CAPITOLO IV
Gli Afar come Pastori
IV.1.) Pastoralismo e nomadismo
Secondo Salzman (1980) una società può essere definita pastorale quando si dedica all’allevamento di animali erbivori, dislocandosi sul territorio in base alla ricerca dei pascoli e dei punti d’acqua necessari alla sussistenza delle mandrie. Generalmente, la pastorizia si pratica su terre che non sono adatte alla produzione agricola. Infatti, essa ha luogo principalmente in ambienti aridi o semiaridi o in regioni di montagna. Le società pastorali sono quasi sempre costrette a compiere degli spostamenti secondo dei cicli di migrazione che seguono dei criteri di carattere ambientale e climatico. La mobilità di uomini e animali può assumere varie forme e gradi e può andare, dagli spostamenti ciclici stagionali e sulla base dell’andamento delle piogge, al nomadismo basato su spostamenti, generalmente, non ciclici e regolati da diritti consuetudinari o dall’uso della forza.
Un caso estremo è quello che riguarda migrazioni che comportano spostamenti di interi gruppi al di fuori delle proprie aree di tradizionale sfruttamento, senza farvi più ritorno. Come rilevato da Dawn Chatty in un capitolo compreso nel testo di Salzman (1980: 82) però, occorre fare attenzione a distinguere i termini “pastoralismo” e “nomadismo”, perchè spesso, nell’uso comune, tendono ad essere confusi e interscambiati tra di essi. In effetti, il pastoralismo definisce un tipo di organizzazione economica e un modo di vita, mentre il nomadismo, riguarda un tipo di organizzazione spaziale (Salzman 1980: 82). Essi sono spesso legati l’uno all’altro, ma possono sussistere anche separatamente. I popoli nomadi, infatti, non necessariamente sono coinvolti nella pastorizia.
Ad esempio i Suleyyeb, nel deserto della Siria, sono nomadi dediti all’artigianato in metallo e al commercio (Salzman 1980: 82).
Il pastoralismo può riguardare anche delle popolazioni sedentarie, che utilizzano le risorse dei pascoli locali e i prodotti degli animali da allevamento per la propria sussistenza o per motivi di commercio (Salzman 1980). Quasi tutte le società nomadi dedite al pastoralismo, non vivono esclusivamente dei prodotti dell’allevamento del bestiame e spesso, includono al loro interno anche gruppi di pastori che sono meno mobili e spesso dislocati su territori in cui è possibile effettuare delle attività agricole o d’altro tipo. Anche gli Afar sono generalmente annoverati tra le popolazioni nomado-pastorali, ma non tutti i gruppi in cui si suddividono, sono esclusivamente dediti a questa attività.
Il pastoralismo, però, rimane sempre la loro principale occupazione e determina una forte influenza sia sulla cultura materiale sia sulle forme simbolico-religiose. Tuttavia gli Afar in quanto pastori e nomadi si trovano coinvolti in quella che viene definita da molti studiosi come l’attuale crisi del nomadismo. Henry Guillaume e André Bourgeot nell’introduzione alla rivista “Politique Africaine” di giugno del 1989, tracciano un quadro generale della situazione difficile in cui si trovano attualmente molti popoli nomadi analizzando i vari aspetti e motivi che hanno condotto alla crisi del nomadismo. I due autori mettono in evidenza come nella storia e nell’evoluzione delle società umane, i popoli nomadi hanno sempre rivestito un ruolo molto importante. In Africa in particolare, essi hanno svolto una fondamentale opera nello sviluppo delle tecniche di sfruttamento di territori spesso aridi e desertici e hanno occupato anche un posto di rilievo nello sviluppo dei commerci e nella formazione dei poteri centralizzati, oltre ad aver contribuito in maniera determinante alla diffusione dell’Islam. A partire però, dal periodo coloniale e dal contatto con le nazioni europee, le società nomadi hanno iniziato ad essere oggetto di una rappresentazione degradante e negativa, che si è perpetuata nel corso degli anni fino ad oggi. Le amministrazioni coloniali europee, infatti, volte al controllo del commercio e delle popolazioni autoctone, oltre che all’espropriazione delle risorse naturali, hanno trovato una particolare opposizione da parte dei nomadi, mobili, indipendenti e quindi difficili da controllare.
