CAPITOLO 3 - GIORGIO CINGOLANI Antropologo e Regista

GIORGIO CINGOLANI
Antropologo e Regista
Vai ai contenuti
CAPITOLO III
Alla ricerca dell’identità

III.1.) L’identità etnica

Al giorno d’oggi i termini di identità etnica e etnia (e quelli ad essi correlati), sono entrati  nell’uso quotidiano comune e nel linguaggio dei mass-media. Tuttavia essi non si sono ancora liberati di quella visione tradizionale distorta che ne fa dei concetti dotati di una realtà oggettiva e immutabile. Secondo l’antropologo italiano Ugo Fabietti (1995) questa visione scaturisce dall’abitudine a pensare all’umanità e alle culture umane come frammentate e segmentate che rimanda ad un’immagine del mondo come diviso in popoli, “etnie”, “tribù” isolati e incomunicanti tra di loro. Seguendo le analisi condotte da Ugo Fabietti stesso, da Francesco Remotti, dal francese Jean-Loup Amselle e altri, si può giungere meglio a comprendere quanto sia dannoso mantenere una simile prospettiva “discontinuista” nella società di oggi e in un mondo che va sempre più globalizzandosi stabilendo nessi e connessioni sempre più fitte tra le sue varie parti. Nel tentativo di uscire da questa logica distorta e dal vicolo cieco in cui sembra condurci il “discorso identitario”, questi autori propongono un punto di vista più complesso e globale. I concetti di identità etnica e di etnia vengono sottoposti ad una critica epistemologica, decostruiti e ricondotti nell’ambito dei fenomeni culturali e delle costruzioni simboliche. Il sentimento di appartenenza ad un determinato “gruppo etnico” non appare più dotato di una realtà oggettiva, ma ci viene proposto come il prodotto di specifiche circostanze storiche, sociali e politiche (Fabietti 1995: 18). Per definire l’identità etnica non è più sufficiente appartenere alla stessa “razza” e avere comportamenti comuni o parlare la stessa lingua. L’identità etnica, come dice Fabietti (1995: 12):
“…è una definizione del sé e/o dell’altro collettivi che hanno origine quasi sempre in rapporti di forza tra gruppi che sono in competizione per l’accesso a determinati interessi e risorse”.
Da questa definizione parte la nostra ricerca riguardo la costruzione dell’identità del popolo Afar.

III.2.) La maschera dell’identità

Quali sono gli elementi che, ancora oggi, sono ritenuti basilari per determinare il senso d’identità degli Afar, difeso dai “guerrieri” da una parte e dai cosiddetti “intellettuali afar” dall’altra”?
Che cosa determina il sentimento di appartenenza di questa popolazione ad una stessa tradizione che in molti casi si rivela essere una “finzione” e una “costruzione”?
E in che modo e quanto l’apporto esterno influisce sul processo di identificazione di questo popolo?
Sono alcune delle domande che permettono di introdurre un discorso di destrutturazione del soggetto etnico e che, allo stesso tempo, portano al riconoscimento di quelle affinità oggettive che un gruppo di individui seleziona o immagina, con lo scopo di affermare fortemente la propria identità e la propria appartenenza ad uno stesso gruppo. Occorre partire dal presupposto che le identità si producono attraverso dinamiche interattive e quindi all’interno di un contesto e una situazione ben precise. L’identità etnica infatti, non è un oggetto statico, immutabile, ma anzi essa è sottoposta ad un continuo processo di riformulazione (Fabietti 1995). Qualunque “etnia” o società deve essere analizzata come parte di una rete più vasta di relazioni, dalla quale una certa “etnia” emerge per contrasto e in opposizione ad altre. Il caso degli Afar, ad esempio, ci mostra come essi siano stati da sempre al centro di flussi migratori e di commerci internazionali di vasta portata e quindi al centro di una grande quantità di influssi di vario genere, per cui il modello sociale è il risultato di precedenti sovrapposizioni. Il sentimento di appartenenza ad uno stesso gruppo allora, può nascere soltanto concependo un “noi” contrapposto ad un “loro” e quindi da una valorizzazione di una “autenticità” intesa come autoriconoscimento (Fabietti 1995). E affinché questa “autenticità originaria” (immaginata) conduca ad una certa stabilità dell’identità in questione (sottraendola al flusso di mutamento continuo in cui le società o “etnie” sono immerse), occorre in certo qual modo, rimuovere il contesto e la storia in funzione di quelle che sono le problematiche legate al presente. Si tratta, in pratica, di definire in maniera precisa tutta una serie di tratti oggettivi ritenuti caratteristici, immutabili e individuanti un determinato gruppo (Fabietti 1995). Questi elementi sono la lingua, il tipo di organizzazione sociale, il nome, il territorio abitato, gli “usi e i costumi”, la religione (intesa come l’insieme dei referenti simbolici operanti), la vita materiale. Tutti insieme vanno a costituire la coscienza che individui sociali hanno di far parte di uno stesso gruppo. 
Ma alla costruzione di un’identità concorrono, anzi spesso partecipano in modo condizionante, anche delle sollecitazioni che giungono dall’esterno. Sempre seguendo le analisi di Amselle e Fabietti infatti, possiamo vedere come l’identità etnica si costituisca per mezzo di un processo dinamico di interazione fra una produzione identitaria interna al gruppo in questione e un’elaborazione esterna che dipende dalla percezione dello sguardo altro, in un contesto in cui è in opera uno squilibrio nei rapporti di forza. Il potere politico o la “cultura” dominanti in un certo ambito, hanno la forza necessaria per esercitare una pressione esterna su società che sul piano politico e militare sono meno strutturate e che non hanno la stessa forma accentrata. Questa pressione esterna consiste nella capacità di tramandare una certa immagine degli altri, ad esempio assegnando loro un nome, oppure attribuendo ad essi arbitrariamente delle caratteristiche distintive come mezzo di definizione sociale e di classificazione (Amselle 1985; Fabietti 1995).
Un esempio di come questa dinamica di produzione “interna-esterna” dell’identità possa essere all’origine di una “etnia”, è il caso degli Shahsevan citato da Fabietti (1995: 45), un popolo di pastori nomadi che abitano nell’Azerbaigian iraniano. L’identità odierna degli Shahsevan, infatti, non è altro che il risultato dei rapporti contrastivi con lo Stato persiano e con altri gruppi. Questa rete di contatti ha provocato, nel corso del tempo, dei cambiamenti importanti nella produzione identitaria di questa popolazione, fin’anche al cambiamento del nome (Fabietti 1995: 45). Questo esempio dimostra che l’identità etnica non è immutabile e statica ma è il prodotto di una rete flessibile di relazioni tra elementi che interagiscono tra loro (Fabietti 1995: 48). Per poter parlare d’identità etniche occorre mettersi in una prospettiva più complessa, quella che Amselle chiama “logica meticcia”, al fine di comprendere i mutamenti e le interazioni che intervengono nella produzione di un’identità (Fabietti 1995: 48). Uno dei fattori che ha maggiormente contribuito all’“etnicizzazione” del mondo e alla creazione di un’immagine discontinua delle società umane è stato senza dubbio il colonialismo. Le responsabilità delle nazioni europee sono precise e le conseguenze del loro dominio, specie in Africa e in Asia, ancora oggi sono riscontrabili nei numerosi “conflitti etnici” che si verificano di continuo in entrambi i continenti1. Come dice Amselle (1985: 37) con il colonialismo, il concetto di “ethnos” inteso come realtà sociale stabile e ben definita, culturalmente omogenea e immutabile si enfatizza. Nel periodo precoloniale esistevano soltanto delle unità sociali a carattere politico, ineguali e di composizione eterogenea. 
La territorializzazione effettuata dal colonialismo ha provocato l’etnicizzazione dell’Africa e una visione discontinua della realtà sociale africana, propagata poi, per molti anni, da gran parte dell’antropologia e dell’etnologia, che hanno fortemente contribuito a creare un’immagine di questo continente come diviso in popoli, “etnie”, “tribù” e “clan” (così in Amselle 1985 e in Fabietti 1995: 41).
Occorre dire, però, che questa “etnicizzazione” una volta imposta dall’esterno, è anche favorita dai gruppi stessi, che utilizzano il diritto alla propria identità etnica come mezzo di rivendicazione per l’accesso a determinate risorse materiali ma anche simboliche2. Questo doppio processo, esterno ed interno, di produzione dell’identità scaturisce da un ben determinato contesto sociale, politico e storico e le identità così costruite finiscono con l’assumere una concretezza e una consistenza reali per chi vi si riconosce (Fabietti 1995). L’unità che un popolo si attribuisce è quindi di natura ideologica anche se l’identità che lo definisce è assunta come un dogma (Amselle 1985). È di fondamentale importanza perciò, rimarcare il carattere di “finzione” dell’identità etnica e allo stesso tempo quello di “invenzione” e di “costruzione” cui concorrono, oltre ai lavori di antropologi ed etnologi, anche i gruppi stessi e un potere politico che sia in grado di esercitare un dominio su una certa zona.
Si deve sottolineare però, che l’identità, pur se “invenzione” e “finzione”, nasconde dietro la sua facciata, un sentimento reale di appartenenza ad una “cultura” e ad una tradizione, basato sul riconoscimento di quei simboli che costituiscono le fondamenta dell’unità di un popolo (Fabietti 1995; Amselle 1985). Tra di essi, il nome che un gruppo si attribuisce è la condizione principale e necessaria della sua esistenza storica e sociale.

