sette erbe e una capra bianca per il sacrificio. Il rituale inizia con la recita di una formula che sembra contenga anche alcuni versetti tratti dal Corano e che è conosciuta soltanto dagli anziani del gruppo che se la trasmettono oralmente, mantenendone l’assoluta segretezza.  
Essa viene proferita a voce bassa affinchè nessuno possa riuscire a capirne le parole. Poi viene presa la capra bianca e, dopo averla fatta girare intorno al ragazzo per sette volte, la si uccide. Il sangue della capra sacrificata viene fatto colare sopra la testa del ragazzo che poi viene lavato con l’acqua dell’otre. Presso alcuni gruppi, sembra che la capra non venga sacrificata e che il rituale del sangue non abbia luogo, utilizzando solo la speciale acqua appositamente preparata. Terminata questa cerimonia si fa ritorno all’accampamento cantando un ritornello: “Simbil l’amo leh” ossia “egli ha una fascia rossa sulla testa”. Questa frase fa riferimento alle usanze legate ai valori guerrieri della società Afar. Infatti quando un ragazzo iniziato va a combattere una guerra o è impegnato in una razzia, porta attaccato una striscia di stoffa rossa sull’impugnatura del suo pugnale (ghilè). Quando uccide il suo primo nemico, ha il diritto di cingersi la testa con quel pezzo di stoffa rossa in segno di vittoria. Su questo punto ci sono alcune discordie tra gli studiosi. Infatti, da quanto riferisce Lewis (1955: 168), un guerriero può indossare una fascia colorata di rosso solo dopo aver compiuto due omicidi, mentre Chailley (1980: 80) sostiene che ciò avvenga dopo la prima uccisione.  
Una volta rientrati all’accampamento, comincia per l’iniziato un periodo di ritiro all’interno di una capanna, che dura una settimana. Nessuna donna può entrare nella capanna eccetto sua sorella e sua madre. Durante questa settimana, egli non può toccare e non può essere toccato da nessuno, né può rivolgere la parola ad alcuno.  
Finito il ritiro egli deve fare delle fumigazioni facendo bruciare del grasso di capra mescolato a certi tipi di erbe. Una volta uscito dalla capanna egli è a tutti gli effetti un guerriero e da quel giorno ha il diritto di imburrarsi i capelli come tutti gli altri uomini.  
Nella società Afar la capigliatura maschile è molto importante ed è considerata il simbolo della virilità. Cospargere i propri capelli con il burro è ritenuto un privilegio spettante solo agli uomini che hanno compiuto il ciclo dell’iniziazione e serve sia a conferire una certa lucentezza alla capigliatura, sia a fornire un’adeguata protezione dal forte calore dei raggi del sole (Chailley 1980: 18).
La maturità è segnata dallo status del guerriero. Possiamo dire che la società Afar è una società monopartito nel senso di una società dominata dalla classe dei guerrieri. In effetti la pratica della guerra è un aspetto fondamentale nella prassi dell’esistenza quotidiana degli Afar. L’esercizio della guerra regola la dinamica dei rapporti interetnici. Lo sviluppo e l’importanza che l’organizzazione bellica assume presso gli Afar dipende principalmente da fattori economici ed ecologici. L’elevata mobilità e la ricerca costante di nuovi pascoli spingono spesso i gruppi ad un atteggiamento aggressivo.  
Altri elementi possono essere individuati nel tipo di strutturazione socio-culturale e nelle vicende storiche stesse dei vari gruppi in contrasto. Tali fattori possono dar luogo a forme quasi “istituzionalizzate” di espressione di tendenze aggressive e a situazioni di continua ostilità con i gruppi vicini. In tali condizioni si capisce come lo “status” di guerriero assuma un ruolo di primo piano all’interno della società Afar. Numerosi sono i segni esteriori dello “status” di guerriero tra gli Afar e tutti hanno una forte rilevanza sociale, oltre che individuale. La maggior parte di questi simboli fanno riferimento alla condotta coraggiosa di un uomo durante una guerra o una razzia. Uccidere un nemico, non solo aumenta la considerazione di un individuo all’interno del gruppo, ma rappresenta anche la condizione minima richiesta per potersi sposare (Lewis 1955: 169).  