Di fronte all’opera “civilizzatrice” che il mondo capitalistico occidentale intraprese in Africa imponendo il sistema etico-morale europeo con tasse, censimenti, scolarizzazione, introduzione di più avanzate tecniche di agricoltura, monetarizzazione, ecc… i popoli nomadi sono stati rappresentati come banditi dediti ad attività predatorie e a barbarici riti e pratiche religiose. Nello stesso tempo la colonizzazione ha iniziato il processo di destrutturazione delle società nomadi, introducendo nuove attività economiche e disarticolando i rapporti di dominio interetnici esistenti tra le varie popolazioni nomadi stesse o con quelle agricole. Inoltre, con la creazione di confini amministrativi più rigidi essi hanno limitato la possibilità di movimento alla quale queste società erano abituate, modificando anche la strutturazione degli spazi gestiti dalle varie popolazioni nel corso dei loro spostamenti. In questo modo il dominio europeo ha dato inizio al processo d’indebolimento socio-economico dei popoli nomadi africani che, in seguito, è ulteriormente proseguito con la politica d’integrazione, spesso forzata, portata avanti dagli stati moderni contemporanei.
Attualmente, la crisi del nomadismo è estremamente grave, tanto che la destrutturazione delle società nomadi sembra irreversibile. D’altra parte, la moltiplicazione dei confini amministrativi all’interno degli stati, la conseguente diminuzione della possibilità di spostamento dei gruppi di nomadi, l’estensione dei piani di sviluppo agricolo, l’introduzione di rapporti salariati e monetari, l’espropriazione dei territori e delle risorse naturali, la creazione di sempre più ramificate infrastrutture per incrementare l’attività commerciale e per facilitare l’accesso dei turisti nelle varie regioni, hanno scatenato in molti casi una reazione violenta all’integrazione.
Questo è il caso degli Afar1come abbiamo avuto già modo di vedere nei capitoli precedenti. La loro resistenza, così come quella di altri popoli nomadi, di fronte ai piani di sedentarizzazione forzata messi in pratica dai governi centrali, è spesso messa in crisi dai periodici dissesti ecologici e climatici che, causando carestie disastrose, decimano le loro popolazioni e il loro bestiame.
In seguito anche a queste gravi difficoltà di sopravvivenza, negli ultimi anni, si sono creati flussi migratori sempre più vasti di nomadi Afar diretti verso le città, nella speranza di trovare migliori condizioni di vita e con conseguente formazione di bidonvilles.
Le bidonvilles possono essere considerate uno degli esiti più comuni della sedentarizzazione, dove per sedentarizzazione s’intende un cambiamento da un sistema di vita mobile ad uno statico, immobile (Salzman 1980). Il processo di sedentarizzazione comporta inevitabilmente un mutamento nell’ambito culturale con conseguente svalutazione dei modelli d’identità. Ad esempio vengono a cadere i rituali tradizionali d’iniziazione legati al modo di vita nomadico. Anche i rituali tradizionali che permangono nonostante la sedentarizzazione, subiscono delle variazioni che si ripercuotono, sia sul loro significato, che sulla prassi con la quale vengono effettuati.
Il processo di sedentarizzazione, comunque, non sempre è stato imposto con la forza dai poteri governativi e spesso si sono verificati, e si verificano tuttora, delle sedentarizzazioni che possiamo definire “spontanee” e “assistite”2. Per spiegare il modo spontaneo in cui può verificarsi il processo di sedentarizzazione di una società, Salzman (1980: 14) propone quello che egli chiama un “modello di adattamento e risposta”, in cui la sedentarizzazione è vista come una risposta volontaria alle pressioni al cambiamento, ma anche alla disponibilità di alternative e opportunità, sia interne che esterne alla società. Spesso è la prossimità a delle risorse permanenti, come punti d’acqua o siti agricoli, o la presenza di nuovi centri con scuole, cliniche e spesso di punti di vendita di merci o di distribuzione di aiuti alimentari, a spingere gruppi di nomadi a localizzarsi in maniera permanente e spontanea su un certo territorio (Galaty 1989: 42).