III.3.) Lo stratagemma del nome

Quello del nome, è uno degli elementi più importanti per la definizione e il riconoscimento dell’appartenenza ad una stessa popolazione e rappresenta uno dei simboli dell’unità e identità di un gruppo di individui. Ma spesso, i nomi con i quali sono conosciuti dei popoli, derivano da un’imposizione esterna da parte di un gruppo dominante che, in un contesto regolato da rapporti di forza, esercita il proprio potere di tramandare una certa visione degli altri, assegnando in maniera del tutto arbitraria dei tratti distintivi in grado di determinare in maniera definitiva un certo gruppo, con lo scopo di dequalificarlo razzialmente o di inquadrarlo e controllarlo all’interno di un’entità nuova (Amselle 1985; Fabietti 1995).
La questione dell’imposizione del nome ha origini molto lontane e nell’antichità molti dei nomi dei popoli stavano ad indicare degli status sociali. Fabietti (1995: 38) cita gli esempi di Slavo-sclavus; Bedu, termine arabo imposto dagli abitanti delle città ai nomadi del deserto (beduini) per distinguerli da loro. Assegnarsi un nome o imporne uno ad un popolo era, ed è ancora oggi, un modo di distinguere se stessi da gruppi di individui che sono vicini territorialmente o con i quali si viene a contatto e, nello stesso tempo, di affermare la propria superiorità sugli altri. In questo contesto, inoltre, è da sottolineare che sono quasi sempre i popoli in possesso di una cultura scritta ad avere la capacità di imporre dei nomi e di tramandarli conservandone la memoria (Fabietti 1995: 39).
Come sostiene Fabietti, questa è una dinamica per la quale una formazione statale centralizzata, in possesso di una tradizione scritta, è nella condizione di imporre il proprio dominio e i propri modelli culturali su formazioni meno gerarchizzate e in possesso di una tradizione orale. Con la scrittura, coloro che hanno il potere di costruire “etnie” e “culture” hanno la capacità di tramandarne la memoria nel corso del tempo contribuendo a mantenere viva la loro presenza, ma allo stesso tempo di cancellarne le tracce (Fabietti 1995: 39). Durante il periodo coloniale nella realtà complessa africana, si è verificato spesso che certi etnonimi fossero delle creazioni del tutto nuove, senza alcun riferimento con unità sociali preesistenti.
È il caso dei Bété della Costa d’Avorio (esempio citato da Jean-Loup Amselle 1985: 35). Il termine africano “Bété”, tradotto in francese significa “pardon” e rimanda alla sottomissione delle popolazioni che abitavano nei territori posti sotto il dominio coloniale della Francia. Questo nome è stato applicato ad una porzione di territorio ritagliata in maniera arbitraria dall’amministrazione francese da un continuum culturale più vasto (Amselle 1985: 35). Queste situazioni, come dice Amselle (1985: 38-39) si sono verificate soprattutto quando le potenze europee, al fine di esercitare un più stretto controllo sui propri domini, hanno provveduto a raggruppare le varie popolazioni, sia utilizzando certi etnonimi già esistenti ma adattandoli a contesti nuovi (come nel caso dei Bambara), oppure trasformando unità politiche preesistenti in “etnie pure” (caso dei Mandenka-Malinké), sia creando nuove unità sociali sulla base di criteri assolutamente arbitrari, assegnando loro un determinato spazio all’interno dell’amministrazione coloniale e imponendo nuovi nomi per identificarle (è il caso citato sopra dei Bété della Costa d’Avorio; Amselle 1985: 35).
Queste nuove denominazioni e identificazioni etniche hanno finito poi, con l’essere assunte dagli agenti sociali stessi che, con il tempo, ne hanno fatto un mezzo ideologico di rivendicazione del diritto alla propria autodeterminazione per resistere alle pressioni esterne, in un contesto concorrenziale di lotta per accedere alle varie risorse in gioco (Amselle 1985: 39).
Tutto questo è importante premessa per il caso specifico degli Afar. Vedremo in effetti nel corso di questo capitolo come, all’interno della situazione multietnica etiope-eritrea e in un contesto imperniato su contrasti e rapporti di forza tra le varie popolazioni, si è verificato su vari fronti, questo processo di imposizione del nome e di assegnazione di attributi qualificanti “l’etnia”, frutto di elaborazioni culturali esterne e che, ancora oggi, fa si che essi siano denominati e percepiti in maniere differenti dalle varie popolazioni con cui vengono in contatto e dalle amministrazioni governative.

III.4.) Il nome Afar o Danakil?

L’insieme della popolazione che stiamo esaminando si autodenomina con il nome Afar. Secondo quanto riportato nel testo dell’antropologo francese Didier Morin (1991: 13), questo termine è conosciuto in occidente solo a partire dal XIX secolo, quando viene utilizzato da Léo Reinisch nel libro “Die Afar Sprache” del 1885 ed è entrato nell’uso comune solo negli ultimi decenni. Sempre secondo Morin (1991), da cui traiamo le note che seguono, l’acquisizione di questo nome da parte del popolo Afar sarebbe una diretta conseguenza degli antichi movimenti migratori semitici verso la costa orientale africana. Il termine Afar infatti, rimandarebbe a quello del gruppo geografico Afar, nella parte meridionale dell’Oman nell’Arabia del sud (Morin 1991: 13).
Nei testi di Franchetti (1930: 226) e di Pollera (1935: 248-249) invece, viene riportato un racconto tradizionale sulle origini degli Afar che gli autori sostengono essere di origine abissina, senza citare però, né la fonte di provenienza, né la datazione. Secondo questa tradizione il nome Afar deriverebbe dalla corruzione fonetica del nome biblico Ophir, poiché gli abissini fanno discendere le famiglie sud-arabiche immigrate sulla costa africana, da quelle bibliche e di origine semitica di Ophir e di Hebàl (Genesi, X, 21-29). Cito a questo proposito un passo riportato da Franchetti nel suo testo (1930: 226):
La tradizione abissina precisa poi che le famiglie immigrate ivi (ossia in Dancalia), appartenevano alla discendenza di Ophir e di Hebàl figlio di Iectàn e quindi discendenti di Sem, una parte dei quali salì sugli altopiani etiopici unendosi ai discendenti di Saba loro consanguinei, mentre un’altra parte si soffermò a popolare le zone costiere; gli Ophir sul litorale a Nord del Golfo di Tagiura, gli Hebàl sul litorale a Sud del golfo stesso.”
Sempre seguendo quanto narrato nel “racconto mitico”, queste due famiglie dopo essersi stabilite a nord e a sud del Golfo di Tagiura (nell’attuale Repubblica di Gibuti) sarebbero entrate in contatto con le popolazioni autoctone, mescolandosi ad esse (Franchetti 1930: 226; Pollera 1935: 248). Tuttavia in occidente gli Afar per molto tempo sono stati conosciuti soprattutto con il nome Danakil (Dancali in italiano), termine normalmente usato dagli Arabi per designare questa popolazione. Secondo quanto riportato già da Lewis (1955: 155) e confermato da Morin (1991: 14), il nome Danakil è apparso per la prima volta nel XIII secolo negli scritti (datati 1214-74) del geografo arabo Ibn Said. Si tratta del plurale arabo dell’afar Dankali, nome con il quale si identificava una tribù abitante nell’entroterra di Assab, che era in contatto con i commercianti dell’Arabia del sud che frequentavano le coste africane del Mar Rosso3. Sono stati gli italiani tuttavia (a partire dal periodo coloniale) a diffondere l’uso comune del nome dancali e del termine Dancalia, che deriva da esso e che designa la terra abitata dai Dancali (Morin 1991). In Italia il nome dancali è tuttora molto usato per designare gli Afar. Anche in Francia il nome Danakil è stato in uso, almeno fino al 1967, quando, la “Costa francese dei Somali” è stata trasformata nel “Territorio francese degli Afar e degli Issa”, e il termine Afar è subentrato a quello di Danakil nell’uso comune (Morin 1991). Sempre Morin (1991: 14) riporta altri nominativi con i quali vengono designati gli Afar.
Gli etiopi cristiano-copti ad esempio, li chiamano “Adal”, termine amarico che ha fatto la sua prima comparsa nella cronaca che narra le guerre del Negus Amda Siyon (1314-1344) contro i musulmani dello stato di Awfat e che si basa sul nome di Ada Al, antenato ancestrale dei gruppi che fondarono i sultanati del sud del paese Afar con i quali l’Etiopia cristiana ebbe relazioni bellicose per molti secoli4. 
Questo termine, è tuttora usato dall’amministrazione etiope per designare gli Afar del sud dell’Etiopia, mentre per gli Afar di Eritrea e del Tigré viene usato il nome Danakil (osservazione fatta da Morin 1991: 14). I tigrini a loro volta, li chiamano “Taltàl” che significa “gente dai  capelli irti” per via della folta e riccioluta capigliatura propria degli Afar. Infine i Somali (popolazione affine sotto molti punti di vista agli Afar ma quasi sempre ad essi ostile) per designarli usano il termine “Oda Ali”, che ha un’etimologia popolare derivante da “Oday Ali” “vecchio Ali” o meglio “la gente nata dal vecchio Ali” (Morin 1991: 14).
Queste differenze nella denominazione del popolo Afar quindi, rispecchiano e permettono in certo modo di riconoscere, quelli che sono stati (e che in parte sono tuttora) i rapporti contrastivi e di dominazione vigenti nell’ambito delle relazioni che gli Afar hanno intrattenuto, nel corso della loro storia, con le amministrazioni statali, con quelle coloniali e con i popoli vicini. Il nome usato dagli Afar per autodenominarsi è stato per lo più ignorato e sostituito con altri termini dalle popolazioni e dalle amministrazioni con le quali essi sono venuti in contatto nel corso dei secoli, con lo scopo politico di dequalificare razzialmente l’identità Afar e per poter controllare meglio le varie frazioni di questa popolazione, in un contesto che li vede contrapposti nella gestione e lotta per le risorse.
La rivendicazione di un nome proprio, da parte di un gruppo di individui, infatti, è una sorta di simbolo che serve da segno di riconoscimento, tra gli altri, della propria unità sotto una stessa comunità immaginaria di sangue e di “razza” (vedi Amselle 1985). Quindi il potere di assegnare un certo nome ad un determinato nucleo sociale, è un privare della libertà di autoidentificarsi e di autodenominarsi e perciò è un modo di dequalificare e declassare un simbolo di quell’unità necessaria per affrontare le varie situazioni politiche che si presentano ad una popolazione. Il rapporto di dominio così, risulta decisivo per tramandare una certa visione degli altri che in ultimo risponde sempre a delle intenzioni politiche ben precise.