Il primo omicidio può essere simboleggiato in diversi modi che variano da gruppo a gruppo. Presso quasi tutte le popolazioni Afar, l’uccisione del primo nemico, viene segnalata, indossando una piuma di struzzo tra i capelli per dodici mesi, un bracciale di metallo sulla mano sinistra e uno in avorio sulla destra (Chailley 1980: 80; Lewis 1955: 168). Tra gli cAdohyammàra un guerriero che uccide il suo primo nemico può cingersi la testa con una fascia colorata di rosso (Chailley 1980: 80) (Lewis, invece, come già detto precedentemente, sostiene che occorrono almeno due nemici uccisi).  
Due omicidi danno il diritto di decorare il proprio pugnale e il proprio fucile con un po’ di ottone e di forarsi i lobi delle orecchie (Lewis 1955: 168). Dieci nemici uccisi in guerra sono simboleggiati indossando un bracciale d’argento sul polso destro (Lewis 1955: 168). Il massimo valore di un guerriero è testimoniato da una collana detta Diri’le (Chailley 1980: 80). Per poter avere il diritto di indossare questi segni esteriori a testimonianza del proprio valore e coraggio, però, un individuo deve fornire la prova sicura del suo successo personale in battaglia. A questo fine egli deve mostrare la sua vittima ad un testimone, oppure, quando questo non è possibile, deve impossessarsi dei suoi testicoli e portarli all’accampamento come trofeo di guerra e come prova da mostrare agli altri membri del gruppo (Lewis 1955: 168; Chailley 1980: 80). Questi “trofei” sono la testimonianza del valore del guerriero e servono per aumentare il proprio status sociale. Spesso essi vengono offerti in dono alle giovani donne che si intende richiedere come spose. Tuttavia il significato simbolico di questa pratica oltrepassa il solo aspetto sociale.  
Il taglio dei testicoli è una pratica molto diffusa nell’intero Corno d’Africa ed era in uso anche presso l’antico Egitto (Hosken 1982: 77). Quest’usanza è riportata su tutti i resoconti che fanno riferimento agli Afar come una delle loro principali caratteristiche. Tutti i ritratti forniti dagli studiosi su questa popolazione, enfatizzano questo elemento, facendone un simbolo immediato dell’identità degli Afar. Da varie fonti, però, sembra che essi abbiamo acquisito questa usanza dai Galla che la praticavano già da tempo (vedi  Hosken 1982: 77).  
Il taglio dei testicoli dei nemici è, poi, testimoniato anche tra gli abissini e tra i Somali. Lewis (1983: 162) mette in relazione i testicoli con gli agnati maschi del gruppo. L’agnazione, come abbiamo già visto è un vincolo assoluto ed è la base del senso d’identità di un gruppo. “Il legame agnatico” dice Lewis (1983: 162) “non può essere reciso volontariamente, così come i testicoli”. Quindi, il tagliare questa parte del corpo ad un nemico sconfitto o ucciso durante una battaglia, può essere messo in relazione con la volontà di spezzare la catena che lega un individuo alla propria linea di discendenza agnatica, privandolo così dell’elemento più importante per la definizione della propria identità e del proprio senso d’appartenenza ad un gruppo. L’argomento potrebbe essere quindi messo in relazione, per contrapposizione, al significato della pratica della circoncisione. Mentre questa, infatti, ha lo scopo di far entrare un giovane ragazzo nel mondo degli adulti e quindi nel ciclo degli antenati, il taglio dei testicoli servirebbe a recidere questo legame di appartenenza ad una linea di discendenza genealogica.