Ciò non toglie che, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la maggior parte delle popolazioni africane nomadi, sono state soggette a continue pressioni e a piani di sedentarizzazione forzata provocata anche da catastrofi climatiche (siccità e carestie)3 che le hanno spinte verso forme d’insediamento più stabili. Considerando che queste sedentarizzazioni e integrazioni forzate conducono inevitabilmente a fenomeni di forte impoverimento e di dipendenza da aiuti governativi (e spesso internazionali), e tenendo presente che le società nomadi (in particolare pastorali) assicurano una buona parte dei bisogni alimentari regionali o nazionali e che il loro adattamento e capacità di sfruttamento delle risorse delle zone aride e semiaride è importante ai fini degli equilibri sociali globali delle varie nazioni, occorre mettere in evidenza che forse il problema dei governi africani non è quello di eliminare del tutto il nomadismo, ma quello di rinforzarne al meglio le qualità e le risorse, permettendo una loro maggiore partecipazione alle politiche economiche nazionali.
IV.2.) Lo specifico modello nomado-pastorale Afar
Gli Afar si inseriscono esemplarmente nel quadro nomado-pastorale sopra tracciato allevando greggi di capre e pecore e mandrie di cammelli. Come abbiamo già detto precedentemente, non tutte le popolazioni vivono esclusivamente dei prodotti della pastorizia.
I gruppi che sono dislocati nei territori vicini alla costa praticano, in forme piuttosto blande, la pesca, mentre quelli che si spostano nei pressi delle fertili terre lungo il corso del fiume Awash, si dedicano anche ad una rudimentale agricoltura.
Un’altra attività alla quale si dedicano alcuni gruppi Afar, è l’estrazione della “duma”, un liquido alcolico ricavato mediante incisioni effettuate sul tronco delle palme dum (dalle quali deriva il nome di questa bevanda) che crescono abbondanti nelle zone lacustri (ad esempio presso il Lago Afrera, nella Dancalia centro settentrionale) e attorno al fiume Awash.
Nel cosiddetto “Grande piano del Sale”, invece, presso il lago salato d’Assalè nella Dancalia centro-settentrionale, alcuni gruppi Afar s’impegnano nell’escavazione del sale che poi, trasportato in blocchi, viene venduto presso i mercati abissini sugli altopiani (Lewis 1955: 158). Per quanto riguarda le altre attività di commercio, gli Afar scambiano il bestiame e i suoi prodotti in cambio di durra4 (dalla quale ricavano la farina), miglio e stoffe o vestiti, acquistati sui mercati della costa o nelle città sugli altopiani etiopi (Lewis 1955). L’allevamento del bestiame, comunque, resta la principale attività svolta dagli Afar. Esso impronta tutti gli aspetti della società Afar e rappresenta il modo di vita che essi seguono ormai da secoli.
Gli animali non vengono allevati per la macellazione, ma essenzialmente per ottenere il latte, che è la base (insieme al burro e a volte alla carne) dell’alimentazione degli Afar. Di norma essi non consumano molta carne. Soltanto nella stagione secca quando cibo e acqua scarseggiano o in casi di grave carestia, pecore e capre vengono uccise per motivi alimentari, mentre l’uccisione dei cammelli è sempre piuttosto difficile. L’imporanza del latte è quella di essere rinnovabile giornalmente e di non presentare particolari problemi per l’immagazzinamento e il trasporto. D’altra parte però, esso implica una dipendenza diretta dall’acqua e dalla vegetazione, il che impone frequenti spostamenti. Secondo quanto riportato da Chailley (1980: 41-45), di solito la maggior parte dei gruppi Afar non rimangono più di tre mesi nello stesso posto e quindi l’organizzazione degli accampamenti non è particolarmente curata.
La forma dell’insediamento cambia a seconda delle zone e della sua grandezza, ma in genere è riconoscibile una struttura base comune alla maggior parte dei gruppi. Le capanne, “gourbi” in lingua Afar, sono costruite con una struttura di rami intrecciati ricoperta con stuoie e hanno la forma semisferica simile ad un igloo. Esse sono sistemate generalmente in un cerchio, al cui interno è disposto una sorta di recinto per le greggi di pecore e capre (i cammelli, in genere, sono lasciati liberi di pascolare oppure rinchiusi in recinti separati), il cui scopo è quello di proteggere gli animali da attacchi di animali selvaggi o di gruppi nemici (Lewis 1955: 165; Chailley 1980).