III.5.) L’etichetta del “tribalismo”

Il potere d’imporre un nome, o altri tratti significanti per l’identificazione di un gruppo, si esplica anche nel caso di quei movimenti “etnici” di ribellione che lottano per la rivendicazione di certi diritti socio-politico ed economici e che vengono etichettati dai governi centrali come “regionalisti” o “tribalisti”, con l’intento di delegittimarne la portata e il significato. Amselle (1985: 40) giustamente osserva che nella realtà africana l’aggettivizzazione di un movimento sociale, anche armato, come “tribalista” o “regionalista”, serve sempre a mascherare dei conflitti di tipo politico-economico. Queste rivolte di carattere locale che hanno per scopo principale la rivendicazione di certi diritti “etnici” sono, molto spesso, fonte di strumentalizzazioni da parte delle forme di potere dominanti che, classificandole come “tribaliste”, le screditano agli occhi di osservatori esterni e allo stesso tempo le inseriscono in una posizione marginale all’interno della propria struttura politica. In Africa l’uso dequalificante dell’etichetta del “tribalismo” da parte dei governi, consiste nella sua assimilazione alla permanenza, in gran parte delle società africane, di una “mentalità tradizionalista” che impedisce l’emancipazione dal sottosviluppo (Amselle 1985: 52). Negli anni sessanta e settanta nel continente africano, con la fine del colonialismo europeo, si è cominciato a sviluppare un certo discorso incentrato sulla promozione delle pratiche economiche necessarie per l’integrazione dei paesi africani nel circuito del mercato mondiale (Amselle 1985: 52). In questo contesto la società modernizzante sull’onda del modello occidentale, è stata contrapposta a quella tradizionalista e il sottosviluppo è stato associato al permanere, nelle varie società africane, di una “mentalità arcaica” legata al rispetto delle pratiche tradizionali e che impedisce qualsiasi tipo di innovazione (Amselle 1985: 52). In questo senso, la “società tradizionale” diviene l’ostacolo principale da rimuovere sulla via che conduce al progresso e il “tribalismo”, che ne è la manifestazione più evidente, la maschera degradante con cui celare contrasti d’interesse politico-economico. In realtà, come dice Amselle (1985: 39) quest’opera di dequalificazione è, non di rado, un forte indice di debolezza da parte del potere governativo, perché serve a nascondere la mancanza di uno stretto controllo su larghi strati di popolazione.
È il caso dei governi di Etiopia, Eritrea e Gibuti che hanno mascherato l’assoluta mancanza di controllo sulle popolazioni nomadi degli Afar, cercando di delegittimare le loro pretese di autonomia, inquadrandole nell’ambito delle rivendicazioni regionaliste di movimenti tribali. Contemporaneamente essi hanno cercato di dequalificare i movimenti di rivolta dei vari gruppi ribelli Afar definendoli come banditi capaci solo di compiere razzie e di minare le basi dei governi centrali con attentati terroristici lungo tutto il territorio (in proposito vedi Dilleyta 1989: 51).
In effetti, nella seconda metà del XX secolo gli Afar si sono ribellati sia alla politica dello stato etiope, sia a quella della Repubblica di Gibuti, volte entrambe a sedentarizzarli e a trasformare le zone più fertili e ricche di vegetazione del loro territorio in distretti agricoli.
Per meglio coordinare la loro resistenza, gli Afar hanno costituito una serie di movimenti armati che rivendicano in maniera violenta la precisa volontà di non permettere il dissolvimento della loro società, già in atto per altro, a causa del flusso sempre maggiore di immigrati verso le città. Questo tipo di rivolta fatta di continui raid e attentati nei confronti di obiettivi economico-sociali e dei simboli del potere governativo, è stata sempre stigmatizzata dalle varie amministrazioni di Etiopia, Eritrea e Gibuti, che l’hanno etichettata come “tribalista” o “regionalista” (vista anche la richiesta di costituzione di una autonoma regione Afar) al fine di dequalificarne la reale portata sociale negandogli ogni legittimità. Contemporaneamente però, si è cercato di portare l’elemento Afar sotto il controllo dei governi centrali. Negli ultimi decenni l’intera popolazione Afar è stata sottoposta ad una forte pressione da parte delle autorità governative che ha spinto molti individui a migrare verso le città. Nella Repubblica di Gibuti, dopo tre anni di conflitto (1991-1994) sono state assecondate le mire politiche dei gruppi di ribellione armata Afar, permettendo loro di partecipare con una propria rappresentanza al governo5. In Etiopia, invece, gli Afar sono tenuti fuori dalla vita politica ma, negli ultimi anni, si è presa in considerazione la possibilità di creare una regione autonoma per loro che funga da raccordo con il fondamentale sbocco sul mare di Assab e che permetta un maggiore controllo su di essi all’interno dell’entità statale. Nella situazione attuale, la creazione di una regione indipendente potrebbe, come abbiamo detto, rappresentare l’unica possibilità di salvezza per gli Afar nell’imminenza di una loro scomparsa come entità sociale e culturale. Nel frattempo gli Afar, di fronte al disorientamento provocato dal lento e progressivo dissolvimento della loro società, tentano di reagire all’assimilazione forzata ripiegando sui tratti simbolici più caratteristici della propria identità, cercando di preservarli nonostante l’irruzione di modelli culturali occidentali.

III.6.) L’identità Afar

Abbiamo visto, seguendo i modelli proposti da Amselle e Fabietti, come la costruzione dell’identità etnica si avvalga di un doppio processo (interno ed esterno) di produzione e assunzione di determinate caratteristiche simbolico-culturali che sono basilari per il riconoscimento dell’appartenenza, da parte di un gruppo di individui, ad una comune unità sociale. Partendo dalla questione della denominazione di un popolo, abbiamo analizzato come il problema del nome non consiste solo in un fatto di scelta autonoma, ma riguarda da vicino quelli che sono gli influssi esterni che derivano da rapporti di forza e di dominazione operanti in un contesto conflittuale e che agiscono sulla definizione e percezione di una certa identità. Continuiamo ora ad individuare e ad esaminare gli altri elementi che costituiscono l’identità Afar, sottolineando ancora come tutti i tratti simbolico-culturali siano rivelatori dei legami e dei contatti stabiliti con differenti società nel corso dei millenni. I segni che definiscono l’identità Afar sono riconoscibili nel nome, come abbiamo già visto, nella lingua, nella memoria, la “storia delle origini”, nel territorio occupato, nella struttura sociale interna e nella tipologia della suddivisione in “tribù”, “clan” e “lignaggi”, nel modo di vita quotidiano e nel modello religioso. La condivisione di tutte queste caratteristiche è la causa e la base sociale dell’esistenza del popolo Afar e della sua differenziazione da altri gruppi.
Iniziamo dalla situazione linguistica traendo informazioni principalmente dal testo di Didier Morin (1991) che fornisce un’analisi abbastanza precisa del linguaggio parlato dagli Afar. Premetto che non essendo un linguista non sono in possesso delle competenze necessarie per compiere una trattazione che sia sufficientemente approfondita. L’unità linguistica Afar è data dal comune uso di una lingua “etnica, regionale”. Si tratta di una lingua parlata e non scritta che viene classificata nel gruppo basso-cuscitico sud orientale insieme a quella di Somali, Oromo, Arbore e Saho (Morin 1991: 3). Con la lingua dei Saho, l’Afar ha una stretta vicinanza strutturale, sia da un punto di vista sintattico che lessicale, mentre differisce in maniera sostanziale da quella degli altri gruppi. Sulla formazione ed evoluzione della lingua degli Afar hanno influito numerosi apporti esterni che hanno provocato una qualche differenziazione linguistica tra i vari segmenti della popolazione.
Ciò è principalmente dovuto ai molteplici spostamenti di gruppi che, nel corso dei secoli, sono migrati alla ricerca di zone migliori o si sono dovuti spostare in seguito alla pressione esercitata da popolazioni più potenti e che li ha portati ad avere contatti e intrattenere rapporti con varie entità sociali. Gli influssi linguistici sulla lingua Afar risultano a volte inattesi, come nel caso di alcune somiglianze con la lingua somala riscontrate nel dialetto parlato nella penisola di Bori, dovute alla presenza in questa zona, di individui somalofoni naufragati, in passato, sulle coste della penisola e con il tempo afarizzati (Morin 1991). In generale comunque, l’Afar risulta suddiviso in due dialetti principali: uno parlato nei territori del nord della Dancalia e l’altro nel sud, separati da una immaginaria linea perpendicolare alla costa che, partendo da Baylul, separa linguisticamente a metà il territorio Afar (vedi cartina in appendice 1). La parlata degli Afar del nord mostra in molti casi più somiglianze con la lingua dei Saho (confine di Nord-Est) che non con quella degli Afar del sud e nonostante ci sia intercomprensione tra i due dialetti, gli apporti e influssi esterni appaiono piuttosto complessi e in gran parte ancora da studiare.
Ma anche le migrazioni interne tra la popolazione Afar stessa hanno apportato modifiche, scambi e influenze da un punto di vista linguistico tra le varie aree della regione. Lo testimonia ad esempio, la maggiore somiglianza del dialetto della penisola di Bori con quello parlato nella zona del Golfo di Tagiura, che non con quello della zona costiera di TiCò geograficamente più vicina (Morin 1991: 4).
Questa vicinanza linguistica si è avuta in seguito allo spostamento del gruppo Afar degli Ankala che, abbandonata la zona di Tagiura, sono migrati a nord fermandosi nella penisola di Bori e influenzandone la parlata. Questi influssi linguistici (culturali in generale) esercitati da gruppi migranti in territori abitati da altri, sono da inscrivere anch’essi in un contesto di rapporti di forza tra le varie popolazioni e quindi nella capacità di instaurare e mantenere un certo dominio nella zona occupata. La migrazione massiccia verso le città degli ultimi decenni provocata dal succedersi di vari elementi tra cui il lungo conflitto per l’indipendenza eritrea, le frequenti carestie e la forte pressione delle popolazioni confinanti, ha portato al depopolamento di ampie zone desertiche dell’interno ma anche di vasti tratti della costa. Le città che accolgono maggiormente il flusso degli immigrati Afar sono Bate, Gibuti e Massawa (è quanto riferisce Morin 1991: 3). Dobbiamo notare che in queste città i linguaggi parlati sono vari e diversi tra loro e per questo motivo gli Afar potranno avere problemi “linguistici”. L’afflusso ormai costante di individui parlanti la lingua Afar in queste città e il depopolamento di larghi tratti del territorio dancalo, potranno inoltre, produrre modifiche sull’organizzazione dialettale-linguistica. Tuttavia come ho già detto precedentemente, noi non abbiamo la competenza per proseguire in questa direzione. Ciò che possiamo sostenere è che la lingua, così come abbiamo già detto riguardo il nome, richiede un complesso discorso che mostra, dietro la facciata della sua unità originaria, un contesto fortemente sincretico di formazione e di continua riformulazione del segno in questione.
Il vincolo della lingua non è il solo modulo identificante.
Importante è anche il sistema di organizzazione “riproduttiva” del gruppo. Tutti gli studi a mia disposizione presentano la società Afar suddivisa in “tribù”, “clan” e “lignaggi” con un particolare accento posto sui sistemi di parentela che rimangono di fondamentale importanza per stabilire l’appartenenza e l’affiliazione politico-sociale degli individui e dei gruppi. Dal punto di vista della struttura politico-sociale, gli Afar sono una società segmentata e non riconoscono alcun potere o governo centralizzato e mantengono un forte grado d’indipendenza e individualismo (Lewis 1955).
I vari gruppi sociali in cui si dividono gli Afar, reclamano, ognuno, una derivazione per discendenza patrilineare da un antenato comune e si riconoscono con nomi che spesso sono dei “gridi” di guerra.6
È ciò che sostiene Morin (1991: 117 - nota 9):
“…le groupe social, kedò en afar du sud, kidò en afar du nord se réclamant par patrilinéarité d’un ancetre commun et caractérisé par un nom qui est aussi souvent son cri de guerre (itrò)7.
E ancora (1991: 46): “Le nom de la fraction ainée des Galcela, casurré, a fourni son cri de guerre (itrò) à la tribu8”.
Tuttavia Morin (1991: 47) ritiene che queste genealogie riconosciute dai vari gruppi Afar e tramandate nelle loro tradizioni orali, rappresentano forme estremamente semplificate di un’evoluzione e di una stratificazione sociale molto più complessa e flessibile.
Nel corso della loro storia, alcuni gruppi Afar si sono organizzati, rinunciando a rivendicazioni di specifiche identità genealogiche, in domini territoriali riuniti sotto il comando di un sultanato. Nonostante l’esistenza di queste suddivisioni l’insieme della popolazione Afar nel rivendicare i “suoi” diritti, agisce come un’unità culturale. Tuttavia è importante specificare che i concetti di “tribù”, “clan” e “lignaggio”, così come quelli di “etnia” e persino “cultura”, sono dei concetti in crisi che rivelano la loro natura etnocentrica, fittizia e ideologica (vedi Amselle 1985 e Fabietti 1995). L’ambiguità dell’uso di termini come questi, nel nostro caso, sta nel fatto che essi rimandano ad un’immagine dell’Africa pre-coloniale stereotipata e immutabile, come suddivisa in isolati incomunicanti e inalterati dal tempo e dalla storia (Amselle 1985; Fabietti 1995). L’uso che è stato fatto di queste nozioni ha portato a percepire la realtà sociale africana come segmentata e frammentata e occorre quindi decostruirne il contenuto per rilevarne il carattere fittizio. Per ricostruirla dobbiamo tener conto di molti dati che la determinano e la ostacolano. Prima di tutto la percezione dell’Africa “tribale”. Questa percezione, lo abbiamo già detto, si basa in parte sulla territorializzazione del continente africano operata dalle potenze europee durante il periodo coloniale e sui numerosi resoconti etnografici di etnologi, viaggiatori ed esploratori, spesso al servizio delle amministrazioni coloniali stesse. 
Essi hanno trasmesso una realtà africana fatta da una miriade di “etnie”, per la maggior parte costruite appositamente con lo scopo “politico” di evitare l’eventualità di una loro unione contro il dominio coloniale (Fabietti 1995: 31-32; Amselle 1985: 38). Tuttavia come sostiene Fabietti (1995: 30) la tribalizzazione dell’Africa va anche vista alla luce del nazionalismo del XIX secolo, a seguito del quale la realtà africana è stata interpretata sulla base dell’idea di nazione europea. Il termine “tribù”, così come quello di “etnia”, rimanda ad un idioma scelto per poter organizzare un discorso antropologico, al fine di evidenziare un tipo d’organizzazione di società strutturate in maniera differente dagli stati a potere centrale (su questo punto vedi Fabietti 1995: 61).

