CAPITOLO III
Alla
ricerca dell’identità
III.1.) L’identità
etnica
Al giorno d’oggi
i termini di identità etnica e etnia (e quelli ad essi correlati),
sono entrati nell’uso quotidiano comune e nel linguaggio dei
mass-media. Tuttavia essi non si sono ancora liberati di quella
visione tradizionale distorta che ne fa dei concetti dotati di una
realtà oggettiva e immutabile. Secondo l’antropologo italiano Ugo
Fabietti (1995) questa visione scaturisce dall’abitudine a pensare
all’umanità e alle culture umane come frammentate e segmentate che
rimanda ad un’immagine del mondo come diviso in popoli, “etnie”,
“tribù” isolati e incomunicanti tra di loro. Seguendo le analisi
condotte da Ugo Fabietti stesso, da Francesco Remotti, dal francese
Jean-Loup Amselle e altri, si può giungere meglio a comprendere
quanto sia dannoso mantenere una simile prospettiva “discontinuista”
nella società di oggi e in un mondo che va sempre più
globalizzandosi stabilendo nessi e connessioni sempre più fitte tra
le sue varie parti. Nel tentativo di uscire da questa logica distorta
e dal vicolo cieco in cui sembra condurci il “discorso
identitario”, questi autori propongono un punto di vista più
complesso e globale. I concetti di identità etnica e di etnia
vengono sottoposti ad una critica epistemologica, decostruiti e
ricondotti nell’ambito dei fenomeni culturali e delle costruzioni
simboliche. Il sentimento di appartenenza ad un determinato “gruppo
etnico” non appare più dotato di una realtà oggettiva, ma ci
viene proposto come il prodotto di specifiche circostanze storiche,
sociali e politiche (Fabietti 1995: 18). Per definire l’identità
etnica non è più sufficiente appartenere alla stessa “razza” e
avere comportamenti comuni o parlare la stessa lingua. L’identità
etnica, come dice Fabietti (1995: 12):
“…è
una definizione del sé e/o dell’altro collettivi che hanno origine
quasi sempre in rapporti di forza tra gruppi che sono in competizione
per l’accesso a determinati interessi e risorse”.
Da questa definizione
parte la nostra ricerca riguardo la costruzione dell’identità del
popolo Afar.
III.2.) La maschera
dell’identità
Quali sono gli
elementi che, ancora oggi, sono ritenuti basilari per determinare il
senso d’identità degli Afar, difeso dai “guerrieri” da una
parte e dai cosiddetti “intellettuali afar” dall’altra”?
Che cosa determina il
sentimento di appartenenza di questa popolazione ad una stessa
tradizione che in molti casi si rivela essere una “finzione” e
una “costruzione”?
E in che modo e quanto
l’apporto esterno influisce sul processo di identificazione di
questo popolo?
Sono alcune
delle domande che permettono di introdurre un discorso di
destrutturazione del soggetto etnico e che, allo stesso tempo,
portano al riconoscimento di quelle affinità oggettive che un gruppo
di individui seleziona o immagina, con lo scopo di affermare
fortemente la propria identità e la propria appartenenza ad uno
stesso gruppo. Occorre partire dal presupposto che le identità si
producono attraverso dinamiche interattive e quindi all’interno di
un contesto e una situazione ben precise. L’identità etnica
infatti, non è un oggetto statico, immutabile, ma anzi essa è
sottoposta ad un continuo processo di riformulazione (Fabietti 1995).
Qualunque “etnia” o società deve essere analizzata come parte di
una rete più vasta di relazioni, dalla quale una certa “etnia”
emerge per contrasto e in opposizione ad altre. Il caso degli Afar,
ad esempio, ci mostra come essi siano stati da sempre al centro di
flussi migratori e di commerci internazionali di vasta portata e
quindi al centro di una grande quantità di influssi di vario genere,
per cui il modello sociale è il risultato di precedenti
sovrapposizioni. Il sentimento di appartenenza ad uno stesso gruppo
allora, può nascere soltanto concependo un “noi” contrapposto ad
un “loro” e quindi da una valorizzazione di una “autenticità”
intesa come autoriconoscimento (Fabietti 1995). E affinché questa
“autenticità originaria” (immaginata) conduca ad una certa
stabilità dell’identità in questione (sottraendola al flusso di
mutamento continuo in cui le società o “etnie” sono immerse),
occorre in certo qual modo, rimuovere il contesto e la storia in
funzione di quelle che sono le problematiche legate al presente. Si
tratta, in pratica, di definire in maniera precisa tutta una serie di
tratti oggettivi ritenuti caratteristici, immutabili e individuanti
un determinato gruppo (Fabietti 1995). Questi elementi sono la
lingua, il tipo di organizzazione sociale, il nome, il territorio
abitato, gli “usi e i costumi”, la religione (intesa come
l’insieme dei referenti simbolici operanti), la vita materiale.
Tutti insieme vanno a costituire la coscienza che individui sociali
hanno di far parte di uno stesso gruppo.
Ma alla costruzione di un’identità concorrono, anzi spesso partecipano in modo condizionante, anche delle sollecitazioni che giungono
dall’esterno. Sempre seguendo le analisi di Amselle e Fabietti
infatti, possiamo vedere come l’identità etnica si costituisca per
mezzo di un processo dinamico di interazione fra una produzione
identitaria interna al gruppo in questione e un’elaborazione
esterna che dipende dalla percezione dello sguardo altro, in un
contesto in cui è in opera uno squilibrio nei rapporti di forza. Il
potere politico o la “cultura” dominanti in un certo ambito,
hanno la forza necessaria per esercitare una pressione esterna su
società che sul piano politico e militare sono meno strutturate e
che non hanno la stessa forma accentrata. Questa pressione esterna
consiste nella capacità di tramandare una certa immagine degli
altri, ad esempio assegnando loro un nome, oppure attribuendo ad essi
arbitrariamente delle caratteristiche distintive come mezzo di
definizione sociale e di classificazione (Amselle 1985; Fabietti
1995).
Un esempio di
come questa dinamica di produzione “interna-esterna”
dell’identità possa essere all’origine di una “etnia”, è il
caso degli Shahsevan citato da Fabietti (1995: 45), un popolo di
pastori nomadi che abitano nell’Azerbaigian iraniano. L’identità
odierna degli Shahsevan, infatti, non è altro che il risultato dei
rapporti contrastivi con lo Stato persiano e con altri gruppi. Questa
rete di contatti ha provocato, nel corso del tempo, dei cambiamenti
importanti nella produzione identitaria di questa popolazione,
fin’anche al cambiamento del nome (Fabietti
1995: 45). Questo esempio dimostra che l’identità etnica non è
immutabile e statica ma è il prodotto di una rete flessibile di
relazioni tra elementi che interagiscono tra loro (Fabietti 1995:
48). Per poter parlare d’identità etniche occorre mettersi in una
prospettiva più complessa, quella che Amselle chiama “logica
meticcia”, al fine di comprendere i mutamenti e le interazioni che
intervengono nella produzione di un’identità
(Fabietti 1995: 48). Uno dei fattori che ha maggiormente contribuito
all’“etnicizzazione” del mondo e alla creazione di un’immagine
discontinua delle società umane è stato senza dubbio il
colonialismo. Le responsabilità delle nazioni europee sono precise e
le conseguenze del loro dominio, specie in Africa e in Asia, ancora
oggi sono riscontrabili nei numerosi “conflitti etnici” che si
verificano di continuo in entrambi i continenti1.
Come dice Amselle (1985: 37) con il colonialismo, il concetto di
“ethnos” inteso come realtà sociale stabile e ben definita,
culturalmente omogenea e immutabile si enfatizza. Nel periodo
precoloniale esistevano soltanto delle unità sociali a carattere
politico, ineguali e di composizione eterogenea.
La territorializzazione effettuata dal colonialismo ha provocato
l’etnicizzazione dell’Africa e una visione discontinua della
realtà sociale africana, propagata poi, per molti anni, da gran
parte dell’antropologia e dell’etnologia, che hanno fortemente
contribuito a creare un’immagine di questo continente come diviso
in popoli, “etnie”, “tribù” e “clan” (così in Amselle
1985 e in Fabietti 1995: 41).
Occorre dire,
però, che questa “etnicizzazione” una volta imposta
dall’esterno, è anche favorita dai gruppi stessi, che utilizzano
il diritto alla propria identità etnica come mezzo di rivendicazione
per l’accesso a determinate risorse materiali ma anche simboliche2.
Questo doppio processo, esterno ed interno, di produzione
dell’identità scaturisce da un ben determinato contesto sociale,
politico e storico e le identità così costruite finiscono con
l’assumere una concretezza e una consistenza reali per chi vi si
riconosce (Fabietti 1995). L’unità che un popolo si attribuisce è
quindi di natura ideologica anche se l’identità che lo definisce è
assunta come un dogma (Amselle 1985). È di fondamentale importanza
perciò, rimarcare il carattere di “finzione” dell’identità
etnica e allo stesso tempo quello di “invenzione” e di
“costruzione” cui concorrono, oltre ai lavori di antropologi ed
etnologi, anche i gruppi stessi e un potere politico che sia in grado
di esercitare un dominio su una certa zona.
Si deve sottolineare
però, che l’identità, pur se “invenzione” e “finzione”,
nasconde dietro la sua facciata, un sentimento reale di appartenenza
ad una “cultura” e ad una tradizione, basato sul riconoscimento
di quei simboli che costituiscono le fondamenta dell’unità di un
popolo (Fabietti 1995; Amselle 1985). Tra di essi, il nome che un
gruppo si attribuisce è la condizione principale e necessaria della
sua esistenza storica e sociale.
III.3.) Lo stratagemma del nome
Quello del nome, è
uno degli elementi più importanti per la definizione e il
riconoscimento dell’appartenenza ad una stessa popolazione e
rappresenta uno dei simboli dell’unità e identità di un gruppo di
individui. Ma spesso, i nomi con i quali sono conosciuti dei popoli,
derivano da un’imposizione esterna da parte di un gruppo dominante
che, in un contesto regolato da rapporti di forza, esercita il
proprio potere di tramandare una certa visione degli altri,
assegnando in maniera del tutto arbitraria dei tratti distintivi in
grado di determinare in maniera definitiva un certo gruppo, con lo
scopo di dequalificarlo razzialmente o di inquadrarlo e controllarlo
all’interno di un’entità nuova (Amselle 1985; Fabietti 1995).
La questione
dell’imposizione del nome ha origini molto lontane e nell’antichità
molti dei nomi dei popoli stavano ad indicare degli status sociali.
Fabietti (1995: 38) cita gli esempi di Slavo-sclavus; Bedu, termine
arabo imposto dagli abitanti delle città ai nomadi del deserto
(beduini) per distinguerli da loro. Assegnarsi un nome o imporne uno
ad un popolo era, ed è ancora oggi, un modo di distinguere se stessi
da gruppi di individui che sono vicini territorialmente o con i quali
si viene a contatto e, nello stesso tempo, di affermare la propria
superiorità sugli altri. In questo contesto, inoltre, è da
sottolineare che sono quasi sempre i popoli in possesso di una
cultura scritta ad avere la capacità di imporre dei nomi e di
tramandarli conservandone la memoria (Fabietti 1995: 39).
Come sostiene
Fabietti, questa è una dinamica per la quale una formazione statale
centralizzata, in possesso di una tradizione scritta, è nella
condizione di imporre il proprio dominio e i propri modelli culturali
su formazioni meno gerarchizzate e in possesso di una tradizione
orale. Con la scrittura, coloro che hanno il potere di costruire
“etnie” e “culture” hanno la capacità di tramandarne la
memoria nel corso del tempo contribuendo a mantenere viva la loro
presenza, ma allo stesso tempo di cancellarne le tracce (Fabietti
1995: 39). Durante il periodo coloniale nella realtà complessa
africana, si è verificato spesso che certi etnonimi fossero delle
creazioni del tutto nuove, senza alcun riferimento con unità sociali
preesistenti.