 
V.4.) Il matrimonio

Altro importante rito di passaggio è il matrimonio che come in molte società, è considerato obbligatorio per la definizione dello status di adulto. Il matrimonio, oltre ad avere un aspetto rituale, è essenzialmente un contratto stabilito tra i due padri degli sposi (Lewis 1955: 169-170). Nella zona di Tagiura (Repubblica di Gibuti), però, come riferito da Chailley (1980: 55) i padri degli sposi non intervengono direttamente nella trattazione e sono gli zii di parte paterna a contrattare il prezzo che il giovane uomo deve pagare in cammelli e in capre, alla famiglia della sua futura sposa10.  
Gli uomini Afar possono sposare fino a quattro mogli, seguendo quanto stabilito dalla legge, la sari’a, musulmana (Lewis 1955: 170). La poligamia, però, nonostante sia ammessa, è scarsamente praticata, vista la povertà in cui vive la maggior parte della popolazione e il privilegio è spesso sfruttato soltanto dai capi e dai personaggi più rilevanti del gruppo (Chailley 1980). L’usanza generale è che un uomo prenda in sposa, come prima moglie, la figlia della sua zia paterna, ossia la sua cugina parallela. Ma si verificano numerose eccezioni e spesso si richiede il consenso dei due interessati per concludere il matrimonio (Chailley 1980: 55).  
Presso gli Afar esistono sia il levirato che il sororato. La prima pratica riguarda l’obbligo da parte di una vedova di sposare il fratello del marito defunto o ottenere il suo permesso per sposarsi con qualcun altro (Chailley 1980: 55). Il sororato, invece, è previsto solo in caso di morte della moglie. Solo in quella circostanza il vedovo può sposare la sorella della propria sposa defunta.  
Come abbiamo già detto, per un uomo la condizione indispensabile per potersi sposare è quella di aver ucciso almeno un nemico. Per la donna invece basta aver compiuto il decimo anno di età (Lewis 1955: 169). Una volta contrattato il prezzo della dote che l’uomo deve pagare per poter acquisire una donna come propria moglie, si fissa il periodo in cui si celebrerà il matrimonio. La data precisa viene stabilita da alcuni anziani del gruppo, in base alla favorevole posizione astrologica e di solito si preferisce effettuare il rito nuziale in una notte con la luna piena dopo aver compiuto dei sacrifici animali (Chailley 1980: 56).  
Riferisce Lewis (1955: 170) che nelle città della costa per la celebrazione del matrimonio è spesso richiesta la presenza di qualcuno che sia in grado di leggere il Corano.  
Il rito matrimoniale che si celebra nelle zone desertiche è molto diverso da quello praticato nelle città, dove ormai le forme rituali si sono adeguate agli aspetti della vita sedentaria e seguono più da vicino i precetti del matrimonio islamico. In entrambi i casi comunque, le feste che accompagnano il matrimonio durano diversi giorni e prevedono sacrifici animali, banchetti, canti, danze e giochi. Franchetti (1930: 212) sostiene che tra le popolazioni che abitano le zone desertiche della Dancalia il rito nuziale, manifesta una serie di elementi tesi ad affermare la supremazia e l’autorità dell’uomo sulla donna. Secondo il suo resoconto, presso la zona del Lago Afrera (Dancalia centrale), lo sposo si presenta di fronte alla capanna della sua ormai prossima moglie, armato di frusta, ad asserire il suo ruolo dominante e la sua presa di possesso sulla propria sposa.  
Il rituale prevede, però, che la ragazza opponga una certa resistenza e per questo motivo viene legata strettamente dalla propria madre. L’uomo per entrare in possesso della sua sposa deve riuscire a slegarla facendo uso soltanto delle mani, mentre la donna oppone resistenza come può. Solo dopo che la lotta si è protratta per un po’ la donna deve arrendersi pronunciando una formula di rito con la quale si dichiara vinta. Tra le molte varianti rituali in cui si celebra il matrimonio nelle varie zone della Dancalia, questo elemento della forza che l’uomo deve utilizzare per vincere la resistenza della donna ricorre quasi sempre. Dopo aver celebrato le nozze, mentre nelle città i due sposi vanno a vivere in una nuova casa appositamente costruita per loro, nelle zone desertiche essi ritornano a vivere per un certo periodo (che può variare da quaranta giorni a due o tre anni) presso i propri genitori. La donna sposata, però, non vive più nella loro capanna, ma ne possiede una propria (Chailley 1980: 61).  
Trascorsa questa fase, la moglie va a vivere presso la capanna del marito. La rottura di un fidanzamento, così come i divorzi o il ripudio di una moglie e i casi di adulterio, sono in genere risolti finanziariamente a danno del colpevole, con il pagamento in cammelli e capre (Lewis 1955: 170; Chailley 1980: 62).