III.7.) L’“idea tribale Afar”

La società degli Afar in tutti i vari gruppi si presenta organizzata sulla opposizione di due “classi” principali: cAdohyammàra e cAsahyammàra9, conosciute anche come “Uomini Bianchi” e “Uomini Rossi”. Questa notizia viene riportata da vari autori a partire da Dante Odorizzi (1909: 30-33) e Franchetti (1930: 226) per giungere a Lewis (1955: 155) e infine a Morin (1991: 36).
Tutti sembrano basarsi su una realtà verificata sul campo. Iniziamo dall’ipotesi fornita da Odorizzi. Secondo la sua teoria l’origine della suddivisione tra cAsahyammàra e cAdohyammàra andrebbe fatta risalire all’antica migrazione araba sul territorio etiope.
La distinzione viene spiegata da Odorizzi in maniera piuttosto confusa e approssimativa. Essa sarebbe riconducibile ad una differenziazione di tipo razziale che riguarderebbe il colore della carnagione (torneremo dopo su questo elemento). Il fatto più interessante su cui si sofferma Odorizzi è l’analisi delle cause che avrebbero portato secondo lui al costituirsi delle due classi sulla base di un rapporto di dominazione degli cAsahyammàra sugli cAdohyammàra. Egli sostiene che gli cAsahyammàra o uomini rossi, inizialmente erano dislocati sugli altopiani etiopi e si sarebbero riversati nella depressione dancala, abitata dai gruppi Afar cAdohyammàra o uomini bianchi, soltanto durante le guerre religiose del XVI secolo, dietro forte pressione dello stato abissino che tentava di reagire al tentativo di conquista dell’Imamato di Adal. In seguito a questa invasione del terrotorio dancalo essi avrebbero costituito una sorta di “predominio di classe” sugli cAdohyammàra. Citiamo un passo tratto dal testo di Odorizzi (1909: 33) in cui egli ricostruisce gli eventi che avrebbero portato alla sovrapposizione dei due gruppi e alla formazione del rapporto di dominazione:
Gli Assaimarà, tribù gia musulmane e già da lunga pezza scese dall’altipiano e viventi sugli speroni orientali di esso fra i bacini dell’Auasc’ e del Gualima, furono spinti innanzi dai governatori etiopici e col loro appoggio dominarono in Dancalia dove assunsero ben presto il linguaggio e gli istituti sociali degli Adoimarà: in una parola, da gente etiopica di provenienza scioana, si mutarono in una nobiltà dancala. Ciò avvenne nel secolo decimosesto dopo la caduta dell’imamato di Adel o di Zeila detto da alcuni Regno di Adel.”
E ancora (1909: 35): “Fu per tale processo che gli uomini rossi assunsero dominio e direzione sugli uomini bianchi non senza che continuassero a sussistere però tanto al sud che al nord della Dancalia, grossi nuclei Adoiamara ancora potenti e autonomi…”
Il rapporto di dominio non sarebbe quindi assoluto, vista la presenza di gruppi indipendenti cAdohyammàra sparsi nel territorio dancalo. Anzi, secondo quanto dice Odorizzi con il tempo avrebbe assunto soltanto una funzione rappresentativa:
“…La funzione della nobiltà Assaimara fu ridotta ad una mera attività rappresentativa presso l’Anfari (capo del Sultanato di Aussa) dapprima, poi presso i governi sia dell’altipiano che della costa…rimase tuttavia la distinzione fra Assaimara e Adoimara come la designazione di una distinzione fra nobili e plebei ed anche oggi il dirsi dei primi è argomento di orgoglio, il confessarsi dei secondi è segno di origine non pura o ritenuta meno nobile…” (Odorizzi 1909: 36).
Come abbiamo già riferito in precedenza esistono anche delle tradizioni abissine scritte sulle origini degli Afar e della loro divisione in “Bianchi” e “Rossi”. Queste tradizioni sono state tramandate dagli Abissini a partire dall’epoca medievale, ma la loro datazione e origine restano oscure e non sono specificate in nessuna delle fonti a mia disposizione. L’esploratore Raimondo Franchetti (1930: 226) riporta una versione di questa tradizione abissina nella sua relazione di viaggio. Non si tratta però di una trascrizione fedele ma di una sua personale rielaborazione fatta sulla base della versione che si presume fosse in suo possesso. Essa pertanto contiene dati tratti dall’ignota tradizione di origine abissina e sue personali ipotesi volte a chiarire le vicende che hanno portato alla suddivisione degli Afar nelle due classi di cAdohyammàra e cAsahyammàra. Stando a quanto da lui riportato i “Rossi” costituirebbero una sorta di nobiltà tra gli Afar, come già per Odorizzi. A conforto di questa interpretazione egli sostiene che quando un capo di una “tribù” cAdohyammàra incontra un giovane cAsahyammàra, deve inchinarsi e baciargli la mano in segno di reverenza e di sottomissione (Franchetti 1930: 224).
Il racconto, nella versione riportata da Franchetti, fa derivare la suddivisione della società Afar nei due gruppi sopradetti dall’immigrazione sulla costa africana del Mar Rosso, di famiglie semitiche discendenti da quelle bibliche di Ophir ed Hebal, figli di Iectan e quindi pronipoti di Sem (Genesi X, 21-29). Sempre secondo questa tradizione, i gruppi discendenti dalle famiglie di Ophir e di Hebal, si stabilirono rispettivamente nelle zone costiere a nord e a sud del Golfo di Tagiura (nell’attuale Repubblica di Gibuti).
Sulla base di questo fatto Franchetti (1930: 226) suggerisce l’ipotesi piuttosto azzardata sull’origine del nome Afar facendolo derivare dalla corruzione fonetica del termine Ophir.
Continuiamo ora ad analizzare il racconto mito-storico citando un passo riportato da Franchetti (1930: 227):
“…In seguito, e cioè quando gli Afar si erano moltiplicati e avevano occupata tutta la vasta zona del basso piano dancalo, le immigrazioni dalla penisola arabica si rinnovarono a distanza di tempo e per piccoli nuclei che rimasero assorbiti dalla massa maggiore e ne accettarono i contenuti e la lingua ormai differenziatisi. Tutta questa gente dovette essere in origine di carnagione bianca, come bianca era la gente araba e quella dell’antico Egitto e come bianchi si dicono ancora oggi gli arabi iemeniti, sebbene il colore della loro carnagione non risponda più esattamente a quella enunciazione; e perciò anche gli Afar discendenti dallo stesso ceppo, sebbene divenuti di colorito scuro, vollero conservare la tradizione di questa provenienza e della loro razza coll’appellarsi Ado Iammara ossia uomini bianchi. I quali probabilmente trovarono già in posto popolazioni di razza camitica che forse in un primo periodo fu loro soggetta e colla quale dovettero fondersi quando furono a loro volta soggiogati dagli Assa Iammara o uomini rossi…”.
Secondo quanto detto in questa parte del testo, gli Afar cAdohyammàra sarebbero derivati da una progressiva migrazione proveniente dal sud dell’Arabia che si sarebbe andata ad aggiungere al nucleo iniziale rappresentato dalla famiglia semitica di Ophir.
Per quanto riguarda l’appellativo di “Uomini Bianchi” possiamo vedere che esso non risponde ancora ad una differenziazione sociale precisa nei confronti di altri gruppi. Esso è soltanto il segno di una connotazione razziale legata al colore chiaro della carnagione dei primi immigrati. L’appellativo sarebbe quindi volto a conservare nel nome il ricordo di una provenienza originaria sud-arabica.
Passiamo ora a vedere cosa riferisce il racconto mitico sui gruppi che discendevano dalla famiglia di Hebal e che si erano stanziati a sud di Tagiura. Citiamo ancora un passo tratto dalla nostra fonte di riferimento (Franchetti 1930: 227):
Questo gruppo o razza che si chiamò dal suo progenitore, degli Heblei dovette subire le stesse vicende degli Afar stabilitisi più a nord; ossia le immigrazioni di successive stirpi dalla opposta riva del Golfo di Aden e dal Golfo Persico…Gli Heblei vennero perciò in gran parte assorbiti da queste nuove immigrazioni ed i superstiti costretti nei pressi di Tagiura e sulla destra del fiume Auàsc dovettero necessariamente riversarsi in parte in quei territori che in passato, di comune accordo, erano stati rilasciati ai discendenti di Ophir. In tale periodo questa stirpe dell’Auàsc dovette venire a contatto colle popolazioni abissine delle pendici dell’altipiano, colle quali non dovette mancare qualche ragione di incrocio, in modo da produrre fra Heblei ed Afar una qualche differenza e tale da giustificare l’appellativo di Assa Iammara o uomini rossi attribuito ai primi.”
Da questo passo si evince che in seguito agli spostamenti migratori di alcune popolazioni, i gruppi che discendevano dalla stirpe degli Heblei sarebbero stati spinti verso nord nelle terre occupate dagli Afar cAdohyammàra. Nello stesso tempo gli Heblei che erano stanziati ad ovest del fiume Awash cominciano a mescolarsi con le popolazioni abissine dell’altopiano procurando una differenziazione razziale rispetto agli Afar del nord. In base a quanto sostiene Franchetti, questo mescolamento di razze comporterebbe una modifica del colore della carnagione. Questo fatto giustificherebbe l’appellativo di cAsahyammàra o “uomini rossi” attribuito alla stirpe degli Heblei. Ritorna anche qui perciò la componente razziale legata al colore della carnagione come già per l’altro gruppo stanziato a nord di Tagiura. Proseguendo ancora nell’analisi del racconto vediamo come gli appellativi di cAsahyammàra o “uomini rossi” e di cAdohyammàra o “uomini bianchi” siano legati ad un modello di organizzazione sociale specifico che riguarda anche il possesso del territorio. Trascriviamo un altro passo riportato da Franchetti (1930: 232-233):
“…Ora gli Afar che si chiamavano Ado Iammara, ossia uomini bianchi, non potevano chiamare neri i loro fratelli discendenti di Hebàl, perché tale appellativo li avrebbe confusi coi camitici che ambedue avevano assoggettato e assorbito e perciò li chiamavano Assa Iammara, ossia uomini rossi, rimanendo, in queste due enunciazioni, implicita la testimonianza di una comune origine dalla quale questi due rami erano derivati, giacchè, in caso contrario, sarebbe stato sufficiente indicare ciascuna stirpe col nome derivato dal capostipite. Ciò tuttavia, non potevano ammettere gli Afar, perché accettando nel loro territorio gli Heblei col loro nome, questi avrebbero potuto in seguito richiedere una ripartizione di terre che più loro non spettava in forza della primitiva assegnazione, anche se per forza di eventi gli Heblei avevano perduto la propria; e perciò imposero verosimilmente come condizione, che essi si chiamassero Afar, conservando la tradizione della separazione coll’appellativo di rossi…”
Secondo quanto riferito da Franchetti, furono dunque gli Afar cAdohyammàra ad assegnare agli Heblei l’appellativo di cAsahyammàra o uomini rossi e ciò al fine di distinguerli sia dai camitici, sia da se stessi per via delle differenziazioni razziali che si erano verificate nel corso dei secoli. Da questo passo però, si può ricavare anche un altro dato importante. In base a quanto riportato nel testo, l’assegnazione di questo appellativo nasconderebbe anche un contrasto riguardo la ripartizione delle terre. Infatti, gli Afar cAdohyammàra avrebbero imposto agli Heblei di assumere anch’essi il nome Afar, mantenendo però la loro originaria separazione con l’appellativo di “cAsahyammàra”, al fine di evitare che essi potessero rivendicare una suddivisione del territorio in base alle antiche assegnazioni, visto che avevano perso la propria parte di terra.
In questo senso sembrerebbe che la posizione dominante tra le due parti sia in un primo momento rivestita dai “Bianchi” e si esplicherebbe nel potere di assegnare un nome all’altro gruppo.
Il rapporto di dominazione che si instaurerà tra gli Afar in seguito, facendo degli cAsahyammàra “rossi” la parte nobile dell’intera popolazione Afar capovolgerà, secondo Franchetti, queste posizioni iniziali stabilite dopo le prime migrazioni che hanno portato gli Heblei nei territori appartenenti agli cAdohyammàra. Seguiamo ancora quello che dice Franchetti (1930: 233):
“…Quando poi il regno di Adal si avviò verso la sua maggiore potenza, in virtù del fanatismo musulmano di cui gli Iman di Zeila si fecero banditori per condurre guerra all’Impero Etiopico, ne derivò un movimento generale di genti somale dal sud al nord, movimento che spinse definitivamente nella stessa direzione anche gli Heblei, ossia gli Assa Iammara, i quali per il prestigio delle armi vittoriose degli Iman di Zeila, ai quali avevano dato origine, e dai quali dipendevano, non solo occuparono il territorio dei loro antichi fratelli Afar, ma ne divennero la nobiltà dominatrice…”
Secondo Franchetti quindi, l’evento che ha condotto all’instaurazione del dominio degli cAsahyammàra “Rossi” sugli cAdohyammàra “Bianchi” fu la dirompente avanzata delle armate musulmane guidate da Ahmad Gran, il “mancino”, nel corso delle guerre religiose del XVI secolo che, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, portò il Regno di Adal (che comprendeva gli attuali territori di Gibuti e Harar) ad una grande espansione verso nord con la conquista di numerosi territori del regno cristiano etiope fino all’intervento dei Portoghesi che ne fermò l’avanzata. Secondo le ipotesi formulate da Franchetti sulla base del racconto tradizionale abissino da lui riportato, la “nobiltà” degli Afar cAsahyammàra “Rossi” risalirebbe quindi al XVI secolo e deriverebbe dal prestigio loro conferito dal fatto di essersi diffuse definitivamente sul territorio occupato dagli cAdohyammàra “Bianchi” in veste di conquistatori in seguito all’avanzata vittoriosa degli eserciti musulmani guidati da Ahmad Gran. Vi è già quindi una rilevante differenza rispetto l’ipotesi di Odorizzi. Odorizzi infatti nel suo testo riferisce che gli cAsahyammàra si erano riversati sul territorio degli cAdohyammàra a causa della spinta dei governanti dell’impero abissino e che ciò sarebbe avvenuto dopo la caduta del Regno d’Adal. Entrambi comunque concordano nell’ipotizzare un’origine araba degli Afar, per discendenza dall’immigrazione di gruppi provenienti dal sud dell’Arabia e nel sostenere che gli cAsahyammàra “Rossi” rappresentino la fazione nobile dell’intera società Afar.