È il caso dei
Bété della Costa d’Avorio (esempio citato da Jean-Loup Amselle
1985: 35). Il termine africano “Bété”, tradotto in francese
significa “pardon” e rimanda alla sottomissione delle popolazioni
che abitavano nei territori posti sotto il dominio coloniale della
Francia. Questo nome è stato applicato ad una
porzione di territorio ritagliata in maniera arbitraria
dall’amministrazione francese da un continuum culturale più vasto
(Amselle 1985: 35). Queste situazioni, come dice Amselle (1985:
38-39) si sono verificate soprattutto quando le potenze europee, al
fine di esercitare un più stretto controllo sui propri domini, hanno
provveduto a raggruppare le varie popolazioni, sia utilizzando certi
etnonimi già esistenti ma adattandoli a contesti nuovi (come nel
caso dei Bambara), oppure trasformando unità politiche preesistenti
in “etnie pure” (caso dei Mandenka-Malinké), sia creando nuove
unità sociali sulla base di criteri assolutamente arbitrari,
assegnando
loro un determinato spazio all’interno dell’amministrazione coloniale e
imponendo nuovi nomi per identificarle (è il caso citato sopra dei
Bété della Costa d’Avorio; Amselle 1985: 35).
Queste nuove
denominazioni e identificazioni etniche hanno finito poi, con
l’essere assunte dagli agenti sociali stessi che, con il tempo, ne
hanno fatto un mezzo ideologico di rivendicazione del diritto alla
propria autodeterminazione per resistere alle pressioni esterne, in
un contesto concorrenziale di lotta per accedere alle varie risorse
in gioco (Amselle 1985: 39).
Tutto questo è
importante premessa per il caso specifico degli Afar. Vedremo in
effetti nel corso di questo capitolo come, all’interno della
situazione multietnica etiope-eritrea e in un contesto imperniato su
contrasti e rapporti di forza tra le varie popolazioni, si è
verificato su vari fronti, questo processo di imposizione del nome e
di assegnazione di attributi qualificanti “l’etnia”, frutto di
elaborazioni culturali esterne e che, ancora oggi, fa si che essi
siano denominati e percepiti in
maniere differenti dalle varie popolazioni con cui vengono in contatto e dalle amministrazioni
governative.
III.4.) Il nome Afar
o Danakil?
L’insieme della popolazione che stiamo esaminando si
autodenomina con il nome Afar. Secondo quanto riportato nel testo
dell’antropologo francese Didier Morin (1991: 13), questo termine è
conosciuto in occidente solo a partire dal XIX secolo, quando viene
utilizzato da Léo Reinisch nel libro “Die Afar Sprache” del 1885
ed è entrato nell’uso comune solo negli ultimi decenni. Sempre
secondo Morin (1991), da cui traiamo le note che seguono,
l’acquisizione di questo nome da parte del popolo Afar sarebbe una
diretta conseguenza degli antichi movimenti migratori semitici verso
la costa orientale africana. Il termine Afar infatti, rimandarebbe
a quello del gruppo geografico Afar, nella parte
meridionale dell’Oman nell’Arabia del sud (Morin 1991: 13).
Nei testi di
Franchetti (1930: 226) e di Pollera (1935: 248-249) invece, viene
riportato un racconto tradizionale sulle origini degli Afar che gli
autori sostengono essere di origine abissina, senza citare però, né
la fonte di provenienza, né la datazione. Secondo questa tradizione
il nome Afar deriverebbe dalla corruzione fonetica del nome biblico
Ophir, poiché gli abissini fanno discendere le famiglie sud-arabiche
immigrate sulla costa africana, da quelle bibliche e di origine
semitica di Ophir e di Hebàl (Genesi, X, 21-29). Cito a questo
proposito un passo riportato da Franchetti nel suo testo (1930: 226):
“La
tradizione abissina precisa poi che le famiglie immigrate ivi (ossia
in Dancalia), appartenevano
alla discendenza di Ophir e di Hebàl figlio di Iectàn e quindi
discendenti di Sem, una parte dei quali salì sugli altopiani
etiopici unendosi ai discendenti di Saba loro consanguinei, mentre
un’altra parte si soffermò a popolare le zone costiere; gli Ophir
sul litorale a Nord del Golfo di Tagiura, gli Hebàl sul litorale a
Sud del golfo stesso.”
Sempre seguendo
quanto narrato nel “racconto mitico”, queste due famiglie dopo
essersi stabilite a nord e a sud del Golfo di Tagiura (nell’attuale
Repubblica di Gibuti) sarebbero entrate in contatto con le
popolazioni autoctone, mescolandosi ad esse (Franchetti 1930: 226;
Pollera 1935: 248). Tuttavia in occidente gli Afar per molto tempo
sono stati conosciuti soprattutto con il nome Danakil (Dancali in
italiano), termine normalmente usato dagli Arabi per designare questa
popolazione. Secondo quanto riportato già da Lewis (1955: 155) e
confermato da Morin (1991: 14), il nome Danakil è apparso per la
prima volta nel XIII secolo negli scritti (datati 1214-74) del
geografo arabo Ibn Said. Si tratta del plurale arabo dell’afar
Dankali, nome con il quale si identificava una tribù
abitante nell’entroterra di Assab, che era in contatto con i commercianti dell’Arabia del sud che frequentavano le coste
africane del Mar Rosso3.
Sono stati gli italiani tuttavia (a partire dal periodo coloniale) a
diffondere l’uso comune del nome dancali e del termine Dancalia,
che deriva da esso e che designa la terra abitata dai Dancali (Morin
1991). In Italia il nome dancali è tuttora molto usato per designare
gli Afar. Anche in Francia il nome Danakil è stato in uso, almeno
fino al 1967, quando, la “Costa francese dei Somali” è stata
trasformata nel “Territorio francese degli Afar e degli Issa”, e
il termine Afar è subentrato a quello di Danakil nell’uso comune
(Morin 1991). Sempre Morin (1991: 14) riporta altri nominativi con i
quali vengono designati gli Afar.
Gli etiopi
cristiano-copti ad esempio, li chiamano “Adal”, termine amarico
che ha fatto la sua prima comparsa nella cronaca che narra le guerre
del Negus Amda Siyon (1314-1344) contro i musulmani dello stato di
Awfat e che si basa sul nome di Ada Al, antenato ancestrale dei
gruppi che fondarono i sultanati del sud del paese Afar con i quali
l’Etiopia cristiana ebbe relazioni bellicose per molti secoli4.
Questo termine, è tuttora usato dall’amministrazione etiope per
designare gli Afar del sud dell’Etiopia, mentre per gli Afar di
Eritrea e del Tigré viene usato il nome Danakil (osservazione fatta
da Morin 1991: 14). I tigrini a loro volta, li chiamano “Taltàl”
che significa “gente dai capelli irti” per via della folta e
riccioluta capigliatura propria degli Afar. Infine i Somali
(popolazione affine sotto molti punti di vista agli Afar ma quasi
sempre ad essi ostile) per designarli usano il termine “Oda Ali”,
che ha un’etimologia popolare derivante da “Oday Ali” “vecchio
Ali” o meglio “la gente nata dal vecchio Ali” (Morin 1991: 14).
Queste
differenze nella denominazione del popolo Afar quindi, rispecchiano e
permettono in certo modo di riconoscere, quelli che sono stati (e che
in parte sono tuttora) i rapporti contrastivi e di dominazione
vigenti nell’ambito delle relazioni che gli Afar hanno
intrattenuto, nel corso della loro storia, con le amministrazioni
statali, con quelle coloniali e con i popoli vicini. Il nome usato
dagli Afar per autodenominarsi è stato per lo
più ignorato e sostituito con altri termini dalle popolazioni e dalle
amministrazioni con le quali essi sono venuti in contatto nel corso
dei secoli, con lo scopo politico di dequalificare razzialmente
l’identità Afar e per poter controllare meglio le varie frazioni
di questa popolazione, in un contesto che li vede contrapposti nella
gestione e lotta per le risorse.
La rivendicazione di
un nome proprio, da parte di un gruppo di individui, infatti, è una
sorta di simbolo che serve da segno di riconoscimento, tra gli altri,
della propria unità sotto una stessa comunità immaginaria di sangue
e di “razza” (vedi Amselle 1985). Quindi il potere di assegnare
un certo nome ad un determinato nucleo sociale, è un privare della
libertà di autoidentificarsi e di autodenominarsi e perciò è un
modo di dequalificare e declassare un simbolo di quell’unità
necessaria per affrontare le varie situazioni politiche che si
presentano ad una popolazione. Il rapporto di dominio così, risulta
decisivo per tramandare una certa visione degli altri che in ultimo
risponde sempre a delle intenzioni politiche ben precise.
III.5.) L’etichetta del “tribalismo”
Il potere
d’imporre un nome, o altri tratti significanti per
l’identificazione di un gruppo, si esplica anche nel caso di quei
movimenti “etnici” di ribellione che lottano per la
rivendicazione di certi diritti socio-politico ed economici e che
vengono etichettati dai governi centrali come “regionalisti” o
“tribalisti”, con l’intento di delegittimarne la portata e il
significato. Amselle (1985: 40) giustamente osserva che nella realtà
africana l’aggettivizzazione di un movimento sociale, anche armato,
come “tribalista” o “regionalista”, serve sempre a mascherare
dei conflitti di tipo politico-economico. Queste rivolte di carattere
locale che hanno per scopo principale la rivendicazione di certi
diritti “etnici” sono, molto spesso, fonte di strumentalizzazioni
da parte delle forme di potere dominanti che, classificandole come
“tribaliste”, le screditano agli occhi di osservatori esterni e
allo stesso tempo le inseriscono in una posizione marginale
all’interno della propria struttura politica. In Africa
l’uso dequalificante dell’etichetta del “tribalismo” da
parte dei governi, consiste nella sua assimilazione alla permanenza,
in gran parte delle società africane, di una “mentalità
tradizionalista” che impedisce l’emancipazione dal sottosviluppo
(Amselle 1985: 52). Negli anni sessanta e settanta nel continente
africano, con la fine del colonialismo europeo, si è cominciato a
sviluppare un certo discorso incentrato sulla promozione delle
pratiche economiche necessarie per l’integrazione dei paesi
africani nel circuito del mercato mondiale (Amselle 1985: 52). In
questo contesto la società
modernizzante sull’onda del modello occidentale, è stata
contrapposta a quella tradizionalista e il sottosviluppo è stato
associato al permanere, nelle varie società africane, di una
“mentalità arcaica” legata al rispetto delle pratiche
tradizionali e che impedisce qualsiasi tipo di innovazione (Amselle
1985: 52). In questo senso, la “società tradizionale” diviene
l’ostacolo principale da rimuovere sulla via che conduce al
progresso e il “tribalismo”, che ne è la manifestazione più
evidente, la maschera degradante con cui celare contrasti d’interesse
politico-economico. In realtà, come dice Amselle (1985: 39)
quest’opera di dequalificazione è, non di rado, un forte indice di
debolezza da parte del potere governativo, perché serve a nascondere
la mancanza di uno stretto controllo su larghi strati di popolazione.
È il caso dei
governi di Etiopia, Eritrea e Gibuti che hanno mascherato l’assoluta
mancanza di controllo sulle popolazioni nomadi degli Afar,
cercando di delegittimare le loro pretese di autonomia, inquadrandole nell’ambito delle rivendicazioni regionaliste di
movimenti tribali. Contemporaneamente essi hanno cercato di
dequalificare i movimenti di rivolta dei vari gruppi ribelli Afar
definendoli come banditi capaci solo di compiere razzie e di minare
le basi dei governi centrali con attentati terroristici lungo tutto
il territorio (in proposito vedi Dilleyta 1989: 51).