Gli uomini dormono generalmente fuori dalla capanna, rimanendo pronti ad intervenire in caso di raid notturni. Ciò che importa della descrizione dell’insediamento tipo degli Afar sono le sue implicazioni sociali tra le quali è molto importante la divisione del lavoro maschile e femminile e la conseguente divisione dei ruoli di genere iscritti sul territorio. Troviamo alcune utili informazioni a riguardo in Chailley (1980: 35) e in Lewis (1955: 162, 165).
La residenza è quasi sempre patrilocale e solo sporadicamente matrilocale ma la capanna non appartiene all’uomo. Essa è una proprietà della donna che la riceve in dono il giorno del suo matrimonio. Le giovani non ancora sposate e i bambini abitano insieme alla loro madre e a volte con le loro sorelle o cugine.
Le capanne sono erette e smontate dalle donne, alle quali spetta, giornalmente, di compiere la maggior parte dei lavori pesanti.
Esse devono raccogliere la legna e percorrono a volte decine di km. per raggiungere i punti di approvvigionamento dell’acqua.
Inoltre preparano il cibo, macinano la durra per ricavarne una sorta di farina, mungono il bestiame, ovini e caprini ma non i cammelli e custodiscono le greggi, preparano il burro e intrecciano le stuoie.
Il mondo maschile è legato all’allevamento del cammello e alla “guerra”. I ragazzi più giovani e gli uomini hanno il compito di custodire le mandrie di cammelli. Solo i maschi adulti, che hanno assunto il rango di guerrieri, pianificano raids contro i gruppi nemici (Lewis 1955: 162; Chailley 1980).
È importante osservare che tra gli Afar esiste una ripartizione territoriale più precisa, rispetto ad altre popolazioni nomado-pastorali vicine e socialmente simili a loro, come i Somali5.
La proprietà di un territorio è data dalla sua occupazione effettiva e dalla capacità di difenderlo da attacchi esterni. Ogni gruppo o famiglia possiede, in genere, una porzione di terra ben determinata e non può disporsi a suo piacimento sui territori circostanti.
Questa territorializzazione è segnata da un certo numero di elementi naturali noti a tutti e quando un gruppo deve spostarsi in un altro luogo, a causa dell’esaurimento di un pascolo, deve chiedere il permesso di istallarvisi al capo della popolazione che abita quel territorio (Chailley 1980: 42). In genere l’autorizzazione a pascolare viene data gratuitamente, ma molte volte viene richiesto il pagamento di un tributo in bestiame. Inoltre va fatto notare, che per la scarsità dei punti d’acqua, non tutti i territori possono possedere un pozzo d’acqua. Così, molti gruppi spesso devono accordarsi tra di loro per attingere a dei pozzi in comune (Chailley 1980: 41). La difficoltà di raggiungere degli accordi, però, fa quasi sempre scoppiare dei conflitti tra i vari gruppi. L’acqua, in effetti, essendo molto scarsa è la più ambita risorsa di questa terra ed è il motivo principale della continua bellicosità delle popolazioni Afar e della loro strenua difesa dei pozzi sparsi sul territorio in cui abitano. Grande valore assume anche il bestiame.
La rilevanza che esso possiede per le società nomado-pastorali in Africa è tale che già nel 1926, l’antropologo americano e grande africanista Melville Herskovits6 arrivò ad esporre una teoria in cui parlava di un “cattle complex” (sorta di “feticismo” degli allevatori africani nei confronti del proprio bestiame). In effetti, gli animali allevati in queste società, oltre ad avere un valore alimentare e ha rappresentare un bene accumulato, hanno grande importanza socio-culturale e simbolico-religiosa. Tra gli animali allevati dagli Afar, il cammello è quello che ha il più alto valore socio-culturale, mentre pecore e capre, hanno una valenza soprattutto alimentare, anche se sono spesso utilizzate per effettuare sacrifici durante i rituali (il sacrificio del cammello è meno comune perché comporta una perdita economica troppo elevata). La loro cura è una prerogativa esclusivamente maschile e in genere è affidata a ragazzi di un’età compresa fra i sette e i venti anni (Lewis 1983: 95). Le difficoltà incontrate dai giovani cammellieri, soprattutto nelle stagioni secche, quando per mesi devono vagare con le loro mandrie lontani dall’accampamento alla ricerca dei magri pascoli, rappresentano una sorta di “scuola iniziatica” alla vita nomade e ai valori di una società pastorale7 (Lewis 1983). Anche nella cura degli animali quindi si riscontra una divisione su base sessuale dei compiti e delle competenze. Va soprattutto sottolineata l’estraneità del mondo femminile rispetto al cammello. Alle donne non è consentito mungere latte di cammella e addirittura è proibito loro berne almeno per sette giorni durante il periodo del loro ciclo mestruale (Chailley 1980: 45).