III.8.) La versione “mitica”

Per poter stabilire attraverso le fonti a nostra disposizione, una plausibile ricostruzione dell’origine del modello d’organizzazione sociale binario fra gli Afar (e che sembra avere un certo rilievo anche per i loro moduli d’identificazione), è di grande importanza anche un racconto mitico10 che troviamo menzionato in varie fonti tra quelle in nostro possesso. Si tratta di un mito di fondazione che occorre prendere in considerazione secondo alcune varianti.
Le versioni in nostro possesso sono quelle riportate da Marcel Chailley (1980: 15), da Dante Odorizzi (1909: 39-40), (dalla quale deriva quella che troviamo in Franchetti - 1930: 253) e da Didier Morin (1991: 38). In tutte le versioni l’elemento in comune è rappresentato dal far risalire l’origine dei lignaggi cAsahyammàra ad un progenitore proveniente dal sud dell’Arabia. Richiamandosi a questo mitico antenato i vari lignaggi acquisiscono notevole prestigio legittimando la propria posizione privilegiata rispetto ad altri gruppi Afar. Iniziamo con la versione di Chailley che è la più ricca di notizie e la più completa tra quelle da noi analizzate. Chailley (1980: 17) dice di aver appreso questo racconto mitico personalmente da Hadji ‘Ali, vizir del Goba’ad nel corso dei suoi viaggi nella regione di Gibuti e Tagiura effettuati dal 1935 al 1937. Riassumiamo brevemente il racconto da lui fornito. Secondo questa versione un uomo proveniente dallo Yemen di nome Hadalmahis (che significa “colui che al mattino è sopra un albero”) si recò (in un tempo indeterminato) a We’ima nella zona di Tagiura (attuale Repubblica di Gibuti). Salito sopra un albero che si trovava vicino ad un pozzo per esaminare il paese, Hadalmahis venne visto riflesso nell’acqua del pozzo da uno schiavo di Ali Ablis (capo della “tribù” degli Ablé Adohyammara della zona di Tagiura) che vi si era recato per farne scorta. Questo, credendolo un ginn11 in agguato nei pressi del pozzo, scappò verso il villaggio per avvertire il capo. Questi recatosi ai piedi dell’albero con tutti i suoi guerrieri e resosi conto che non si trattava di un demone, ma di un uomo rivestito con sontuosi abiti di seta, gli intimò di scendere a terra. Al che Hadalmahis rispose che sarebbe sceso solo a condizione che fossero stati deposti ai suoi piedi due pelli di bue, una rossa e una bianca (allusione alla divisione in “Rossi” e “Bianchi”). Ciò fu fatto e Hadalmahis venne portato all’accampamento dove operò vari miracoli, in seguito ai quali fu eletto dardar (sultano) del villaggio e gli fu donata una donna in sposa. Da questo matrimonio nacquero quattro figli dai quali scaturiranno quattro potenti lignaggi cAsahyammàra: i Modayto (nella regione dell’Aussa), gli Adali (nella zona di Tagiura), i Dambohoyta (Massaua-Assab) e gli Ulu’to.
Nelle versioni di Odorizzi e Franchetti vi sono alcune varianti.
Vediamo la versione di Odorizzi (1909: 39-40):
“…Raccontano che un uomo dello Iemen (Iemàni) sbarcò a Dammahò presso Tagiurra dove già dominavano col nome collettivo di Afar i discendenti degli Hablè e degli Ancala giunti essi pure qualche generazione prima dallo Iemen e fusisi con gli Hedarem. Dall’unione dell’uomo dello Iemen con una donna Afar nacque Har-el-mass fuggito da Dammaho a Mabla (a sud di Assab) dopo che suo padre fu ucciso dal suocero. Aiutato dagli Hedarem, Har-el-mass divenne forte, guerreggiò con gli Ancala e li vinse cacciandoli innanzi a se fino a Buri (nord della Dancalia) e impadronendosi di tutto il litorale.”
Odorizzi analizza il racconto mitico alla luce delle sue ipotesi sui movimenti migratori che portarono i gruppi Afar cAsahyammàra a diffondersi come “classe” dominante da sud verso il nord della Dancalia. Nel racconto riportato da Franchetti (1930: 232) non vi sono consistenti variazioni:
“…un uomo dello Iemen (Iemàni) sbarcò a Dammahò presso Tagiura dove dominavano gli Heblei. Dall’unione di quest’uomo con una donna Heblei sarabbe nato Har-el-mass, che crebbe in potenza e fortuna sottomettendo le popolazioni colle quali venne a contrasto. La sua discendenza prese il nome di Damoheita, da Dammahò loro culla e tanto divenne potente da assoggettare al suo dominio tutte le stirpi Ado Iammara della Dancalia Meridionale, gran parte di quelle stabilite nella centrale, riuscendo a spingere qualche tentacolo perfino nella Dancalia settentrionale, ove però gli Ado Iammara riuscirono a mantenersi per la maggior parte indipendenti, specialmente ad opera dei Dahimela che seppero raggruppare intorno a loro tutti gli altri gruppi etnici affini.”
Nelle versioni fornite da Odorizzi e Franchetti vi sono dunque alcune variazioni rispetto a quella fornita da Chailley. Prima di tutto essi riferiscono che il mito appartiene alle tradizioni orali della “tribù” cAsahyammàra dei Damoheita. In esse non compare il nome di Hadalmahis ma si fa riferimento semplicemente ad un uomo proveniente dallo Yemen. Appare invece come figura preminente nel mito il figlio (Har-el-mass) nato dall’unione di questo uomo venuto dal sud dell’Arabia con una donna Afar.
L’analisi delle tradizioni abissine e del racconto mitico riportate dalle nostre fonti di riferimento per spiegare l’origine della divisione fra cAsahyammàra “nobili” e cAdohyammàra “comuni” trova un efficace compendio nel testo di Didier Morin (1991: 36-38). Egli utilizza le nostre stesse fonti di riferimento sottoponendole ad un tipo di analisi storico-positivista12. Il suo intento è quello di dimostrare l’infondatezza delle ipotesi in esse riportate fornendo un’interpretazione differente e forse più attendibile, supportandola da riscontri e ricerche effettuate sul campo. Le questioni al centro della sua attenzione sono l’origine e il significato della suddivisione fra cAsahyammàra e cAdohyammàra e la collocazione temporale dell’episodio di Hadalmahis che sarebbe all’origine dei lignaggi cAsahyammàra e quindi in stretta relazione con il primo punto. Secondo la sua opinione la divisione in “bianchi” e “rossi” va considerata in un’ottica diversa rispetto alle spiegazioni fornite dagli altri studiosi. Morin (1991: 38) per prima cosa cerca di dimostrare che tutte le ipotesi formulate dagli studiosi a proposito di questo bipolarismo sociale Afar non hanno fondamento storico e possono essere smentite dai fatti che egli ha riscontrato durante la sua ricerca sul campo. Egli inizia contraddicendo la teoria formulata da Odorizzi e ripresa anche da Franchetti, come abbiamo visto, che farebbe degli cAsahyammàra una fazione nobiliare all’interno della società Afar e degli cAdohyammàra la parte comune e sottomessa.
Forniamo di seguito la traduzione di un passo tratto dal suo testo (1991: 38) che fa riferimento proprio a questo punto:
Le partage fait par Odorizzi entre Rouges nobles et Blancs routiers, repris encore récemment par Lewis, est contredit par l’existence des sultanats “blancs” de Tadjourah et Raheita, dont les titulaires remontent au même “Hadalmahis”, dont se réclament aussi les Rouges “nobes” de l’Awsa (les Modaytò). En outre, si ceux-ci fournissent traditionnellement les chefs de l’Awsa, il n’en est pas de même partout: les Modaytò ont des contribules restés dans les massif de Mablà, au nord-ouest d’Obock, et passés sous le commandement des Basomà (cadohyammàra)13.”