In effetti, nella
seconda metà del XX secolo gli Afar si sono ribellati sia alla
politica dello stato etiope, sia a quella della Repubblica di Gibuti,
volte entrambe a sedentarizzarli e a trasformare le zone più fertili
e ricche di vegetazione del loro territorio in distretti agricoli.
Per meglio
coordinare la loro resistenza, gli Afar hanno costituito una serie di
movimenti armati che rivendicano in maniera violenta la precisa
volontà di non permettere il dissolvimento della loro società, già
in atto per altro, a causa del flusso sempre maggiore di immigrati
verso le città. Questo tipo di rivolta fatta di continui raid e
attentati nei confronti di obiettivi economico-sociali e dei simboli
del potere
governativo, è stata sempre stigmatizzata dalle varie amministrazioni di
Etiopia, Eritrea e Gibuti, che l’hanno etichettata come
“tribalista” o “regionalista” (vista anche la richiesta di
costituzione di una autonoma regione Afar) al fine di dequalificarne
la reale portata sociale negandogli ogni legittimità.
Contemporaneamente però, si è cercato di portare l’elemento Afar
sotto il controllo dei governi centrali. Negli ultimi decenni
l’intera popolazione Afar è stata sottoposta ad una forte
pressione da parte delle autorità governative che ha spinto molti
individui a migrare verso le città. Nella Repubblica di Gibuti, dopo
tre anni di conflitto (1991-1994) sono state assecondate le mire
politiche dei gruppi di ribellione armata Afar, permettendo loro di
partecipare con una propria rappresentanza al governo5.
In Etiopia, invece, gli Afar sono tenuti fuori dalla vita politica
ma, negli ultimi anni, si è presa in considerazione la possibilità
di creare una regione autonoma per loro che funga da raccordo con il
fondamentale sbocco sul mare di Assab e che permetta un maggiore
controllo su di essi all’interno dell’entità statale. Nella
situazione attuale, la creazione di una regione indipendente
potrebbe, come abbiamo detto, rappresentare l’unica possibilità di
salvezza per gli Afar nell’imminenza di una loro scomparsa come
entità sociale e culturale. Nel frattempo gli Afar, di fronte al
disorientamento provocato dal lento e progressivo dissolvimento della
loro società, tentano di reagire all’assimilazione forzata
ripiegando sui tratti simbolici più caratteristici della propria
identità, cercando di preservarli nonostante l’irruzione di
modelli culturali occidentali.
III.6.) L’identità Afar
Abbiamo visto,
seguendo i modelli proposti da Amselle e Fabietti, come la
costruzione dell’identità etnica si avvalga di un doppio processo
(interno ed esterno) di produzione e assunzione
di determinate caratteristiche simbolico-culturali che sono basilari per il
riconoscimento dell’appartenenza, da parte di un gruppo di
individui, ad una comune unità sociale. Partendo dalla questione
della denominazione di un popolo, abbiamo analizzato come il problema
del nome non consiste solo in un fatto di scelta autonoma, ma
riguarda da vicino quelli che sono gli influssi esterni che derivano
da rapporti di forza e di dominazione operanti in un contesto
conflittuale e che agiscono sulla definizione e percezione di una
certa identità. Continuiamo ora ad individuare e ad esaminare gli
altri elementi che costituiscono l’identità Afar, sottolineando
ancora come tutti i tratti simbolico-culturali siano rivelatori dei
legami e dei contatti stabiliti con differenti società nel corso dei
millenni. I segni che definiscono l’identità Afar sono
riconoscibili nel nome, come abbiamo già visto, nella lingua, nella
memoria, la “storia delle origini”, nel territorio occupato,
nella struttura sociale interna e nella tipologia della suddivisione
in “tribù”, “clan” e “lignaggi”, nel modo di vita
quotidiano e nel modello religioso. La condivisione di tutte queste
caratteristiche è la causa e la base sociale dell’esistenza del
popolo Afar e della sua differenziazione da altri gruppi.
Iniziamo dalla situazione linguistica traendo informazioni
principalmente dal testo di Didier Morin (1991) che fornisce
un’analisi abbastanza precisa del linguaggio parlato dagli Afar.
Premetto che non essendo un linguista non sono in possesso delle
competenze necessarie per compiere una trattazione che sia
sufficientemente approfondita. L’unità linguistica Afar è data
dal comune uso di una lingua “etnica, regionale”. Si tratta di
una lingua parlata e non scritta che viene classificata nel gruppo
basso-cuscitico sud orientale insieme a quella di Somali, Oromo,
Arbore e Saho (Morin 1991: 3). Con la lingua dei Saho, l’Afar ha
una stretta vicinanza strutturale, sia da un punto di vista
sintattico che lessicale, mentre differisce in maniera sostanziale da
quella degli altri gruppi. Sulla formazione ed evoluzione della
lingua degli Afar hanno influito numerosi apporti esterni che hanno
provocato una qualche differenziazione linguistica tra i vari
segmenti della popolazione.
Ciò è principalmente
dovuto ai molteplici spostamenti di gruppi che, nel corso dei secoli,
sono migrati alla ricerca di zone migliori o si sono dovuti spostare
in seguito alla pressione esercitata da popolazioni più potenti e
che li ha portati ad avere contatti e intrattenere rapporti con varie
entità sociali. Gli influssi linguistici sulla lingua Afar risultano
a volte inattesi, come nel caso di alcune somiglianze con la lingua
somala riscontrate nel dialetto parlato nella penisola di Bori,
dovute alla presenza in questa zona, di individui somalofoni
naufragati, in passato, sulle coste della penisola e con il tempo
afarizzati (Morin 1991). In generale comunque, l’Afar risulta
suddiviso in due dialetti principali: uno parlato nei territori del
nord della Dancalia e l’altro nel sud, separati da una immaginaria
linea perpendicolare alla costa che, partendo da Baylul, separa
linguisticamente a metà il territorio Afar (vedi cartina in
appendice 1). La parlata degli Afar del nord mostra in molti casi più
somiglianze con la lingua dei Saho (confine di Nord-Est) che non con
quella degli Afar del sud e nonostante ci sia intercomprensione tra i
due dialetti, gli apporti e influssi esterni appaiono piuttosto
complessi e in gran parte ancora da studiare.
Ma anche le
migrazioni interne tra la popolazione Afar stessa hanno apportato
modifiche, scambi e influenze da un punto di vista linguistico tra le
varie aree della regione. Lo testimonia ad esempio, la maggiore
somiglianza del dialetto della penisola di Bori con quello parlato
nella zona del Golfo di Tagiura, che non con quello della zona
costiera di TiCò
geograficamente più vicina (Morin 1991: 4).
Questa vicinanza
linguistica si è avuta in seguito allo spostamento del gruppo Afar
degli Ankala che, abbandonata la zona di Tagiura, sono migrati a nord
fermandosi nella penisola di Bori e influenzandone la parlata. Questi
influssi linguistici (culturali in generale) esercitati da gruppi
migranti in territori abitati da altri, sono da inscrivere anch’essi
in un contesto di rapporti di forza tra le varie popolazioni e quindi
nella capacità di instaurare e mantenere un certo dominio nella zona
occupata. La migrazione massiccia verso le città degli ultimi
decenni provocata dal succedersi di vari elementi tra cui il lungo
conflitto per l’indipendenza eritrea, le frequenti carestie e la
forte pressione delle popolazioni confinanti, ha portato al
depopolamento di ampie zone desertiche dell’interno ma anche di
vasti tratti della costa. Le città che accolgono maggiormente il
flusso degli immigrati Afar sono Bate, Gibuti e Massawa (è quanto
riferisce Morin 1991: 3). Dobbiamo notare che in queste città i
linguaggi parlati sono vari e diversi tra loro e per questo motivo
gli Afar potranno avere problemi “linguistici”. L’afflusso
ormai costante di individui parlanti la lingua Afar in queste città
e il depopolamento di larghi tratti del territorio dancalo, potranno
inoltre, produrre modifiche sull’organizzazione
dialettale-linguistica. Tuttavia come ho già detto precedentemente,
noi non abbiamo la competenza per proseguire in questa direzione. Ciò
che possiamo sostenere è che la lingua, così come abbiamo già
detto riguardo il nome, richiede un complesso discorso che mostra,
dietro la facciata della sua unità originaria, un
contesto fortemente sincretico di formazione e di continua riformulazione del
segno in questione.
Il vincolo della
lingua non è il solo modulo identificante.
Importante è
anche il sistema di organizzazione “riproduttiva” del gruppo.
Tutti gli studi a mia disposizione presentano la società Afar
suddivisa in “tribù”, “clan” e “lignaggi” con un
particolare accento posto sui sistemi di parentela che rimangono di
fondamentale importanza per stabilire l’appartenenza e
l’affiliazione politico-sociale degli individui e dei gruppi. Dal
punto di vista della struttura politico-sociale, gli Afar sono una
società segmentata e non riconoscono alcun
potere o governo centralizzato e mantengono un forte grado d’indipendenza e
individualismo (Lewis 1955).
I vari gruppi
sociali in cui si dividono gli Afar, reclamano, ognuno, una
derivazione per discendenza patrilineare da un antenato comune e si
riconoscono con nomi che spesso sono dei “gridi” di guerra.6
È ciò che sostiene
Morin (1991: 117 - nota 9):
“…le
groupe social, kedò en afar du sud, kidò en afar du nord se
réclamant par patrilinéarité d’un ancetre commun et caractérisé
par un nom qui est aussi souvent son cri de guerre (itrò)7”.
E
ancora (1991: 46): “Le
nom de la fraction ainée des Galcela,
casurré,
a fourni son cri de guerre (itrò) à la tribu8”.
Tuttavia Morin (1991:
47) ritiene che queste genealogie riconosciute dai vari gruppi Afar e
tramandate nelle loro tradizioni orali, rappresentano forme
estremamente semplificate di un’evoluzione e di una stratificazione
sociale molto più complessa e flessibile.
Nel corso della
loro storia, alcuni gruppi Afar si sono organizzati, rinunciando a
rivendicazioni di specifiche identità genealogiche, in domini
territoriali riuniti sotto il comando di un sultanato. Nonostante
l’esistenza di queste suddivisioni l’insieme della popolazione
Afar nel rivendicare i “suoi” diritti, agisce come un’unità
culturale. Tuttavia è importante specificare che i concetti di
“tribù”, “clan” e “lignaggio”, così come quelli di
“etnia” e persino “cultura”, sono dei concetti in crisi che
rivelano la loro natura etnocentrica, fittizia e ideologica (vedi
Amselle 1985 e Fabietti 1995). L’ambiguità dell’uso di termini
come questi, nel nostro caso, sta nel fatto che essi rimandano ad
un’immagine dell’Africa pre-coloniale stereotipata e immutabile,
come suddivisa in isolati incomunicanti e inalterati dal tempo e
dalla storia (Amselle 1985; Fabietti 1995). L’uso che è stato
fatto di queste nozioni ha portato a percepire la realtà sociale
africana come segmentata e frammentata e occorre quindi decostruirne
il contenuto per rilevarne il carattere fittizio. Per ricostruirla
dobbiamo tener conto di molti dati che la determinano e la
ostacolano. Prima di tutto la percezione dell’Africa “tribale”.
Questa percezione, lo abbiamo già detto, si basa in parte sulla
territorializzazione del continente africano operata dalle potenze
europee durante il periodo coloniale e sui numerosi resoconti
etnografici di etnologi, viaggiatori ed esploratori,
spesso al servizio delle amministrazioni coloniali stesse.