V.5.) Ultimo rito di passaggio: la morte

 
Prima di affrontare l’analisi dell’ultima fase del ciclo della vita individuale Afar occorre fare una breve digressione per dare qualche breve informazione sullo status della vecchiaia. Abbiamo già visto nel corso di questo capitolo che le competenze e le conoscenze appannaggio degli anziani del gruppo sono di fondamentale importanza ai fini della vita sociale e religiosa degli Afar.  
Anche nell’ambito dello status della vecchiaia è in opera una netta distinzione tra le competenze femminili e quelle maschili. Vediamo così che le donne anziane del gruppo svolgono mansioni ristrette esclusivamente alla sfera femminile. Mi riferisco a tutte le azioni pratiche legate alle fasi inerenti alla crescita femminile, come ad esempio quelle svolte nelle vesti di levatrice in occasione dei parti o quelle riguardanti operazioni come l’escissione e l’infibulazione nelle bambine. Tutte mansioni che richiedono esperienza ed una conoscenza possiamo dire superiore.  
Gli anziani maschi del gruppo invece hanno mansioni e competenze di valore simbolico-religioso. Essi sono i custodi di conoscenze superiori legate alla sfera dei poteri magico-religiosi di guarigione. In questo senso è importante il fatto di essere spesso gli unici conoscitori e detentori di formule incantatorie e ricette particolari da usare nel corso di rituali. Come vedremo in un capitolo a parte, in molti casi si tratta di un personale specializzato interno al gruppo “tribale” adibito proprio a queste pratiche magico-religiose. Molto importanti sono le conoscenze astrologiche necessarie per stabilire i periodi propizi per effettuare riti o per fissare le nozze e gli spostamenti in cerca di pascoli. A proposito di questo argomento utili informazioni  possono essere tratte da un interessante studio di Enrico Cerulli (1929: 71) sul calendario astrologico in uso presso Somali e Afar. Il calendario in uso presso gli Afar deriva da quello arabo basato su una suddivisione dell’eclittica in 28 stazioni lunari. Tra gli Afar il nome di ogni stazione è messo in relazione con ognuno dei 29 giorni del mese.  
Per ogni giorno si può stabilire perciò l’influsso positivo o negativo della “stazione astrologica” rispetto ad eventi importanti sul piano della vita sociale e della vita culturale (nascita, matrimonio, piogge, riti di passaggio). Le conoscenze astronomiche e astrologiche necessarie sono considerate una porzione del sapere della “tribù” di cui gli anziani sono i custodi. Torneremo ancora su questo argomento per metterne in rilievo alcuni risvolti importanti sul piano della religiosità Afar. Riprendiamo il discorso interrotto e analizziamo l’ultima fase del ciclo della vita individuale Afar: la morte.  
I rituali legati alla morte mirano ad allontanare il defunto e ad inserirlo nella collettività nuova alla quale d’ora in poi appartiene. Nel caso degli Afar gli antenati. Nella società Afar, i riti funerari, variano da gruppo a gruppo, soprattutto in base al loro grado di islamizzazione.  
Sulla costa e nelle città, dove vi sono molte moschee e l’Islam è radicato in maniera più forte, si tende a seguire il rituale funerario e di sepoltura islamico, mentre nelle zone più desertiche, dove la presenza dell’Islam è più debole, si ha una certa commistione con pratiche religiose che mostrano la resistenza delle credenze e delle forme rituali risalenti al periodo preislamico. In tutti i casi però, l’uso islamico ha oscurato in gran parte il rito diverso tradizionale. La morte è annunciata, generalmente, da lamenti, grida e canti dei parenti e degli amici del defunto. Subito dopo la morte, il cadavere viene spogliato, portato fuori dalla capanna e condotto (quando possibile) ai piedi di un albero per effettuare la pulizia del corpo. Per la descrizione del rituale funerario comunemente in uso presso gli Afar ci riferiamo al racconto riferito da Chailley (1980: 63-66).  
Egli sostiene che il lavaggio del defunto viene effettuato da un uomo anziano secondo un preciso rituale. Prima di tutto vengono effettuate abluzioni delle mani e dei piedi, poi viene versata dell’acqua sul fianco destro e sul fianco sinistro del defunto per tre volte, il tutto accompagnato con la recitazione di alcuni versetti del Corano. Questa informazione ci viene riferita anche da Lewis (1955: 171). Tuttavia nessuna delle fonti in mio possesso menziona quali versi del Corano siano utilizzati nel corso di queste cerimonie funebri. Considerata la forte islamizzazione del rito funebre tradizionale Afar si può supporre che anche in questo caso si segua la prassi comune stabilita dalla sari’a. In proposito possiamo trarre utili informazioni dal testo di Bausani (1999: 65). Egli riferisce che secondo quanto stabilito dalla sari’a, nel corso del rituale funebre islamico deve essere recitata una preghiera speciale, la cosiddetta preghiera dei morti (salat al-ginaza). Dopo aver eseguito il lavaggio rituale, il corpo viene chiuso all’interno di un lenzuolo bianco e condotto al luogo di sepoltura scortato da un corteo di parenti e amici tra grida e pianti11.  