Morin fornisce indicazioni per dimostrare che il contenuto originario del bipolarismo esistente in seno alla società Afar non è riconducibile ad un rapporto tra “nobili” e “comuni” (tanto più che secondo il suo punto di vista il concetto di “nobiltà” non appare adeguato riferendosi alla società Afar). Nello stesso tempo egli smentisce la teoria fornita da Franchetti secondo la quale il progenitore arabo “Hadalmahis” sarebbe all’origine dei lignaggi cAsahyammàra. A dimostrazione di ciò Morin porta l’esempio di lignaggi cAdohyammàra che reclamano una discendenza dallo stesso Hadalmahis progenitore dei lignaggi “nobili” “Rossi”. È il caso delle “tribù” cAdohyammàra che storicamente hanno avuto il dominio dei sultanati di Tagiura e Raheita (attuale Repubblica di Gibuti). Secondo Didier Morin il “mito-storia” di Hadalmahis non può essere assunto come originario per la divisione binaria. Egli cerca di dimostrare quanto dice facendo un calcolo sulla base della genealogia del suo informatore Hàmad-Lacdé appartenente alla frazione della tribù Debné chiamata Harkà-m melà Arbahintò che forniva i sultani del Godacàd destituiti dai francesi nel 1931 e che fa risalire la propria fondazione ad Hadalmahis. A questo proposito citiamo Morin (1991: 39):
“…l’épisode de Hadalmahis, que l’on peut situer vers la fin du XIVème siècle (19 génération à partir de Hàmad-Lacdé x 30 ans = 570 ans (circa); 1950 – 570 = 1380).”
Sulla base di questo calcolo genealogico egli giunge alla conclusione che il fatto raccontato nel mito sarebbe situabile verso la fine del XIV secolo e più precisamente all’incirca verso il 1380. Di seguito egli fornisce una ricostruzione della storia di alcune tra le più importanti popolazioni Afar e precisamente gli Haràlla, i Modayto, i Debné, i Galcèla, i Takcìl e gli Adcàli tutti coinvolti nei complessi movimenti migratori e nelle lotte che hanno fatto da sfondo al popolamento della regione dell’Aussa. La sua ricostruzione storica si basa su racconti orali raccolti durante la sua permanenza in Dancalia, che in parte gli sono stati comunicati dal già menzionato Hàmad-Làcdé e su alcuni dati storici raccolti da varie fonti14. L’idea di Morin è che la questione del popolamento dell’Aussa riguarderebbe da vicino la costituzione originaria della divisione Afar fra cAsahyammàra e cAdohyammàra. Rimandiamo al testo di Morin (1991: 39-49) per un analisi approfondita della sua ricostruzione delle vicende storiche riguardanti le popolazioni Afar sopra citate e cerchiamo di stabilire la validità della sua ipotesi. Secondo i calcoli fatti da Morin (1991: 38) basati sul conto delle generazioni, sui dati storici a sua disposizione e sulle testimonianze apportate dalle fonti orali da lui raccolte, la divisione degli Afar nelle due “classi” cAsahyammàra “rossi” e cAdohyammàra “bianchi”, risalirebbe alla fine del XVII o agli inizi del XVIII secolo. 
L’opposizione di colori rispecchierebbe la contrapposizione in certo senso “politica” dei vari gruppi Afar in lotta per la conquista delle fertili terre attorno al basso corso del fiume Awash, iniziata verso la fine del XVII secolo. Citiamo un passo di Morin (1991: 38) a proposito delle cause che secondo lui avrebbero portato alla suddivisione fra “bianchi” e “rossi”:
La division entre cAdohyammàra et cAsahyammàra existe, elle, dans l’ensemble du monde afar, meme si le contenu de cette opposition est perdu. Selon nous…ce “bipartisme” n’est ni territorial, ni social, ni lié à une parenté réelle ou supposée. Il est d’abord politique, né du grand mouvement migratoire vers la pluie et le paturage qui a du commencer, si l’on s’en tient au compte des générations, au début du XVIIIème ou à la fin du XVII siècle, pour le controle de la vallée de l’Awash. Ceci, donc, bien après l’épisode de “Hadalmahis” que l’on peut situer vers la fin du XIVème siècle…”15
Nel corso della sua trattazione Morin (1991: 45) sostiene che la difficoltà di risalire alle reali origini della suddivisione tra Asahyammara e Adohyammara, starebbe nel fatto che i motivi reali alla base di questa spaccatura nella società Afar, hanno perso la loro ragione d’essere e quindi possono essere stati in qualche modo dimenticati o occultati. Tanto più che dai dati storici in suo possesso risulterebbe che dalla fine del XVIII secolo e fino al 1975, un’unica frazione tribale Afar (quella dei Modaytò) avrebbe esercitato un dominio ininterrotto sui territori dell’Aussa (Morin 1991: 45).
Alla luce dei fatti e delle ipotesi analizzate, la teoria di Morin sembra la più attendibile ma dobbiamo concludere che non è facile chiarire su basi storiche l’origine del bipolarismo Afar. Va considerato che il popolamento dell’Aussa, ma allo stesso modo anche di altre zone della Dancalia, è stato un fenomeno complesso, discontinuo ed eterogeneo. Morin (1991: 49) riferisce che nel corso dei secoli, il territorio Afar ha fatto da sfondo all’intrecciarsi di reti flessibili di alleanze strategiche a scopo difensivo e di relazioni di parentela tra i vari gruppi, spesso in seguito ai contrasti che si verificavano tra le popolazioni durante i loro spostamenti alla ricerca di migliori terre per i pascoli. La maggior parte dei gruppi “tribali” Afar non possono perciò essere considerati come omogenei e sempre uguali a se stessi, essendo coinvolti in un ciclo di continue ricostituzioni e cambiamenti. Sempre Morin (1991: 39-49) sostiene che molte cause (tra cui ad esempio carestie, vendette di sangue, razzie, alleanze matrimoniali o strategiche in seguito a pressioni di gruppi più forti, denatalità, spostamenti) hanno contribuito alla dispersione di interi gruppi sul territorio, gruppi che spesso finivano con l’essere inglobati tra gli Adohyammara o tra gli Asahyammara, a seconda di quale era la fazione dominante in un certo luogo16 (Morin 1991). Anche l’antropologo inglese J. Lewis (1955: 156) parlando degli Afar si è soffermato brevemente sulla questione del loro bipolarismo. Secondo Lewis, la realtà della suddivisione non è in discussione, essa esiste tuttora, ma le due fazioni non sono sempre territorialmente separate e i maggiori gruppi tribali comprendono un misto di entrambi.
La situazione non è totalmente paritaria. In genere i gruppi Adohyammara che vivono tra gli Asahyammara sono soggetti al pagamento di una tassa. Vi sono tuttavia molte “tribù” Adohyammara autonome o che tendono a liberarsi da  tale onere e  ad acquisire uno status indipendente. Alla luce di questi fatti e sulla base delle notizie riferite da Morin, possiamo dire che la binarietà esiste ma non è cogente.
Per quanto riguarda le presunte origini arabe rivendicate dagli Afar, abbiamo già detto che questo è un fenomento molto diffuso tra le popolazioni musulmane del Corno d’Africa e successivo all’islamizzazione ad opera degli immigrati arabi fin dai primi secoli dopo l’Egira. È cio che sostiene Lewis (1955: 156):
With the spread of Islam, a further complication has been introduced by the practice of tribes ascribing origin to Arabia17.”
Nel caso degli Afar (ma anche dei Somali. Vedi in proposito Lewis 1983), questa “nobilitazione” delle proprie genealogie, va considerata anche alla luce del grande “fervore religioso” che accompagnò le guerre condotte dallo Stato musulmano di Adal contro il regno cristiano abissino nel XVI secolo. Queste guerre hanno avuto anche un ruolo decisivo da non sottovalutare nello specifico nel consolidamento della religione islamica tra le popolazioni Afar e hanno influito fortemente sul processo di costruzione della loro identità etnica.