Essi hanno trasmesso una
realtà africana fatta da una miriade di “etnie”, per la maggior
parte costruite appositamente con lo scopo “politico” di evitare
l’eventualità di una loro unione contro il dominio coloniale
(Fabietti 1995: 31-32; Amselle 1985: 38). Tuttavia come sostiene
Fabietti (1995: 30)
la tribalizzazione dell’Africa va anche vista alla luce del
nazionalismo del XIX secolo, a seguito del quale la realtà africana
è stata interpretata sulla base dell’idea di nazione europea. Il
termine “tribù”, così come quello di “etnia”, rimanda ad un
idioma scelto per poter organizzare un discorso antropologico, al
fine di evidenziare un tipo d’organizzazione di società
strutturate in maniera differente dagli stati a potere centrale (su
questo punto vedi Fabietti 1995: 61).
III.7.) L’“idea
tribale Afar”
La società
degli Afar in tutti i vari gruppi si presenta organizzata sulla
opposizione di due “classi” principali: cAdohyammàra e
cAsahyammàra9,
conosciute anche come “Uomini Bianchi” e “Uomini Rossi”.
Questa notizia viene riportata da vari autori a partire da Dante
Odorizzi (1909: 30-33) e Franchetti (1930: 226) per giungere a Lewis
(1955: 155) e infine a Morin (1991: 36).
Tutti sembrano
basarsi su una realtà verificata sul campo. Iniziamo dall’ipotesi
fornita da Odorizzi. Secondo la sua teoria l’origine della
suddivisione tra cAsahyammàra
e cAdohyammàra
andrebbe fatta risalire all’antica migrazione araba sul territorio
etiope.
La distinzione
viene spiegata da Odorizzi in maniera piuttosto confusa e
approssimativa. Essa sarebbe riconducibile ad una differenziazione di
tipo razziale che riguarderebbe il colore della carnagione (torneremo
dopo su questo elemento). Il fatto più interessante su cui si
sofferma Odorizzi è l’analisi delle cause che avrebbero portato
secondo lui al costituirsi delle due classi sulla base di un rapporto
di dominazione degli cAsahyammàra
sugli cAdohyammàra.
Egli sostiene che gli cAsahyammàra
o uomini rossi, inizialmente erano dislocati sugli altopiani etiopi e
si sarebbero riversati nella depressione dancala, abitata dai gruppi
Afar cAdohyammàra
o uomini bianchi, soltanto durante le guerre religiose del XVI
secolo, dietro forte pressione dello stato abissino che tentava di
reagire al tentativo di conquista dell’Imamato di Adal. In seguito
a questa invasione del terrotorio dancalo essi avrebbero costituito
una sorta di “predominio di classe” sugli cAdohyammàra.
Citiamo un passo tratto dal testo di Odorizzi (1909: 33) in cui egli
ricostruisce gli eventi che avrebbero portato alla sovrapposizione
dei due gruppi e alla formazione del rapporto di dominazione:
“Gli
Assaimarà, tribù gia musulmane e già da lunga pezza scese
dall’altipiano e viventi sugli speroni orientali di esso fra i
bacini dell’Auasc’ e del Gualima, furono spinti innanzi dai
governatori etiopici e col loro appoggio dominarono in Dancalia dove
assunsero ben presto il linguaggio e gli istituti sociali degli
Adoimarà: in una parola, da gente etiopica di provenienza scioana,
si mutarono in una nobiltà dancala. Ciò avvenne nel secolo
decimosesto dopo la caduta dell’imamato di Adel o di Zeila detto da
alcuni Regno di Adel.”
E ancora (1909:
35): “Fu
per tale processo che gli uomini rossi assunsero dominio e direzione
sugli uomini bianchi non senza che continuassero a sussistere però
tanto al sud che al nord della Dancalia, grossi nuclei Adoiamara
ancora potenti e autonomi…”
Il rapporto di
dominio non sarebbe quindi assoluto, vista la presenza di gruppi
indipendenti cAdohyammàra
sparsi nel territorio dancalo. Anzi, secondo quanto dice Odorizzi con
il tempo avrebbe assunto soltanto una funzione rappresentativa:
“…La
funzione della nobiltà Assaimara fu ridotta ad una mera attività
rappresentativa presso l’Anfari (capo del Sultanato di Aussa)
dapprima, poi presso i governi sia dell’altipiano che della
costa…rimase tuttavia la distinzione fra Assaimara e Adoimara come
la designazione di una distinzione fra nobili e plebei ed anche oggi
il dirsi dei primi è argomento di orgoglio, il confessarsi dei
secondi è segno di origine non pura o ritenuta meno nobile…”
(Odorizzi 1909: 36).
Come abbiamo già
riferito in precedenza esistono anche delle tradizioni abissine
scritte sulle origini degli Afar e della loro divisione in “Bianchi”
e “Rossi”. Queste tradizioni sono state tramandate dagli Abissini
a partire dall’epoca medievale, ma la loro datazione e origine
restano oscure e non sono specificate in nessuna delle fonti a mia
disposizione. L’esploratore Raimondo Franchetti (1930: 226) riporta
una versione di questa tradizione abissina nella sua relazione di
viaggio. Non si tratta però di una trascrizione fedele ma di una sua
personale rielaborazione fatta sulla base della versione che si
presume fosse in suo possesso. Essa pertanto contiene dati tratti
dall’ignota tradizione di origine abissina e sue personali ipotesi
volte a chiarire le vicende che hanno portato alla suddivisione degli
Afar nelle due classi di cAdohyammàra
e cAsahyammàra.
Stando a quanto da lui riportato i “Rossi” costituirebbero una
sorta di nobiltà tra gli Afar, come già per Odorizzi. A conforto di
questa interpretazione egli sostiene che quando un capo di una
“tribù” cAdohyammàra
incontra un giovane cAsahyammàra,
deve inchinarsi e baciargli la mano in segno di reverenza e di
sottomissione (Franchetti 1930: 224).
Il racconto,
nella versione riportata da Franchetti, fa
derivare la suddivisione della società Afar nei due gruppi sopradetti
dall’immigrazione sulla costa africana del Mar Rosso, di famiglie
semitiche discendenti da quelle bibliche di Ophir ed Hebal, figli di
Iectan e quindi pronipoti di Sem (Genesi X, 21-29). Sempre secondo
questa tradizione, i gruppi discendenti dalle famiglie di Ophir e di
Hebal, si stabilirono rispettivamente nelle zone costiere a nord e a
sud del Golfo di Tagiura (nell’attuale Repubblica di Gibuti).
Sulla base di questo
fatto Franchetti (1930: 226) suggerisce l’ipotesi piuttosto
azzardata sull’origine del nome Afar facendolo derivare dalla
corruzione fonetica del termine Ophir.
Continuiamo ora ad
analizzare il racconto mito-storico citando un passo riportato da
Franchetti (1930: 227):
“…In
seguito, e cioè quando gli Afar si erano moltiplicati e avevano
occupata tutta la vasta zona del basso piano dancalo, le immigrazioni
dalla penisola arabica si rinnovarono a distanza di tempo e per
piccoli nuclei che rimasero assorbiti dalla massa maggiore e ne
accettarono i contenuti e la lingua ormai differenziatisi. Tutta
questa gente dovette essere in origine di carnagione bianca, come
bianca era la gente araba e quella dell’antico Egitto e come
bianchi si dicono ancora oggi gli arabi iemeniti, sebbene il colore
della loro carnagione non risponda più esattamente a quella
enunciazione; e perciò anche gli Afar discendenti dallo stesso
ceppo, sebbene divenuti di colorito scuro, vollero conservare la
tradizione di questa provenienza e della loro razza coll’appellarsi
Ado Iammara ossia uomini bianchi. I quali probabilmente trovarono già
in posto popolazioni di razza camitica che forse in un primo periodo
fu loro soggetta e colla quale dovettero fondersi quando furono a
loro volta soggiogati dagli Assa Iammara o uomini rossi…”.
Secondo quanto
detto in questa parte del testo, gli Afar cAdohyammàra
sarebbero derivati da una progressiva migrazione proveniente dal sud
dell’Arabia che si sarebbe andata ad aggiungere al nucleo iniziale
rappresentato dalla famiglia semitica di Ophir.
Per quanto riguarda
l’appellativo di “Uomini Bianchi” possiamo vedere che esso non
risponde ancora ad una differenziazione sociale precisa nei confronti
di altri gruppi. Esso è soltanto il segno di una connotazione
razziale legata al colore chiaro della carnagione dei primi
immigrati. L’appellativo sarebbe quindi volto a conservare nel nome
il ricordo di una provenienza originaria sud-arabica.
Passiamo ora a vedere
cosa riferisce il racconto mitico sui gruppi che discendevano dalla
famiglia di Hebal e che si erano stanziati a sud di Tagiura. Citiamo
ancora un passo tratto dalla nostra fonte di riferimento (Franchetti
1930: 227):
“Questo
gruppo o razza che si chiamò dal suo progenitore, degli Heblei
dovette subire le stesse vicende degli Afar stabilitisi più a nord;
ossia le immigrazioni di successive stirpi dalla opposta riva del
Golfo di Aden e dal Golfo Persico…Gli Heblei vennero perciò in
gran parte assorbiti da queste nuove immigrazioni ed i superstiti
costretti nei pressi di Tagiura e sulla destra del fiume Auàsc
dovettero necessariamente riversarsi in parte in quei territori che
in passato, di comune accordo, erano stati rilasciati ai discendenti
di Ophir. In tale periodo questa stirpe dell’Auàsc dovette venire
a contatto colle popolazioni abissine delle pendici dell’altipiano,
colle quali non dovette mancare qualche ragione di incrocio, in modo
da produrre fra Heblei ed Afar una qualche differenza e tale da
giustificare l’appellativo di Assa Iammara o uomini rossi
attribuito ai primi.”
Da questo passo
si evince che in seguito agli spostamenti migratori di alcune
popolazioni, i gruppi che discendevano dalla stirpe degli Heblei
sarebbero stati spinti verso nord nelle terre occupate dagli Afar
cAdohyammàra.
Nello stesso tempo gli Heblei che erano stanziati ad ovest del fiume
Awash cominciano a mescolarsi con le popolazioni abissine
dell’altopiano procurando una differenziazione razziale rispetto
agli Afar del nord. In base a quanto sostiene Franchetti, questo
mescolamento di razze comporterebbe una modifica del colore della
carnagione. Questo fatto giustificherebbe l’appellativo di
cAsahyammàra
o “uomini rossi” attribuito alla stirpe degli Heblei. Ritorna
anche qui perciò la componente razziale legata al colore della
carnagione come già per l’altro gruppo stanziato a nord di
Tagiura. Proseguendo ancora nell’analisi del racconto vediamo come
gli appellativi di cAsahyammàra
o “uomini rossi” e di cAdohyammàra
o “uomini bianchi” siano legati ad un modello di organizzazione
sociale specifico che riguarda anche il possesso del territorio.
Trascriviamo un altro passo riportato da Franchetti (1930: 232-233):
“…Ora
gli Afar che si chiamavano Ado Iammara, ossia uomini bianchi, non
potevano chiamare neri i loro fratelli discendenti di Hebàl, perché
tale appellativo li avrebbe confusi coi camitici che ambedue avevano
assoggettato e assorbito e perciò li chiamavano Assa Iammara, ossia
uomini rossi, rimanendo, in queste due enunciazioni, implicita la
testimonianza di una comune origine dalla quale questi due rami erano
derivati, giacchè, in caso contrario, sarebbe stato sufficiente
indicare ciascuna stirpe col nome derivato dal capostipite. Ciò
tuttavia, non potevano ammettere gli Afar, perché accettando nel
loro territorio gli Heblei col loro nome, questi avrebbero potuto in
seguito richiedere una ripartizione di terre che più loro non
spettava in forza della primitiva assegnazione, anche se per forza di
eventi gli Heblei avevano perduto la propria; e perciò imposero
verosimilmente come condizione, che essi si chiamassero Afar,
conservando la tradizione della separazione coll’appellativo di
rossi…”
Secondo quanto
riferito da Franchetti, furono dunque gli Afar
cAdohyammàra ad assegnare agli Heblei l’appellativo di
cAsahyammàra
o uomini rossi e ciò al fine di distinguerli sia dai camitici, sia
da se stessi per via delle differenziazioni razziali che si erano
verificate nel corso dei secoli. Da questo passo però, si può
ricavare anche un altro dato importante. In base a quanto riportato
nel testo, l’assegnazione di questo appellativo nasconderebbe anche
un contrasto riguardo la ripartizione delle terre. Infatti, gli Afar
cAdohyammàra
avrebbero imposto agli Heblei di assumere anch’essi il nome Afar,
mantenendo però la loro originaria separazione con l’appellativo
di “cAsahyammàra”,
al fine di evitare che essi potessero rivendicare una suddivisione
del territorio in base alle antiche assegnazioni, visto che avevano
perso la propria parte di terra.