L’uso islamico prevede anche che prima del seppellimento sia “suggerita” all’orecchio del defunto la professione di fede in modo che si trovi preparato per affrontare il viaggio verso l’al di là.  
In seguito il defunto viene posto sotto terra ad una profondità di circa un metro e mezzo e con la testa rivolta verso la direzione della Mecca sempre secondo la pratica islamica. Molto spesso su una delle pareti laterali della fossa viene scavata un’apertura dove viene posto il cadavere. Di norma con il corpo non viene seppellito nessun oggetto (Chailley 1980: 65). La fossa viene richiusa e poi sormontata da un cumulo piramidale o cilindrico di pietre e, dove possibile, di rami accatastati. Qualche volta, i parenti del defunto piantano sulla tomba due rami di palma, se il defunto è un uomo e tre se è una donna. Subito dopo versano dell’acqua sul luogo della sepoltura e sulle tombe vicine perché, sostengono essi, “i morti hanno sete12” (Chailley 1980: 65). A questa pratica va accomunata la notizia di un’altra usanza che ci viene riferita dall’esploratore e studioso Giovan Battista Licata (1885: 268), il quale dice: “compiuto il sotterramento, i giovani del villaggio circondano il sepolcro e danno da mangiare al morto…”.  
Le offerte e i rituali di questo tipo, sono comuni a molti popoli, anche fuori dal continente africano (Vicino Oriente, Mediterraneo). Quasi sempre queste pratiche rituali sono legate alla credenza che il morto stia andando ad intraprendere un lungo viaggio verso il mondo degli antenati e quindi ha bisogno del nutrimento necessario per poter giungere a destinazione. Al termine del rituale funerario, tutti fanno ritorno all’accampamento dove per sei o sette giorni si celebrano sacrifici di capre e si recitano versetti del Corano. L’anno seguente si effettua una cerimonia commemorativa in ricordo del defunto, con preghiere e sacrifici animali, che dura dai tre ai sette giorni, ma che non deve essere effettuata necessariamente presso la tomba (Chailley 1980: 65). Trattandosi di popolazioni nomadi, infatti, è difficile che esse facciano ritorno sugli stessi luoghi di frequente. Anche per questo motivo, in genere, il luogo della sepoltura non è oggetto di visite. Tuttavia presso gli Afar, si celebrano periodici sacrifici e feste in memoria dei morti in occasioni speciali come ad esempio quando una persona morta appare in sogno. Lewis (1955: 172) sostiene in proposito che gli Afar sarebbero dediti alla pratica di un culto dei morti13 e che ciò sarebbe testimoniato anche dalle elaborate strutture delle tombe Afar e dai monumenti commemorativi che essi dispongono accanto ai luoghi di sepoltura in onore dei personaggi più illustri. Questo sembra realmente possibile solo se si ritengono i defunti come antenati. In questo senso è importante un osservazione fatta dall’africanista Trimingham Spencer (1980: 115) secondo il quale lo spirito della persona morta è spesso associato in Africa Orientale, ad un altare posto dove vengono invocati gli spiriti degli antenati e dove generalmente si fanno sacrifici, preghiere e offerte.  
Gli antenati non sono altro che i morti della famiglia o della comunità. Tuttavia da un punto di vista religioso vanno distinti dagli spiriti dei morti. Dominique Zahan, nel saggio già citato compreso nel libro sulle religioni dei popoli senza scrittura curato da Henry Charles Puech (1992: 58), definisce la figura dell’antenato secondo alcuni parametri precisi. Può aspirare a divenire antenato un uomo che abbia raggiunto un’età piuttosto avanzata e per questo ritenuto in possesso di esperienza e conoscenza profonde.  
Altra caratteristica è che egli non sia morto a causa di una malattia. L’uomo che aspira a divenire antenato deve mostrare in vita un’integrità fisica e psichica assoluta. Il culto degli antenati rappresenta per molti popoli cosiddetti “primitivi” uno degli aspetti predominanti della loro religiosità.  