III.9.) I sultanati nel territorio Afar

Alla costruzione dell’ “identità etnica Afar” hanno contribuito anche i sultanati stabiliti sul loro territorio. Nel corso della sua storia, la società Afar è passata da una strutturazione fortemente segmentata e senza alcuna forma statale centralizzata, ad una organizzazione territoriale, forzatamente “tribale”, più agglomerante dovuta proprio alla costituzione di sultanati musulmani sul suo territorio. Nel Corno d’Africa, i primi sultanati sono stati creati dagli arabi durante i secoli VIII e IX in seguito allo sviluppo sempre maggiore della loro penetrazione economica lungo la costa e nelle zone interne (Cuoq 1981). Essi sono sorti come risposta all’esigenza di controllare e proteggere dalle frequenti razzie compiute dalle varie tribù nomadi, i traffici di merci e di schiavi che hanno legato per secoli il Sud-Arabia e la costa africana del Mar Rosso (Cuoq 1981). 
Come sostiene lo storico francese Joseph Cuoq (1981: 52) oltre che rappresentare punti di fondamentale importanza per poter avere una migliore gestione e controllo dei rapporti di tipo economico, questi sultanati hanno costituito la base della penetrazione religiosa araba nel Corno d’Africa. I luoghi di maggiore concentrazione delle famiglie provenienti dal sud dell’Arabia, sono stati l’arcipelago delle isole Dahlak, sulla costa settentrionale della Dancalia di fronte alla zona di Massaua, l’isola di Zeila, nel Golfo di Aden e Maqdishu, sulla costa dell’attuale Somalia (Cuoq 1981: 39). Partendo da questi centri islamizzati, i musulmani hanno costituito i primi sultanati e hanno dato il via alla loro penetrazione commerciale e politica e alla diffusione della religione islamica nei territori del Corno d’Africa.
È da notare che Cuoq (1981: 74) fa menzione di un ruolo attivo degli Afar nella diffusione dell’Islam a Zeila, che fino al X secolo era un porto cristiano frequentato da musulmani, già nei secoli X e XI.
Ciò presuppone che la conversione all’Islam degli Afar di questa zona sia avvenuta già da qualche tempo. Purtroppo le fonti a mia disposizione non sono esaurienti su questo punto limitandosi ad indicare che l’islamizzazione degli Afar e di altri popoli nomadi del Corno d’Africa è avvenuta “molto presto”. Sulla base delle note storiche fornite da Cuoq (1981) riguardo l’espansione musulmana in Etiopia possiamo stabilire con approssimazione che probabilmente gli Afar delle zone costiere hanno iniziato a convertirsi all’Islam a partire dal secolo IX. A questo proposito è importante la notizia riportata da Cuoq (1981: 81) riguardante l’attestazione dell’esistenza verso la fine del IX secolo di un reame musulmano nella parte a nord-est dello Shoa proprio ai piedi dell’altopiano abissino. Egli sostiene che questo regno fosse in buone relazioni con i cristiani dello Shoa. Ciò d'altronde era nell’interesse di entrambi visto la necessità di sicurezza dei legami commerciali tra le zone interne e il centro di Zeila. Secondo Cuoq è  probabile, che questo reame musulmano sia stato nei secoli X e XI un fattore determinante per l’islamizzazione di Zeila e delle popolazioni delle zone costiere. Tuttavia l’elemento trainante per l’espansione dell’Islam sul territorio africano, è stato l’instaurarsi di un’intenso traffico di schiavi, nel corso del X secolo, tra il sud dell’Arabia e l’Africa dell’est (Cuoq 1981: 44). A questo commercio hanno partecipato attivamente le popolazioni abissine degli altopiani e quelle nomadi degli Afar e dei Somali, che sono state tra i maggiori schiavisti della zona, contribuendo fortemente ad incrementare questo traffico diretto verso il sud dell’Arabia18 (Cuoq 1981: 53). Proprio lo schiavismo ha favorito il diffondersi dell’Islam, poiché ha richiesto la costituzione di sultanati nelle zone interne, che facessero da intermediari arabi, cioè islamici, sulla rotta delle vie carovaniere (Cuoq 1981: 53). I progressi dell’Islam tra le popolazioni dislocate lungo la costa e nelle zone interne, sono stati favoriti dalla presenza di postazioni musulmane lungo le vie di transito delle merci e del traffico di schiavi che dalle zone degli altopiani abissini giungeva fino agli empori sulla costa per poi arrivare nel sud dell’Arabia.
Da segnalare che fin dagli inizi dell’insediamento sud-arabico sul territorio africano, si sono verificati vari scontri tra cristiani copti etiopi ed immigrati sud-arabici musulmani, ma non ancora in nome della religione (Cuoq 1981: 86). La crescita dell’Islam è stata, infatti, piuttosto lenta e i sultanati, in questo periodo, erano troppo deboli per potersi imporre in maniera forte sulle zone circostanti. Perciò, la sopravvivenza di questi sultanati in mezzo a territori ancora soggetti all’Impero cristiano d’Etiopia, è stata possibile nella misura in cui essi hanno manifestato una certa sottomissione nei confronti del Negus regnante, spesso con il pagamento di un tributo (Cuoq 1981: 86).
I successivi progressi dell’Islam sono stati il risultato, non di conquiste, ma piuttosto di un processo di assimilazione di elementi culturali e religiosi arabi e yemeniti da parte delle popolazioni della costa e dell’interno, favorito dalle relazioni di tipo commerciale (Cuoq 1981: 92). L’Islam in questo specifico caso quindi, non s’impone con la forza ma penetra come modello accettato e possiamo dire “conveniente”. In ciò forse può essere trovata anche una delle cause per le quali l’Islam è rimasto per le popolazioni dell’area etiope un modello possiamo dire di “superficie”. Analizzeremo meglio questo aspetto più avanti in un capitolo a parte.
Altri cenni storici tratti sempre da Cuoq (1981: 123 e 131) ci informano che nel corso del XII e XIII secolo, gran parte delle province del sud-est etiope sono passate sotto il dominio dei musulmani. Il più importante sultanato in questo periodo, è stato quello d’Awfat, sede della dinastia dei Walashma in possesso del porto di Zeila, fulcro di tutti i traffici del sud-est del Regno d’Etiopia. Nel XV secolo questa dinastia ha spostato la sua sede nel regno d’Adal (l’attuale territorio della Repubblica di Gibuti) che, in quel momento, era lo stato più ricco della zona.
Piu tardi ad essi sono succeduti l’emirato di Harar, nel sud-est etiope e il sultanato di Aussa, sul fiume Awash. Fino all’inizio del XVI secolo però, la debolezza di tutti i reami e sultanati musulmani è stata quella di rimanere divisi e gelosi l’uno dell’altro19 (Cuoq 1981: 131).
Per quanto riguarda gli Afar, secondo quanto riportato nella “Vie de Zar’a Ya’qob et de Ba’eda Maryam” (Perruchon 1893), risulta che nel XV secolo essi hanno rappresentato, insieme ai Somali, una minaccia continua per le regioni più ricche dell’impero etiope ma anche del reame musulmano d’Adal. Tuttavia secondo Cuoq (1981: 160) nella seconda metà del secolo XV parte delle popolazioni Afar fecero atto di sottomissione al negus Ba’eda Maryam (1468-1478). Questo dato storico è una prima testimonianza del fatto che le varie popolazioni Afar, nel corso della loro storia, hanno mantenuto sempre una certa identità specifica grazie l’autonomia mantenuta, nonostante le forti pressioni esterne, alleandosi di volta in volta in base alla propria convenienza e a seconda delle circostanze. È nel corso del XVI secolo che, possiamo dire si è rafforzato in maniera determinante il processo di costruzione del senso di appartenenza ad un’unica unità sociale e culturale autonoma da parte degli Afar.
Fattore decisivo in questo senso sono state le guerre “religiose” (1531-1543) combattute dal Regno musulmano d’Adal (nei territori dell’attuale Repubblica di Gibuti) contro il regno cristiano abissino. Sotto la spinta prorompente dei musulmani del Regno d’Adal guidati dalla figura carismatica del condottiero Ahmad Gran (1506-1543) le varie “tribù” Afar si sono trovate unite per la prima volta da una comunione d’intenti. La crescita del regno musulmano d’Adal ha portato anche alla costituzione di sultanati sempre più potenti sul territorio Afar. Mi riferisco a quelli d’Aussa, Raheita, Biru e Tagiura che rappresenteranno a lungo gli unici punti di riferimento sociale e territoriale per le popolazioni Afar e molti altri sceiccati e piccoli domini (vedi anche Lewis 1955: 157). Essi hanno avuto un ruolo molto importante nella diffusione sempre maggiore dell’Islam tra gli Afar delle zone interne della Dancalia e sono stati determinanti punti di appoggio durante le guerre religiose contro i cristiani.
Dopo la sconfitta dei musulmani e la morte di Amhad Gran (1543) i sultanati di Aussa, Raheita, Biru e Tagiura hanno continuato ad esercitare la loro funzione di “controllo” e di “accentramento” delle popolazioni Afar. Tuttavia nel corso dei secoli, le popolazioni nomadi che hanno fatto capo ad un sultanato, hanno prestato obbedienza solo quando ne hanno avuto necessità e in particolar modo, quando l’esigenza di sventare delle minacce esterne ha imposto loro di stabilire delle alleanze temporanee.
Nel corso della loro storia, i “sultanati Afar” di Aussa, Raheita e Tagiura hanno goduto di una grande autonomia, almeno fino all’avvento delle tre potenze europee (Francia, Italia e Inghilterra) che hanno instaurato un dominio coloniale in Africa Orientale.
I sultanati di Raheita e Tagiura sono finiti quasi subito sotto il dominio della Francia che, nel 1862, ha occupato il territorio dell’attuale Repubblica di Gibuti (vedi Dilleyta 1989).
Quello di Aussa, invece, nel 1895, ha subito un incursione da parte dell’esercito dell’imperatore d’Etiopia Menelik che, accusando il sultano di essersi alleato con gli italiani, lo ha attaccato e costretto al pagamento di un tributo. Nel 1944, poi, dopo il ritiro delle forze italiane dal territorio dell’Eritrea, un’altra spedizione etiope ha raggiunto la regione dell’Aussa e ha portato alla cattura del sultano, morto poco tempo dopo il suo trasferimento ad Addis Abeba (vedi Lewis 1955: 157). Il sultanato di Aussa, da allora è rimasto in una condizione di semi-indipendenza e tributario dell’Etiopia fino al 1976, quando il sultano Ali Mirah si è esiliato in Francia (insediando al suo posto un proprio parente) mentre le terre della regione sono state nazionalizzate dagli etiopi (Dilleyta 1989: 55).