In questo senso
sembrerebbe che la posizione dominante tra le due parti sia in un
primo momento rivestita dai “Bianchi” e si esplicherebbe nel
potere di assegnare un nome all’altro gruppo.
Il rapporto di
dominazione che si instaurerà tra gli Afar in seguito, facendo degli
cAsahyammàra
“rossi” la parte nobile dell’intera popolazione Afar
capovolgerà, secondo Franchetti, queste posizioni iniziali stabilite
dopo le prime migrazioni che hanno portato gli Heblei nei territori
appartenenti agli cAdohyammàra.
Seguiamo ancora quello che dice Franchetti (1930: 233):
“…Quando
poi il regno di Adal si avviò verso la sua maggiore potenza, in
virtù del fanatismo musulmano di cui gli Iman di Zeila si fecero
banditori per condurre guerra all’Impero Etiopico, ne derivò un
movimento generale di genti somale dal sud al nord, movimento che
spinse definitivamente nella stessa direzione anche gli Heblei, ossia
gli Assa Iammara, i quali per il prestigio delle armi vittoriose
degli Iman di Zeila, ai quali avevano dato origine, e dai quali
dipendevano, non solo occuparono il territorio dei loro antichi
fratelli Afar, ma ne divennero la nobiltà dominatrice…”
Secondo Franchetti quindi, l’evento che ha condotto
all’instaurazione del dominio degli cAsahyammàra
“Rossi” sugli cAdohyammàra
“Bianchi” fu la dirompente avanzata delle armate musulmane
guidate da Ahmad Gran, il “mancino”, nel corso delle guerre
religiose del XVI secolo che, come abbiamo già visto nel capitolo
precedente, portò il Regno di Adal (che comprendeva gli attuali
territori di Gibuti e Harar) ad una grande espansione verso nord con
la conquista di numerosi territori del regno cristiano etiope fino
all’intervento dei Portoghesi che ne fermò l’avanzata. Secondo
le ipotesi formulate da Franchetti sulla base del racconto
tradizionale abissino da lui riportato, la “nobiltà” degli Afar
cAsahyammàra
“Rossi” risalirebbe quindi al XVI secolo e deriverebbe dal
prestigio loro conferito dal fatto di essersi diffuse definitivamente
sul territorio occupato dagli cAdohyammàra
“Bianchi” in veste di conquistatori in seguito all’avanzata
vittoriosa degli eserciti musulmani guidati da Ahmad Gran. Vi è già
quindi una rilevante differenza rispetto l’ipotesi di
Odorizzi. Odorizzi infatti nel suo testo riferisce che gli
cAsahyammàra
si erano riversati sul territorio degli cAdohyammàra
a causa della spinta dei governanti dell’impero abissino e che ciò
sarebbe avvenuto dopo la caduta del Regno d’Adal. Entrambi comunque
concordano nell’ipotizzare un’origine araba degli Afar, per discendenza
dall’immigrazione di gruppi provenienti dal sud dell’Arabia e nel
sostenere che gli cAsahyammàra
“Rossi” rappresentino la fazione nobile dell’intera società
Afar.
III.8.) La versione
“mitica”
Per poter
stabilire attraverso le fonti a nostra disposizione, una plausibile
ricostruzione dell’origine del modello d’organizzazione sociale
binario fra gli Afar (e che sembra avere un certo rilievo anche per i
loro moduli d’identificazione), è di grande importanza anche un
racconto mitico10
che troviamo menzionato in varie fonti tra quelle in nostro possesso.
Si tratta di un mito di fondazione che occorre prendere in
considerazione secondo alcune varianti.
Le versioni in
nostro possesso sono quelle riportate da Marcel Chailley (1980: 15),
da Dante Odorizzi (1909: 39-40), (dalla quale deriva quella che
troviamo in Franchetti - 1930: 253) e da Didier Morin (1991: 38). In
tutte le versioni l’elemento in comune è rappresentato dal far
risalire l’origine dei lignaggi cAsahyammàra
ad un progenitore proveniente dal sud dell’Arabia. Richiamandosi a
questo mitico antenato i vari lignaggi acquisiscono notevole
prestigio legittimando la propria posizione privilegiata rispetto ad
altri gruppi Afar. Iniziamo con la versione di Chailley che è la più
ricca di notizie e la più completa tra quelle da noi analizzate.
Chailley (1980: 17) dice di aver appreso questo racconto mitico
personalmente da Hadji ‘Ali, vizir del Goba’ad nel corso dei suoi
viaggi nella regione di Gibuti e Tagiura effettuati dal 1935 al 1937.
Riassumiamo brevemente il racconto da lui fornito. Secondo questa
versione un uomo proveniente dallo Yemen di nome Hadalmahis (che
significa “colui che al mattino è sopra un albero”) si recò (in
un tempo indeterminato) a We’ima nella zona di Tagiura (attuale
Repubblica di Gibuti). Salito sopra un albero che si trovava vicino
ad un pozzo per esaminare il paese, Hadalmahis venne visto riflesso
nell’acqua del pozzo da uno schiavo di Ali Ablis (capo della
“tribù” degli Ablé Adohyammara della zona di Tagiura) che vi si
era recato per farne scorta. Questo, credendolo un ginn11
in agguato nei pressi del pozzo, scappò verso il villaggio per
avvertire il capo. Questi recatosi ai piedi dell’albero con tutti i
suoi guerrieri e resosi conto che non si trattava di un demone, ma di
un uomo rivestito con sontuosi abiti di seta, gli intimò di scendere
a terra. Al che Hadalmahis rispose che sarebbe sceso solo a
condizione che fossero stati deposti ai suoi piedi due pelli di bue,
una rossa e una bianca (allusione alla divisione in
“Rossi” e “Bianchi”). Ciò fu fatto e Hadalmahis venne portato
all’accampamento dove operò vari miracoli, in seguito ai quali fu
eletto dardar (sultano) del villaggio e gli fu donata una donna in
sposa. Da questo matrimonio nacquero quattro figli dai quali
scaturiranno quattro potenti lignaggi cAsahyammàra:
i Modayto (nella regione dell’Aussa), gli Adali (nella zona di
Tagiura), i Dambohoyta (Massaua-Assab) e gli Ulu’to.
Nelle versioni di
Odorizzi e Franchetti vi sono alcune varianti.
Vediamo la versione di
Odorizzi (1909: 39-40):
“…Raccontano
che un uomo dello Iemen (Iemàni) sbarcò a Dammahò presso Tagiurra
dove già dominavano col nome collettivo di Afar i discendenti degli
Hablè e degli Ancala giunti essi pure qualche generazione prima
dallo Iemen e fusisi con gli Hedarem. Dall’unione dell’uomo dello
Iemen con una donna Afar nacque Har-el-mass fuggito da Dammaho a
Mabla (a sud di Assab) dopo che suo padre fu ucciso dal suocero.
Aiutato dagli Hedarem, Har-el-mass divenne forte, guerreggiò con gli
Ancala e li vinse cacciandoli innanzi a se fino a Buri (nord della
Dancalia) e impadronendosi di tutto il litorale.”
Odorizzi
analizza il racconto mitico alla luce delle sue ipotesi sui movimenti
migratori che portarono i gruppi Afar cAsahyammàra
a diffondersi come “classe” dominante da sud verso il nord della
Dancalia. Nel racconto riportato da Franchetti (1930: 232) non vi
sono consistenti variazioni:
“…un
uomo dello Iemen (Iemàni) sbarcò a Dammahò presso Tagiura dove
dominavano gli Heblei. Dall’unione di quest’uomo con una donna
Heblei sarabbe nato Har-el-mass, che crebbe in potenza e fortuna
sottomettendo le popolazioni colle quali venne a contrasto. La sua
discendenza prese il nome di Damoheita, da Dammahò loro culla e
tanto divenne potente da assoggettare al suo dominio tutte le stirpi
Ado Iammara della Dancalia Meridionale, gran parte di quelle
stabilite nella centrale, riuscendo a spingere qualche tentacolo
perfino nella Dancalia settentrionale, ove però gli Ado Iammara
riuscirono a mantenersi per la maggior parte indipendenti,
specialmente ad opera dei Dahimela che seppero raggruppare intorno a
loro tutti gli altri gruppi etnici affini.”
Nelle versioni
fornite da Odorizzi e Franchetti vi sono dunque alcune variazioni
rispetto a quella fornita da Chailley. Prima di tutto essi
riferiscono che il mito appartiene alle tradizioni orali della
“tribù” cAsahyammàra
dei Damoheita. In esse non compare il nome di Hadalmahis ma si fa
riferimento semplicemente ad un uomo proveniente dallo Yemen. Appare
invece come figura preminente nel mito il figlio (Har-el-mass) nato
dall’unione di questo uomo venuto dal sud dell’Arabia con una
donna Afar.
L’analisi
delle tradizioni abissine e del racconto mitico riportate dalle
nostre fonti di riferimento per spiegare l’origine della divisione
fra cAsahyammàra
“nobili” e cAdohyammàra
“comuni” trova un efficace compendio nel testo di Didier Morin
(1991: 36-38). Egli utilizza le nostre stesse fonti di riferimento
sottoponendole ad un tipo di analisi
storico-positivista12. Il suo intento è quello di dimostrare
l’infondatezza delle ipotesi in esse riportate fornendo
un’interpretazione differente e forse più attendibile,
supportandola da riscontri e ricerche effettuate sul campo.
Le questioni al
centro della sua attenzione sono l’origine e il significato della
suddivisione fra cAsahyammàra
e cAdohyammàra
e la collocazione temporale dell’episodio di Hadalmahis che sarebbe
all’origine dei lignaggi cAsahyammàra
e quindi in stretta relazione con il primo punto. Secondo la sua
opinione la divisione in “bianchi” e “rossi” va considerata
in un’ottica diversa rispetto alle spiegazioni fornite dagli altri
studiosi. Morin (1991: 38) per prima cosa cerca di dimostrare che
tutte le ipotesi formulate dagli studiosi a proposito di questo
bipolarismo sociale Afar non hanno fondamento storico e possono
essere smentite dai fatti che egli ha riscontrato durante la sua
ricerca sul campo. Egli inizia contraddicendo la teoria formulata da
Odorizzi e ripresa anche da Franchetti, come abbiamo visto, che
farebbe degli cAsahyammàra
una fazione nobiliare all’interno della società Afar e degli
cAdohyammàra
la parte comune e sottomessa.
Forniamo di seguito la
traduzione di un passo tratto dal suo testo (1991: 38) che fa
riferimento proprio a questo punto:
“Le
partage fait par Odorizzi entre Rouges nobles et Blancs routiers,
repris encore récemment par Lewis, est contredit par l’existence
des sultanats “blancs” de Tadjourah et Raheita, dont les
titulaires remontent au même “Hadalmahis”, dont se réclament
aussi les Rouges “nobes” de l’Awsa (les Modaytò). En outre, si
ceux-ci fournissent traditionnellement les chefs de l’Awsa, il n’en
est pas de même partout: les Modaytò ont des contribules restés
dans les massif de Mablà, au nord-ouest d’Obock, et passés sous
le commandement des Basomà (cadohyammàra)13.”