Ad essi si richiedono tutte le cose importanti per la vita sociale. Protezione da sciagure e malattie, prosperità e benessere, successo in guerra ecc… Un caso a parte è rappresentato dall’antenato mitico il cui prestigio è superiore essendo ritenuto il più antico di tutti, colui che ha “fondato” il gruppo umano che da lui discende. Tra gli Afar è il caso ad esempio di Hadalmahis.  
Il “culto degli antenati” ha certo favorito la diffusione della devozione rivolta ai cosiddetti “santi” della tradizione sufica musulmana.  
Ad essi gli Afar tributano una venerazione particolare che si risolve in un vero e proprio culto. Talvolta alcuni di essi sono considerati antenati del lignaggio, ma essi sono venerati in quanto operatori di miracoli e per aver avuto un ruolo di primo piano nell’introduzione dell’Islam.  
Le loro sepolture rientrano nella tipologia delle tombe Afar e sono oggetto di pellegrinaggi e culti votivi periodici.  
Le strutture che sormontano le tombe Afar, come abbiamo detto sopra, sono costituite da un cumulo piramidale o cilindrico di pietre o con rami accatastati. Esse di preferenza sono erette su piccole alture e, spesso sono caratterizzate da segni esteriori che fanno riferimento a significati di vario tipo. Molti gruppi, però, mostrano di avere un proprio sistema di segnali, per cui vi è una grande varietà di elementi riscontrabili nella simbologia delle tombe Afar, che non sempre sono stati decodificati e che andrebbero studiati in maniera più approfondita. Nelle zone desertiche della Dancalia, si trovano spesso delle sepolture in pietra di forma cilindrica. Talvolta, queste strutture sono sormontate da due pietre poste in verticale, a segnalare che la tomba racchiude il corpo di un uomo deceduto per morte violenta.  
Nei casi di morte non naturale, il rituale di sepoltura prevede che non venga scavata alcuna fossa, che non si facciano abluzioni e lavaggi sul corpo del defunto e che non lo si orienti in direzione della Mecca (Chailley 1980: 66). Tra i segnali riconoscibili che più di frequente sono posti sulle tombe Afar, vi sono quelli che riguardano la compiuta vendetta o meno del defunto morto assassinato (Franchetti 1930: 200; Lewis 1955: 171). Raimondo Franchetti (1930: 200-201), durante il suo viaggio esplorativo attraverso la Dancalia (1928-29) ha raccolto numerose informazioni che riguardano la simbologia e i significati dei segnali posti sui luoghi di sepoltura presso le varie popolazioni Afar. Come egli ci riferisce, alcune “tribù” sono solite innalzare una sorta di obelisco in pietra sopra la struttura cilindrica della tomba, per testimoniare che la vendetta è stata compiuta, ma in genere questa usanza è riservata a personaggi importanti. Presso altri gruppi, invece, vengono costruite tombe, sempre di forma cilindrica.  
Per coloro che sono morti per cause naturali, queste tombe sono sormontate da una sorta di cumolo tondeggiante di pietre, mentre per coloro la cui morte deve essere vendicata, si lascia la struttura cilindrica con la superficie superiore piatta, fino a quando la vendetta non è stata compiuta. Altre usanze ancora, sono quelle di ricoprire la struttura sepolcrale con un cumulo di pietre bianche una volta che la vendetta è stata messa in pratica, mentre vengono utilizzate pietre nere per sottolineare che la vendetta non è stata ancora compiuta.  
Altri elementi posti sempre sul luogo della sepoltura stanno a testimoniare l’importanza sociale e il valore come guerriero del defunto. Secondo l’esploratore Lodovico Nesbitt (1930: 199) una fila (o più) di pietre conficcate verticalmente nel terreno proprio di fronte alla tomba, indicano il numero di uomini uccisi dal guerriero quando era in vita. Spesso le tombe di personaggi importanti sono racchiuse entro una sorta di recinto circolare fatto con delle pietre. Il recinto presenta un’apetura sull’asse della tomba più importante che è posta al centro. Lewis (1955: 171) riferisce che molte volte vengono eretti in onore di personaggi di particolare prestigio vere epigrafi, monumenti funebri (das) costruiti separatamente dalle tombe vere e proprie e che non contengono alcun corpo. Si tratta di cenotafi. Essi sono generalmente delle elaborate strutture costituite da vari cumuli di pietre disposti in cerchio. Di fronte alle tombe e a questi monumenti in onore delle persone più importanti, vengono posti, poi, dei piccoli circoli bassi di pietre laviche, dove hanno luogo sacrifici animali che vengono compiuti, sia al momento della loro sepoltura, sia successivamente. La tipologia delle tombe Afar e la loro struttura sono antecedenti all’avvento dell’Islam e probabilmente risentono di influssi culturali esterni e antichi. È un dato della cultura Afar che deve essere oggetto di una ricerca più approfondita.