I cammelli sono, per così dire, l’unità di misura in base alla quale si regolano quasi tutti gli aspetti della vita sociale e religiosa degli Afar (Lewis 1983: 111). In cammelli viene calcolata la ricchezza della sposa e del sangue, oltre che il valore di una vita umana. Essi non vengono cavalcati e sono utilizzati, soprattutto, per il trasporto delle capanne durante gli spostamenti stagionali in cerca di nuovi pascoli.
I cammelli allevati sono soprattutto femmine da latte, mentre i maschi sono soggetti a selezione. Alcuni sono addestrati per il trasporto, altri sono separati per fini riproduttivi e altri ancora vengono castrati e ingrassati per essere sacrificati in occasione di feste e rituali religiosi (Lewis 1983: 96). I cammelli, così come gli altri animali allevati dagli Afar, possono essere anche merce di scambio con altri prodotti o denaro, ma non possono essere venduti all’interno di un singolo gruppo. Ogni mandria di cammelli appartiene al capo famiglia, ma un uomo, se vuole, può regalarne uno al proprio figlio al momento della nascita (Chailley 1980: 41). Di solito si segue la stessa procedura usata per la costituzione della base del primo gregge di capre (o pecore) del nuovo nato. Ogni gregge di capre appartenente ad un individuo, in pratica viene costituito in questo modo: alla nascita di ogni bambino, i due genitori gli regalano una capra ciascuno, una di sesso femminile e l’altra di sesso maschile.
A quella donata dalla madre, viene attaccato un pezzo di cordone ombelicale del bambino, mentre quella donata dal padre è mostrata al nuovo nato e per questa ragione è detta “l’animale dell’occhio” (Chailley 1980: 40). A partire da questi primi due animali, gradualmente si formerà tutto il gregge, anche grazie ai capi di bestiame regalati dai vari membri della famiglia in occasione delle ricorrenze che scandiscono la crescita del ragazzo fino all’età adulta. La marginalità delle donne all’interno della società Afar dominata dagli uomini è rispecchiata fedelmente dalla suddivisione dei ruoli sia nell’ambito sociale sia, come vedremo, nell’ambito culturale.
NOTE
1 Il caso degli Afar viene descritto in un articolo di Aden M. Dilleyta compreso nel numero del giugno 1989 di Politique Africaine, pagg. 51-62.
2 È ciò che sostiene l’antropologo americano John Galaty in un articolo compreso nella rivista Politique Africaine (giugno 1989) intitolato: “Pastoralisme, sèdentarization et ètat en Afrique de l’Est.” (Pagg. 39-50). Vedi anche Salzman (1980: 14).
3 Anche le catastrofi climatiche sono spesso dovute agli effetti dello sfruttamento indiscriminato del territorio da parte delle tecnologie importate europee.
4 La durra o sorgo è una graminacea alta fino a tre metri, con foglie piatte e inflorescenza lunga e vellutata, che si coltiva come foraggio fresco e per i semi utili come becchime.
5 È un’osservazione che scaturisce da un’analisi comparata tra i modelli di ripartizione territoriale vigente tra i Somali e gli Afar che si basa sulle informazioni tratte da Chailley (1980) e Lewis (1955 e 1983).
6 Melville Herskovits: “The cattle complex in East Africa” in “American Anthropologist”, 28 (1926). Herskovits fu anche uno dei padri del “relativismo.”
7 Importanti sono gli studi a questo proposito di Lewis (1993) sulle forme di possessione zar sperimentate dai giovani cammellieri in Etiopia e in Somalia.