Morin fornisce
indicazioni per dimostrare che il contenuto originario del
bipolarismo esistente in seno alla società Afar non è riconducibile
ad un rapporto tra “nobili” e “comuni” (tanto più che
secondo il suo punto di vista il concetto di “nobiltà” non
appare adeguato riferendosi alla società Afar). Nello stesso tempo
egli smentisce la teoria fornita da Franchetti secondo la quale il
progenitore arabo “Hadalmahis” sarebbe all’origine dei lignaggi
cAsahyammàra.
A dimostrazione di ciò Morin porta l’esempio di lignaggi
cAdohyammàra
che reclamano una discendenza dallo stesso Hadalmahis progenitore dei
lignaggi “nobili” “Rossi”. È il caso delle “tribù”
cAdohyammàra
che storicamente hanno avuto il dominio dei sultanati di Tagiura e
Raheita (attuale Repubblica di Gibuti). Secondo Didier Morin il
“mito-storia” di Hadalmahis non può essere assunto come
originario per la divisione binaria. Egli cerca di dimostrare quanto
dice facendo un calcolo sulla base della genealogia del suo
informatore Hàmad-Lacdé
appartenente alla frazione della tribù Debné chiamata Harkà-m melà
Arbahintò che forniva i sultani del Godacàd
destituiti dai francesi nel 1931 e che fa risalire la propria
fondazione ad Hadalmahis. A questo proposito citiamo Morin (1991:
39):
“…l’épisode
de Hadalmahis, que l’on peut situer vers la fin du XIVème siècle
(19 génération à partir de Hàmad-Lacdé
x 30 ans = 570 ans (circa); 1950 – 570 = 1380).”
Sulla base di
questo calcolo genealogico egli giunge alla conclusione che il fatto
raccontato nel mito sarebbe situabile verso la fine del XIV secolo e
più precisamente all’incirca verso il 1380. Di seguito egli
fornisce una ricostruzione della storia di alcune tra le più
importanti popolazioni Afar e precisamente gli Haràlla, i Modayto, i
Debné, i Galcèla,
i Takcìl
e gli Adcàli
tutti coinvolti nei complessi movimenti migratori e nelle lotte che
hanno fatto da sfondo al popolamento della regione dell’Aussa. La
sua ricostruzione storica si basa su racconti orali raccolti durante
la sua permanenza in Dancalia, che in parte gli sono stati comunicati
dal già menzionato Hàmad-Làcdé
e su alcuni dati storici raccolti da varie fonti14.
L’idea di Morin è che la questione del popolamento dell’Aussa
riguarderebbe da vicino la costituzione originaria della divisione
Afar fra cAsahyammàra
e cAdohyammàra.
Rimandiamo al testo di Morin (1991: 39-49) per un analisi
approfondita della sua ricostruzione delle vicende storiche
riguardanti le popolazioni Afar sopra citate e cerchiamo di stabilire
la validità della sua ipotesi. Secondo i calcoli fatti da Morin
(1991: 38) basati sul conto delle generazioni, sui dati storici a sua
disposizione e sulle testimonianze apportate dalle fonti orali da lui
raccolte, la divisione degli Afar nelle due “classi” cAsahyammàra
“rossi” e cAdohyammàra
“bianchi”, risalirebbe alla fine del XVII o agli inizi del XVIII
secolo.
L’opposizione
di colori rispecchierebbe la contrapposizione in certo senso
“politica” dei vari gruppi Afar in lotta per la conquista delle
fertili terre attorno al basso corso del fiume Awash, iniziata verso
la fine del XVII secolo. Citiamo un passo di Morin (1991: 38) a
proposito delle cause che secondo lui avrebbero portato alla
suddivisione fra “bianchi” e “rossi”:
“La
division entre cAdohyammàra
et cAsahyammàra
existe, elle, dans l’ensemble du monde afar, meme si le contenu de
cette opposition est perdu. Selon nous…ce “bipartisme” n’est
ni territorial, ni social, ni lié à une parenté réelle ou
supposée. Il est d’abord politique, né du grand mouvement
migratoire vers la pluie et le paturage qui a du commencer, si l’on
s’en tient au compte des générations, au début du XVIIIème ou à
la fin du XVII siècle, pour le controle de la vallée de l’Awash.
Ceci, donc, bien après l’épisode de “Hadalmahis” que l’on
peut situer vers la fin du XIVème siècle…”15
Nel corso della sua
trattazione Morin (1991: 45) sostiene che la difficoltà di risalire
alle reali origini della suddivisione tra Asahyammara e Adohyammara,
starebbe nel fatto che i motivi reali alla base di questa spaccatura
nella società Afar, hanno perso la loro ragione d’essere e quindi
possono essere stati in qualche modo dimenticati o occultati. Tanto
più che dai dati storici in suo possesso risulterebbe che dalla fine
del XVIII secolo e fino al 1975, un’unica frazione tribale Afar
(quella dei Modaytò) avrebbe esercitato un dominio ininterrotto sui
territori dell’Aussa (Morin 1991: 45).
Alla luce dei
fatti e delle ipotesi analizzate, la teoria di Morin sembra la più
attendibile ma dobbiamo concludere che non è facile chiarire su basi
storiche l’origine del bipolarismo Afar. Va considerato che il
popolamento dell’Aussa, ma allo stesso modo anche di altre zone
della Dancalia, è stato un fenomeno complesso, discontinuo ed
eterogeneo. Morin (1991: 49) riferisce che nel corso dei secoli, il
territorio Afar ha fatto da sfondo all’intrecciarsi di reti
flessibili di alleanze strategiche a scopo difensivo e di relazioni
di parentela tra i vari gruppi, spesso in seguito ai contrasti che si
verificavano tra le popolazioni durante i loro spostamenti alla
ricerca di migliori terre per i pascoli. La maggior parte dei gruppi
“tribali” Afar non possono perciò essere considerati come
omogenei e sempre uguali a se stessi, essendo coinvolti in un ciclo
di continue ricostituzioni e cambiamenti. Sempre Morin (1991: 39-49)
sostiene che molte cause (tra cui ad esempio carestie, vendette di
sangue, razzie, alleanze matrimoniali o strategiche in seguito a
pressioni di gruppi più forti, denatalità, spostamenti) hanno
contribuito alla dispersione di interi gruppi sul territorio, gruppi
che spesso finivano con l’essere inglobati tra gli Adohyammara o
tra gli Asahyammara, a seconda di quale era la fazione dominante in
un certo luogo16
(Morin 1991). Anche l’antropologo inglese J. Lewis (1955: 156)
parlando degli Afar si è soffermato brevemente sulla questione del
loro bipolarismo. Secondo Lewis, la realtà della suddivisione non è
in discussione, essa esiste tuttora, ma le due fazioni non sono
sempre territorialmente separate e i maggiori gruppi tribali
comprendono un misto di entrambi.
La situazione non è
totalmente paritaria. In genere i gruppi Adohyammara che vivono tra
gli Asahyammara sono soggetti al pagamento di una tassa. Vi sono
tuttavia molte “tribù” Adohyammara autonome o che tendono a
liberarsi da tale onere e ad acquisire uno status indipendente.
Alla luce di questi fatti e sulla base delle notizie riferite da
Morin, possiamo dire che la binarietà esiste ma non è cogente.
Per quanto
riguarda le presunte origini arabe rivendicate dagli Afar, abbiamo
già detto che questo è un fenomento molto
diffuso tra le popolazioni musulmane del Corno d’Africa e successivo
all’islamizzazione ad opera degli immigrati arabi fin dai primi
secoli dopo l’Egira. È cio che sostiene Lewis (1955: 156):
“With
the spread of Islam, a further complication has been introduced by
the practice of tribes ascribing origin to Arabia17.”
Nel caso degli Afar
(ma anche dei Somali. Vedi in proposito Lewis 1983), questa
“nobilitazione” delle proprie genealogie, va considerata anche
alla luce del grande “fervore religioso” che accompagnò le
guerre condotte dallo Stato musulmano di Adal contro il regno
cristiano abissino nel XVI secolo. Queste guerre hanno avuto anche un
ruolo decisivo da non sottovalutare nello specifico nel
consolidamento della religione islamica tra le popolazioni Afar e
hanno influito fortemente sul processo di costruzione della loro
identità etnica.
III.9.) I sultanati nel territorio Afar
Alla costruzione
dell’ “identità etnica Afar” hanno contribuito anche i
sultanati stabiliti sul loro territorio. Nel corso della sua storia,
la società Afar è passata da una strutturazione fortemente
segmentata e senza alcuna forma statale centralizzata, ad una
organizzazione territoriale, forzatamente “tribale”, più
agglomerante dovuta proprio alla costituzione di sultanati musulmani
sul suo territorio. Nel Corno d’Africa, i primi sultanati sono
stati creati dagli arabi durante i secoli VIII e IX in seguito allo
sviluppo sempre maggiore della loro penetrazione economica lungo la
costa e nelle zone interne (Cuoq 1981). Essi sono sorti come risposta
all’esigenza di controllare e proteggere dalle frequenti razzie
compiute dalle varie tribù nomadi, i traffici di merci e di schiavi
che hanno legato per secoli il Sud-Arabia e la costa africana del Mar
Rosso (Cuoq 1981).
Come sostiene lo
storico francese Joseph Cuoq (1981: 52)
oltre che rappresentare punti di fondamentale importanza per poter avere
una migliore gestione e controllo dei rapporti di tipo economico,
questi sultanati hanno costituito la base della penetrazione
religiosa araba nel Corno d’Africa. I luoghi di maggiore
concentrazione delle famiglie provenienti dal sud dell’Arabia, sono
stati l’arcipelago delle isole Dahlak, sulla costa settentrionale
della Dancalia di fronte alla zona di Massaua, l’isola di Zeila,
nel Golfo di Aden e Maqdishu, sulla costa dell’attuale Somalia
(Cuoq 1981: 39). Partendo da questi centri islamizzati, i musulmani
hanno costituito i primi sultanati e hanno dato il via alla loro
penetrazione commerciale e politica e alla diffusione della religione
islamica nei territori del Corno d’Africa.
È da notare che Cuoq
(1981: 74) fa menzione di un ruolo attivo degli Afar nella diffusione
dell’Islam a Zeila, che fino al X secolo era un porto cristiano
frequentato da musulmani, già nei secoli X e XI.
Ciò presuppone
che la conversione all’Islam degli Afar di questa zona sia avvenuta
già da qualche tempo. Purtroppo le fonti a mia disposizione non sono
esaurienti su questo punto limitandosi ad indicare che
l’islamizzazione degli Afar e di altri popoli nomadi del Corno
d’Africa è avvenuta “molto presto”. Sulla base delle note
storiche fornite da Cuoq (1981) riguardo l’espansione musulmana
in Etiopia possiamo stabilire con approssimazione che
probabilmente gli Afar delle zone costiere hanno iniziato a
convertirsi all’Islam a partire dal secolo IX. A questo proposito è
importante la notizia riportata da Cuoq (1981: 81) riguardante
l’attestazione dell’esistenza verso la fine del IX secolo di un
reame musulmano nella parte a nord-est dello Shoa proprio ai piedi
dell’altopiano abissino. Egli sostiene che questo regno fosse in
buone relazioni con i cristiani dello Shoa. Ciò d'altronde era
nell’interesse di entrambi visto la necessità di sicurezza dei
legami commerciali tra le zone interne e il centro di Zeila. Secondo
Cuoq è probabile, che questo reame musulmano sia stato nei secoli X
e XI un fattore determinante per l’islamizzazione di Zeila e delle
popolazioni delle zone costiere. Tuttavia l’elemento trainante per
l’espansione dell’Islam sul territorio africano, è stato
l’instaurarsi di un’intenso traffico di schiavi, nel corso del X
secolo, tra il sud dell’Arabia e l’Africa dell’est (Cuoq 1981:
44). A questo commercio hanno partecipato attivamente le popolazioni
abissine degli altopiani e quelle nomadi degli Afar e dei Somali, che
sono state tra i maggiori schiavisti della zona, contribuendo
fortemente ad incrementare questo traffico diretto verso il sud
dell’Arabia18
(Cuoq 1981: 53). Proprio lo schiavismo ha favorito il diffondersi
dell’Islam, poiché ha richiesto la costituzione di sultanati nelle
zone interne, che facessero da intermediari arabi, cioè islamici,
sulla rotta delle vie carovaniere (Cuoq 1981: 53). I progressi
dell’Islam tra le popolazioni dislocate lungo la costa e nelle zone
interne, sono stati favoriti dalla presenza di postazioni musulmane
lungo le vie di transito delle merci e del traffico di schiavi che
dalle zone degli altopiani abissini giungeva fino agli empori sulla
costa per poi arrivare nel sud dell’Arabia.