NOTE

1 Lo studio generale sui riti di passaggio si deve ad Arnold Van Gennep: “Les rites des passages” Paris 1909.

2 Il che significa che esiste una “scienza” astrologica condivisa dal gruppo o patrimonio di alcuni individui. Torneremo più avanti su questo argomento affrontandolo in maniera più dettagliata.

 
3 Secondo Trimingham Spencer (1980: 122) si tratta degli stessi versi che si usano nelle pratiche di “magia” islamica, in particolare frasi tratte dalla sura di Ya Sin (XXXVIV), dei versi 113-114 di mu’awwidhatan e di altri non meglio specificati.

 
4 Le notizie sono tratte dai resoconti forniti da Chailley (1980: 53) e Lewis (1955: 169).

 
5 È un’osservazione tratta da Trimingham Spencer (1980: 127).

 
6 La scelta di effettuare delle cerimonie rituali in luoghi posti su un altura è legata al fatto di considerarli luoghi di relazione con il cielo che è la sede per eccellenza delle potenze sovrumane.

 
7 La scelta di effettuare questo rito di passaggio nel momento dell’anno che segna il ritorno delle piogge ha una valenza simbolica comune a molte popolazioni nomado-pastorali africane, che si presta ad una lettura che pone sullo stesso piano la rinascita dell’iniziato alla rinascita della vegetazione.

 
8 In effetti come riferisce Hosken (1982: 45)si sono riscontrati numerosi casi di decessi, soprattutto in seguito all’infibulazione.

9 In Egitto escissione e infibulazione venivano praticate già da diversi millenni e in molte regioni dell’Africa esse erano in uso molto prima dell’avvento dell’Islam (Hosken 1982: 77).

 
10 Gli Afar praticano il cosiddetto “bride-wealth” o “pris de la fiancée” che in molte società si oppone al regime dotale in vigore consuetudinario sino quasi alla contemporaneità in molte società occidentali. Per John Goody, che studia in chiave comparata il fenomeno, il cosiddetto “prezzo della sposa” è praticato particolarmente da società “africane”, o più generalmente da società basate sulla filiazione unilaterale. Al contrario la dote è in vigore in società che valorizzano i sistemi di alleanza. Testo di riferimento è: “Bridewealth and dowry” di John Goody e S. Tambiah, Cambridge 1973.

 
11 Molte volte la sepoltura ha luogo sul luogo del decesso stesso, soprattutto quando si tratta di individui di modesta condizione sociale. Secondo Franchetti (1930: 203) solo i ricchi hanno diritto all’onore del trasporto, per far si che la loro tomba sia eretta in luoghi adeguati, preferibilmente su piccole alture.  

 
12 La “sete dei morti” ha una tradizione antichissima. La troviamo nei rituali attribuiti ai cosiddetti Orfici, gruppi esoterici attivi nel mediterraneo greco a partire almeno dal V secolo a.C.  

 
13 Lewis (1955: 172) menziona una festa annuale dei morti chiamata Rabena, tenuta sui luoghi di sepoltura di importanti personaggi della società Afar.
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