Da segnalare che fin
dagli inizi dell’insediamento sud-arabico sul territorio africano,
si sono verificati vari scontri tra cristiani copti etiopi ed
immigrati sud-arabici musulmani, ma non ancora in nome della
religione (Cuoq 1981: 86). La crescita dell’Islam è stata,
infatti, piuttosto lenta e i sultanati, in questo periodo, erano
troppo deboli per potersi imporre in maniera forte sulle zone
circostanti. Perciò, la sopravvivenza di questi sultanati in mezzo a
territori ancora soggetti all’Impero cristiano d’Etiopia, è
stata possibile nella misura in cui essi hanno manifestato una certa
sottomissione nei confronti del Negus regnante, spesso con il
pagamento di un tributo (Cuoq 1981: 86).
I successivi progressi
dell’Islam sono stati il risultato, non di conquiste, ma piuttosto
di un processo di assimilazione di elementi culturali e religiosi
arabi e yemeniti da parte delle popolazioni della costa e
dell’interno, favorito dalle relazioni di tipo commerciale (Cuoq
1981: 92). L’Islam in questo specifico caso quindi, non s’impone
con la forza ma penetra come modello accettato e possiamo dire
“conveniente”. In ciò forse può essere trovata anche una delle
cause per le quali l’Islam è rimasto per le popolazioni dell’area
etiope un modello possiamo dire di “superficie”. Analizzeremo
meglio questo aspetto più avanti in un capitolo a parte.
Altri cenni storici
tratti sempre da Cuoq (1981: 123 e 131) ci informano che nel corso
del XII e XIII secolo, gran parte delle province del sud-est etiope
sono passate sotto il dominio dei musulmani. Il più importante
sultanato in questo periodo, è stato quello d’Awfat, sede della
dinastia dei Walashma in possesso del porto di Zeila, fulcro di tutti
i traffici del sud-est del Regno d’Etiopia. Nel XV secolo questa
dinastia ha spostato la sua sede nel regno d’Adal (l’attuale
territorio della Repubblica di Gibuti) che, in quel momento, era lo
stato più ricco della zona.
Piu tardi ad
essi sono succeduti l’emirato di Harar, nel sud-est etiope e il
sultanato di Aussa, sul fiume Awash. Fino all’inizio del XVI secolo
però, la debolezza di tutti i reami e sultanati musulmani è stata
quella di rimanere divisi e gelosi l’uno dell’altro19
(Cuoq 1981: 131).
Per quanto riguarda
gli Afar, secondo quanto riportato nella “Vie de Zar’a Ya’qob
et de Ba’eda Maryam” (Perruchon 1893), risulta che nel XV secolo
essi hanno rappresentato, insieme ai Somali, una minaccia continua
per le regioni più ricche dell’impero etiope ma anche del reame
musulmano d’Adal. Tuttavia secondo Cuoq (1981: 160) nella seconda
metà del secolo XV parte delle popolazioni Afar fecero atto di
sottomissione al negus Ba’eda Maryam (1468-1478). Questo dato
storico è una prima testimonianza del fatto che le varie popolazioni
Afar, nel corso della loro storia, hanno mantenuto sempre una certa
identità specifica grazie l’autonomia mantenuta, nonostante le
forti pressioni esterne, alleandosi di volta in volta in base alla
propria convenienza e a seconda delle circostanze. È nel corso del
XVI secolo che, possiamo dire si è rafforzato in maniera
determinante il processo di costruzione del senso di appartenenza ad
un’unica unità sociale e culturale autonoma da parte degli Afar.
Fattore decisivo in
questo senso sono state le guerre “religiose” (1531-1543)
combattute dal Regno musulmano d’Adal (nei territori dell’attuale
Repubblica di Gibuti) contro il regno cristiano abissino. Sotto la
spinta prorompente dei musulmani del Regno d’Adal guidati dalla
figura carismatica del condottiero Ahmad Gran (1506-1543) le varie
“tribù” Afar si sono trovate unite per la prima volta da una
comunione d’intenti. La crescita del regno musulmano d’Adal ha
portato anche alla costituzione di sultanati sempre più potenti sul
territorio Afar. Mi riferisco a quelli d’Aussa, Raheita, Biru e
Tagiura che rappresenteranno a lungo gli unici punti di riferimento
sociale e territoriale per le popolazioni Afar e molti altri
sceiccati e piccoli domini (vedi anche Lewis 1955: 157). Essi hanno
avuto un ruolo molto importante nella diffusione sempre maggiore
dell’Islam tra gli Afar delle zone interne della Dancalia e sono
stati determinanti punti di appoggio durante le guerre religiose
contro i cristiani.
Dopo la sconfitta dei
musulmani e la morte di Amhad Gran (1543) i sultanati di Aussa,
Raheita, Biru e Tagiura hanno continuato ad esercitare la loro
funzione di “controllo” e di “accentramento” delle
popolazioni Afar. Tuttavia nel corso dei secoli, le popolazioni
nomadi che hanno fatto capo ad un sultanato, hanno prestato
obbedienza solo quando ne hanno avuto necessità e in particolar
modo, quando l’esigenza di sventare delle minacce esterne ha
imposto loro di stabilire delle alleanze temporanee.
Nel corso della loro
storia, i “sultanati Afar” di Aussa, Raheita e Tagiura hanno
goduto di una grande autonomia, almeno fino all’avvento delle tre
potenze europee (Francia, Italia e Inghilterra) che hanno instaurato
un dominio coloniale in Africa Orientale.
I sultanati di Raheita
e Tagiura sono finiti quasi subito sotto il dominio della Francia
che, nel 1862, ha occupato il territorio dell’attuale Repubblica di
Gibuti (vedi Dilleyta 1989).
Quello di Aussa,
invece, nel 1895, ha subito un incursione da parte dell’esercito
dell’imperatore d’Etiopia Menelik che, accusando il sultano di
essersi alleato con gli italiani, lo ha attaccato e costretto al
pagamento di un tributo. Nel 1944, poi, dopo il ritiro delle forze
italiane dal territorio dell’Eritrea, un’altra spedizione etiope
ha raggiunto la regione dell’Aussa e ha portato alla cattura del
sultano, morto poco tempo dopo il suo trasferimento ad Addis Abeba
(vedi Lewis 1955: 157). Il sultanato di Aussa, da allora è rimasto
in una condizione di semi-indipendenza e tributario dell’Etiopia
fino al 1976, quando il sultano Ali Mirah si è esiliato in Francia
(insediando al suo posto un proprio parente) mentre le terre della
regione sono state nazionalizzate dagli etiopi (Dilleyta 1989: 55).
III.10.) Che cos’è una società Afar
La
strutturazione della società Afar in “tribù”, “clan” e
“lignaggi”, pur rispondente alla dipendenza dei vari gruppi dai
pochi punti d’acqua esistenti e dai pascoli per il bestiame, si
basa soprattutto, come abbiamo visto, sulla parentela e sui vincoli
agnatici. Infatti, le unità sociali in cui si dividono gli Afar,
sono incentrate sui legami di parentela e le loro divisioni si basano
su differenze di struttura agnatica (Lewis 1955: 163). Il legame
genealogico, stabilisce la derivazione di un gruppo sociale da un
antenato comune, seguendo una linea di discendenza patrilineare, per
cui si può dire che la posizione di un individuo all’interno
dell’intera società Afar è definita in rapporto ai propri
antenati (vedi Lewis 1983). Tuttavia come ben analizza Morin (1991:
49), queste genealogie non fanno altro che “fornire
in forma di leggenda (cioè mito genealogico)20
un’idea fissa e semplificata delle reti flessibili e complesse di
relazioni di parentela e alleanze strategiche di cui si compone la
società Afar”.
Ciò per
conferire legittimità al proprio sistema di strutturazione sociale e
“tribale”. Il principio dell’identità agnatica, è quello che
conferisce unità e coesione tra i gruppi “tribali” e
specialmente in tempo di guerra, permette lo sviluppo di un carattere
corporativo. Quello agnatico è un vincolo che lega in maniera molto
forte i membri di un certo gruppo tra di loro, tanto che ogni
individuo tende ad identificare i propri interessi con quelli dei
parenti, soprattutto quando essi sono impegnati in controversie che
possono scatenare faide interne o con gruppi agnatici diversi
(vedi a questo proposito Lewis 1955 e
1983). Infatti, sulla responsabilità individuale prevale il
principio della fedeltà al gruppo. È il caso delle “vendette”
di sangue21
(Lewis 1955: 166). Il sistema di vendetta costituisce un modello
molto importante tra i sistemi istituzionali delle cosiddette società
tradizionali22.
Delaporte (nel “Dictionnaire de l’ethnologie”, Bonte Izard,
Paris 1993, pag. 736) fornisce la seguente definizione:
“…l’obligation
faite à un groupe déterminé (famille, lignage, clan ou sous-clan),
d’obtenir d’une facon ou d’une autre compensation pour le sang
versé d’un de ses membres23.”
Ancora Delaporte
(1993: 736) sostiene che la “vendetta” è sempre un sistema
codificato e ritualizzato:
“Des
rites marquent l’ouverture du cycle des vengeances et déterminent
les modalités de la rupture, totale ou partielle, entre les groupes
sociaux en conflit24.”
Si tratta però,
di un sistema a rischio perché i limiti culturalmente assegnati per
il suo compimento non garantiscono la sicurezza di contenere le
conseguenze per l’ordine sociale. La ritualizzazione del sistema di
vendetta dovrebbe contenerne i rischi ma la norma rituale non è
sufficiente. In effetti, l’estrema aridità delle terre abitate
dagli Afar produce una accesa competizione per il controllo delle
scarse risorse. La forte dipendenza dai pochi punti d’acqua
dislocati sul territorio e i continui spostamenti alla ricerca di
pascoli, causano il permanere di correnti sotterranee di tensione nei
rapporti tra i vari gruppi che vengono in contatto tra loro durante i
frequenti spostamenti. Il ricorso continuo alla violenza e
all’aggressione è quindi favorito dal contesto “ecologico” di lotta per le risorse, ma le continue migrazioni e quindi
l’incontro con altri gruppi, comportano anche la necessità di
intrattenere delle relazioni pacifiche e gli atti di conciliazione
assumono una fondamentale importanza per il mantenimento di un certo
equilibrio nei rapporti sociali. Aggressione e conciliazione, si
alternano così, in una sorta di ciclo che si ripete di continuo e
del quale non sono protagonisti e responsabili i singoli individui,
ma i gruppi nel loro insieme25
(Lewis 1983).
Così si
verifica ad esempio, che se una persona uccide un membro sia del suo
stesso gruppo che di un altro, la responsabilità ricade sull’intera
entità sociale di cui l’omicida fa parte. In questo caso scatta il
meccanismo della riparazione che nella società Afar può assumere
due forme principali: la legge del taglione, ossia la “vendetta di
sangue”, o la compensazione del danno arrecato, con il “pagamento
del sangue” (Lewis 1955 166; Lewis 1983). Questa seconda soluzione
consiste generalmente nel pattuire una certa quantità di capi di
bestiame, specie cammelli che sono i beni più preziosi che gli Afar
posseggono, in un numero che si ritiene costituisca una giusta
riparazione all’offesa subita. Nel caso in cui si riesce a giungere
ad un accordo tra le due parti, questa consuetudine è in genere la
più seguita. Tuttavia molto spesso certe azioni delittuose o dannose
scatenano faide che possono proseguire per decenni e che si esplicano
in continui raids predatori reciproci. Queste faide, o vendette di
sangue, non hanno termine fino a quando la situazione diviene
insostenibile mettendo a rischio l’esistenza stessa dei gruppi
coinvolti. Ci si accorda allora, per sanare il debito originario con
una compensazione in capi di bestiame. Molte volte, quando la
faida è interna, si arriva alla spaccatura del gruppo che separandosi, diminuisce
notevolmente la propria forza. Infatti, il potenziale effettivo di
combattimento di un gruppo si misura sul numero di individui che lo
compongono.
Più il numero
di persone è alto, maggiore è la loro capacità di difendersi e
respingere eventuali attacchi. La divisione di un gruppo in più
frazioni però, può verificarsi anche nel caso in cui un’entità
sociale cresce a dismisura e finisce con il risultare difficile da
governare. Quando invece, per cause svariate, si hanno delle
diminuzioni drastiche del numero dei membri, si può giungere ad
accorpamenti in unità più grandi o anche alla scorparsa di
un’intera “tribù”. Quella dei lignaggi perciò, risulta essere
una struttura dinamica che provoca crescite e
restringimenti dei gruppi (Lewis 1983; Morin 1991).
Naturalmente, trattandosi di una società pastorale, c’è un forte
legame tra l’incremento delle mandrie nel corso delle generazioni e
l’ampliarsi dei lignaggi. Inoltre il possesso del bestiame ha una
forte carica simbolica essendo fortemente connesso con il vincolo
agnatico. Infatti, secondo la tradizione Afar, le mandrie fanno parte
del patrimonio ereditato dal fondatore del clan o lignaggio26
(Lewis, 1983). Possiamo così dire che i fattori fondamentali e
caratterizzanti le varie identità all’interno del gruppo Afar sono
la parentela e il
possesso di bestiame. Il primo elemento definisce le questioni della divisione,
dell’affiliazione sociale e dei rapporti tra i gruppi e all’interno
del gruppo stesso. Il possesso di animali da pascolo, invece, è il
valore principale su cui si fondano, sia il lignaggio, che le
relazioni tra i membri al suo interno e non solo da un punto di vista
pratico, ma anche simbolico-religioso, come vedremo più avanti. Il
possesso della terra invece, non riveste un ruolo fondamentale. Ciò
perché l’insediamento sul territorio ha una valenza solo
temporanea e, soprattutto nei momenti di assenza di ostilità tra
gruppi contigui, rappresenta solo un’occupazione non permanente di
una zona in genere desertica e disabitata. Inoltre, bisogna
aggiungere che, ai fini della coesione e delle alleanze strategiche a
scopi difensivi tra gruppi diversi, la vicinanza territoriale è
secondaria rispetto ai vincoli di parentela.
NOTE
1
Di recente il governo belga ha riconosciuto la propria
responsabilità storica per il conflitto tra Tutsi e Hutu.
2
Puntualizziamo già qui il fatto che occorre prestare
particolare attenzione alla necessità di precisare le “proprie
risorse simboliche” tenendo conto del fatto che esse possono
essere importanti anche più delle “risorse materiali”.
3
Secondo Morin (1991: 14) Ibn Said menziona la parola
Dankal riferendola ad un gruppo abitante la zona di Souakin presso
lo stretto di Bab al-Mambad. Egli probabilmente confonde Dankal con
il termine “Ankala”, nome di una popolazione che figura tra i
più antichi gruppi di Afar venuti ad abitare le zone della penisola
di Buri nel nord della Dancalia. L’ipotesi più probabile è che,
come suggerisce Conti Rossini (1937; 141), il termine Danakil sia in
origine derivato dal nome di una “tribù” e precisamente quella
degli Ankala siti nella penisola di Buri nel Nord della Dancalia (a
questo proposito vedi anche Lewis, 1955; 155).
4
Nella lingua Afar, il nome “Ad Ali” è usato per
designare una tribù situata nelle zone di Tagiura e Raheita. Da
questo nome derivano anche il plurale arabo “Ada Il” e il
termine “Adael” usato dall’amministrazione coloniale
francese (Morin 1991).
5
Traggo queste notizie dal “Reportage su Gibuti” apparso
nel numero di marzo-aprile 1999 della rivista “Le Courrier
ACP-UE”.
6
A proposito del “grido” come significante linguistico è
possibile un richiamo ad esempio alla semiologia della voce nella
sua prospettiva antropologica. Il “grido” con le sue modalità
diventa un riconosciuto tema linguistico identificante, rispetto il
consueto sistema di comunicazione, in molteplici contesti
ritualizzati (vedi ad esempio gli importanti studi sul lamento
funebre nelle società mediterranee a partire da Ernesto De
Martino). Il tema è comunque molto aperto anche dal punto di vista
linguistico.
7
“Il gruppo sociale, Kedò nella lingua Afar del sud, Kidò
in quella parlata nel nord, reclama una discendenza per linea
patrilineare da un antenato comune ed è caratterizzato da un nome
che spesso è il suo grido di guerra (itrò).”
8
“Il nome della frazione primogenita dei Galcela,
casurré, ha fornito il suo grido di guerra (itrò) alla
tribù.”
9
La forma esatta dei due nomi Asahyammara e Adohyammara
non è stata ancora stabilita in modo esatto. Letteralmente, nella
lingua Afar si hanno due forme:
- cAsa-h-yammàra,
“le persone che sono effettivamente rosse”
- cAdo-h-yammàra,
“le persone che sono effettivamente bianche”
Oppure:
- cAsa-ya-màra,
“le persone che si dicono rosse”
- cAdo-ya-màra,
“le persone che si dicono bianche”
(Morin, 1991; vedi
nota 25, pag.119)
10
Si
tratta di un vero e proprio racconto mitico nel senso restituito al
mythos greco: sequenza narrativa né vera né falsa situata comunque
in un tempo inequivocabilmente “passato” o comunque non attuale.
Vedi definizione di mito in Angelo Brelich “Introduzione alla
storia delle religioni” Roma 1966.
11
Nome con il quale gli Arabi designano una categoria di geni,
entità spirituali o sorta di esseri semidemoniaci, invisibili
all’uomo che l’Islam ha ereditato da credenze arabe antiche.
Questi Ginn possono essere sia buoni che cattivi, sia maschi che
femmine e possono avere persino rapporti sessuali con gli esseri
umani. La loro esistenza è ammessa dall’ortodossia islamica
coranica. (Dizionario delle religioni del Medio Oriente, Milano
1994, Garzanti Editore, edizione Avallardi).
12
L’analisi di Morin è una dimostrazione dell’esistenza di
quella categoria imprecisa ma importante di mito-storia che va
delineandosi come attuale oggetto di riflessione. Storia non
documentaria ma raccontata.
13
“La divisione fatta da Odorizzi tra Rossi nobili e Bianchi comuni,
ripresa ancora recentemente da Lewis, è contraddetta dall’esistenza
dei sultanati “bianchi” di Tagiura e Raheita i cui titolari
discendono dallo stesso “Hadalmahis” al quale risalgono anche i
Rossi “nobili” dell’Aussa (i Modayto). Inoltre se questi
ultimi forniscono tradizionalmente i capi dell’Aussa non avviene
lo stesso dappertutto: i Modayto hanno dei distaccamenti restati nel
massiccio di Mablà, a nord ovest d’Obock, passati sotto il
comando dei Basomà (cAdohyammàra).”
14
Riguardo le fonti storiche da lui consultate, Morin (1991:
121) fa un riferimento in nota al testo di Enrico Cerulli “Studi
etiopici” volume I. Documenti arabi per la storia dell’Etiopia,
M.R.A.L. 1931. Ma si appoggia anche alle testimonianze orali fornite
da alcuni informatori Afar all’amministrazione francese durante il
periodo coloniale (Hajji càli, nella zona di Tagiura e
il cosiddetto capitaine Peri citato da R, Ferry “Groupes
géographiques et groupes tribaux patrilinéaires chez les Afars”
communication à la Xème conf. Internat. des
études éthiopiennes. Paris 1988). Morin riferisce che altri
riferimenti storici si trovano anche in Deschamps H. “Cote des
Somalis. L’union francaise” Paris 1948.
15
“La divisione tra cAdohyammàra e cAsahyammara esiste
nell’insieme del mondo Afar anche se il contenuto di questa
opposizione è andato perso. Secondo noi…questo “bipartitismo”
non è né territoriale, né sociale, né legato a una parentela
reale o supposta. Esso è prima di tutto politico, nato dal grande
movimento migratorio verso le piogge e i pascoli che ha dovuto
cominciare, se si tiene conto delle generazioni, all’inizio del
XVIII o alla fine del XVII secolo, per il controllo della valle
dell’Awash. Dunque, molto dopo l’episodio di “Hadalmahis”
che si può situare verso la fine del XIV secolo..:”
16
È il caso citato da Morin (1991: 46) dei Galcéla,
inizialmente cAdohyammàra, che nel corso delle loro
migrazioni verso la parte occidentale del delta del fiume Awash sono
stati inglobati in un altro gruppo come frazione cAsahyammàra.
Vi sono tuttavia numerosi altri casi, secondo Morin, in cui certe
frazioni di gruppi Afar Adohyammara, nel corso delle varie
migrazioni, sono stati assorbiti e considerati come facenti parte
degli Asahyammara.
17
“Con la diffusione dell’Islam, un’ulteriore
complicazione è stata introdotta attraverso la pratica delle tribù
di ascriversi delle origini Arabe.”
18
Sulla partecipazione degli Afar al commercio di schiavi vedi
anche le notizie fornite da Chailley (1980: 119).
19
Va aggiunto che i numerosi e continui scontri con l’impero
abissino, aveva ridotto molti dei sultanati al rango di semplici
province governate da principi musulmani “vassalli” del Negus
abissino (Cuoq 1981: 146).
20
Il computo delle genealogie è una prima e importante
componente del fare storia. Sulla genealogia come sistema
d’interpretazione della storia c’è molta attenzione anche da
parte degli studiosi delle culture antiche. Vedi Sabbatucci “Il
mito, il rito e la storia” 1979.
21
Sulla “vendetta” come sistema di regolamento sociale vedi
E. Gellner, “Saints of the Atlas”, Londres 1969, Weidenfeld et
Niecolson; R. Jamous, “Honneur et baraka. Les
structures traditionnelles dans le Rif” Cambridge 1981; R. Verdier
(sous la direction de), “La vengeance. Etudes d’ethnologie,
d’histoire et de philosophie”, Paris 1980-1984, editions Cujas,
4 vol.
22
Il sistema di vendetta si trova diffuso anche in tutto il
mondo antico mediterraneo pur non essendo specifico solo delle
società mediterranee.
23
“L’obbligo fatto ad un determinato
gruppo (famiglia, lignaggio, clan o sotto clan), di ottenere
in un modo o in un altro compensazione per il sangue versato da uno
dei suoi membri.”
24
“Dei riti marcano l’apertura del ciclo delle vendette e
determinano le modalità della rottura, totale o parziale, tra i
gruppi sociali in conflitto.”
25
Si genera così un particolare tipo di giustizia basato su
meccanismi propri.
26
Questo concetto lo si ritrova diffuso anche in altre società
africane pastorali. Vedi a tale proposito ciò che riferisce Evans
Pritchard nella sua opera monografica sui Nuer: “The Nuer: a
description of the modes of livelihood and political institutions of
a nilotic people”, London 1940.