III.10.) Che cos’è una società Afar

La strutturazione della società Afar in “tribù”, “clan” e “lignaggi”, pur rispondente alla dipendenza dei vari gruppi dai pochi punti d’acqua esistenti e dai pascoli per il bestiame, si basa soprattutto, come abbiamo visto, sulla parentela e sui vincoli agnatici. Infatti, le unità sociali in cui si dividono gli Afar, sono incentrate sui legami di parentela e le loro divisioni si basano su differenze di struttura agnatica (Lewis 1955: 163). Il legame genealogico, stabilisce la derivazione di un gruppo sociale da un antenato comune, seguendo una linea di discendenza patrilineare, per cui si può dire che la posizione di un individuo all’interno dell’intera società Afar è definita in rapporto ai propri antenati (vedi Lewis 1983). Tuttavia come ben analizza Morin (1991: 49), queste genealogie non fanno altro che “fornire in forma di leggenda (cioè mito genealogico)20 un’idea fissa e semplificata delle reti flessibili e complesse di relazioni di parentela e alleanze strategiche di cui si compone la società Afar”.
Ciò per conferire legittimità al proprio sistema di strutturazione sociale e “tribale”. Il principio dell’identità agnatica, è quello che conferisce unità e coesione tra i gruppi “tribali” e specialmente in tempo di guerra, permette lo sviluppo di un carattere corporativo. Quello agnatico è un vincolo che lega in maniera molto forte i membri di un certo gruppo tra di loro, tanto che ogni individuo tende ad identificare i propri interessi con quelli dei parenti, soprattutto quando essi sono impegnati in controversie che possono scatenare faide interne o con gruppi agnatici diversi (vedi a questo proposito Lewis 1955 e 1983). Infatti, sulla responsabilità individuale prevale il principio della fedeltà al gruppo. È il caso delle “vendette” di sangue21 (Lewis 1955: 166). Il sistema di vendetta costituisce un modello molto importante tra i sistemi istituzionali delle cosiddette società tradizionali22. Delaporte (nel “Dictionnaire de l’ethnologie”, Bonte Izard, Paris 1993, pag. 736) fornisce la seguente definizione:
“…l’obligation faite à un groupe déterminé (famille, lignage, clan ou sous-clan), d’obtenir d’une facon ou d’une autre compensation pour le sang versé d’un de ses membres23.”
Ancora Delaporte (1993: 736) sostiene che la “vendetta” è sempre un sistema codificato e ritualizzato:
Des rites marquent l’ouverture du cycle des vengeances et déterminent les modalités de la rupture, totale ou partielle, entre les groupes sociaux en conflit24.”  
Si tratta però, di un sistema a rischio perché i limiti culturalmente assegnati per il suo compimento non garantiscono la sicurezza di contenere le conseguenze per l’ordine sociale. La ritualizzazione del sistema di vendetta dovrebbe contenerne i rischi ma la norma rituale non è sufficiente. In effetti, l’estrema aridità delle terre abitate dagli Afar produce una accesa competizione per il controllo delle scarse risorse. La forte dipendenza dai pochi punti d’acqua dislocati sul territorio e i continui spostamenti alla ricerca di pascoli, causano il permanere di correnti sotterranee di tensione nei rapporti tra i vari gruppi che vengono in contatto tra loro durante i frequenti spostamenti. Il ricorso continuo alla violenza e all’aggressione è quindi favorito dal contesto “ecologico” di lotta per le risorse, ma le continue migrazioni e quindi l’incontro con altri gruppi, comportano anche la necessità di intrattenere delle relazioni pacifiche e gli atti di conciliazione assumono una fondamentale importanza per il mantenimento di un certo equilibrio nei rapporti sociali. Aggressione e conciliazione, si alternano così, in una sorta di ciclo che si ripete di continuo e del quale non sono protagonisti e responsabili i singoli individui, ma i gruppi nel loro insieme25 (Lewis 1983).
Così si verifica ad esempio, che se una persona uccide un membro sia del suo stesso gruppo che di un altro, la responsabilità ricade sull’intera entità sociale di cui l’omicida fa parte. In questo caso scatta il meccanismo della riparazione che nella società Afar può assumere due forme principali: la legge del taglione, ossia la “vendetta di sangue”, o la compensazione del danno arrecato, con il “pagamento del sangue” (Lewis 1955 166; Lewis 1983). Questa seconda soluzione consiste generalmente nel pattuire una certa quantità di capi di bestiame, specie cammelli che sono i beni più preziosi che gli Afar posseggono, in un numero che si ritiene costituisca una giusta riparazione all’offesa subita. Nel caso in cui si riesce a giungere ad un accordo tra le due parti, questa consuetudine è in genere la più seguita. Tuttavia molto spesso certe azioni delittuose o dannose scatenano faide che possono proseguire per decenni e che si esplicano in continui raids predatori reciproci. Queste faide, o vendette di sangue, non hanno termine fino a quando la situazione diviene insostenibile mettendo a rischio l’esistenza stessa dei gruppi coinvolti. Ci si accorda allora, per sanare il debito originario con una compensazione in capi di bestiame. Molte volte, quando la faida è interna, si arriva alla spaccatura del gruppo che separandosi, diminuisce notevolmente la propria forza. Infatti, il potenziale effettivo di combattimento di un gruppo si misura sul numero di individui che lo compongono.
Più il numero di persone è alto, maggiore è la loro capacità di difendersi e respingere eventuali attacchi. La divisione di un gruppo in più frazioni però, può verificarsi anche nel caso in cui un’entità sociale cresce a dismisura e finisce con il risultare difficile da governare. Quando invece, per cause svariate, si hanno delle diminuzioni drastiche del numero dei membri, si può giungere ad accorpamenti in unità più grandi o anche alla scorparsa di un’intera “tribù”. Quella dei lignaggi perciò, risulta essere una struttura dinamica che provoca crescite e restringimenti dei gruppi (Lewis 1983; Morin 1991). Naturalmente, trattandosi di una società pastorale, c’è un forte legame tra l’incremento delle mandrie nel corso delle generazioni e l’ampliarsi dei lignaggi. Inoltre il possesso del bestiame ha una forte carica simbolica essendo fortemente connesso con il vincolo agnatico. Infatti, secondo la tradizione Afar, le mandrie fanno parte del patrimonio ereditato dal fondatore del clan o lignaggio26 (Lewis, 1983). Possiamo così dire che i fattori fondamentali e caratterizzanti le varie identità all’interno del gruppo Afar sono la parentela e il possesso di bestiame. Il primo elemento definisce le questioni della divisione, dell’affiliazione sociale e dei rapporti tra i gruppi e all’interno del gruppo stesso. Il possesso di animali da pascolo, invece, è il valore principale su cui si fondano, sia il lignaggio, che le relazioni tra i membri al suo interno e non solo da un punto di vista pratico, ma anche simbolico-religioso, come vedremo più avanti. Il possesso della terra invece, non riveste un ruolo fondamentale. Ciò perché l’insediamento sul territorio ha una valenza solo temporanea e, soprattutto nei momenti di assenza di ostilità tra gruppi contigui, rappresenta solo un’occupazione non permanente di una zona in genere desertica e disabitata. Inoltre, bisogna aggiungere che, ai fini della coesione e delle alleanze strategiche a scopi difensivi tra gruppi diversi, la vicinanza territoriale è secondaria rispetto ai vincoli di parentela.

NOTE

1 Di recente il governo belga ha riconosciuto la propria responsabilità storica per il conflitto tra Tutsi e Hutu.

2 Puntualizziamo già qui il fatto che occorre prestare particolare attenzione alla necessità di precisare le “proprie risorse simboliche” tenendo conto del fatto che esse possono essere importanti anche più delle “risorse materiali”.
3 Secondo Morin (1991: 14) Ibn Said menziona la parola Dankal riferendola ad un gruppo abitante la zona di Souakin presso lo stretto di Bab al-Mambad. Egli probabilmente confonde Dankal con il termine “Ankala”, nome di una popolazione che figura tra i più antichi gruppi di Afar venuti ad abitare le zone della penisola di Buri nel nord della Dancalia. L’ipotesi più probabile è che, come suggerisce Conti Rossini (1937; 141), il termine Danakil sia in origine derivato dal nome di una “tribù” e precisamente quella degli Ankala siti nella penisola di Buri nel Nord della Dancalia (a questo proposito vedi anche Lewis, 1955; 155).

4 Nella lingua Afar, il nome “Ad Ali” è usato per designare una tribù situata nelle zone di Tagiura e Raheita. Da questo nome derivano anche il plurale arabo “Ada Il” e il termine “Adael” usato dall’amministrazione coloniale francese (Morin 1991).

5 Traggo queste notizie dal “Reportage su Gibuti” apparso nel numero di marzo-aprile 1999 della rivista “Le Courrier ACP-UE”.

6 A proposito del “grido” come significante linguistico è possibile un richiamo ad esempio alla semiologia della voce nella sua prospettiva antropologica. Il “grido” con le sue modalità diventa un riconosciuto tema linguistico identificante, rispetto il consueto sistema di comunicazione, in molteplici contesti ritualizzati (vedi ad esempio gli importanti studi sul lamento funebre nelle società mediterranee a partire da Ernesto De Martino). Il tema è comunque molto aperto anche dal punto di vista linguistico.

7 “Il gruppo sociale, Kedò nella lingua Afar del sud, Kidò in quella parlata nel nord, reclama una discendenza per linea patrilineare da un antenato comune ed è caratterizzato da un nome che spesso è il suo grido di guerra (itrò).”

8 “Il nome della frazione primogenita dei Galcela, casurré, ha fornito il suo grido di guerra (itrò) alla tribù.”

9 La forma esatta dei due nomi Asahyammara e Adohyammara non è stata ancora stabilita in modo esatto. Letteralmente, nella lingua Afar si hanno due forme:
- cAsa-h-yammàra, “le persone che sono effettivamente rosse”
- cAdo-h-yammàra, “le persone che sono effettivamente bianche”
Oppure:
- cAsa-ya-màra, “le persone che si dicono rosse”
- cAdo-ya-màra, “le persone che si dicono bianche”
(Morin, 1991; vedi nota 25, pag.119)

10 Si tratta di un vero e proprio racconto mitico nel senso restituito al mythos greco: sequenza narrativa né vera né falsa situata comunque in un tempo inequivocabilmente “passato” o comunque non attuale. Vedi definizione di mito in Angelo Brelich “Introduzione alla storia delle religioni” Roma 1966.

11 Nome con il quale gli Arabi designano una categoria di geni, entità spirituali o sorta di esseri semidemoniaci, invisibili all’uomo che l’Islam ha ereditato da credenze arabe antiche. Questi Ginn possono essere sia buoni che cattivi, sia maschi che femmine e possono avere persino rapporti sessuali con gli esseri umani. La loro esistenza è ammessa dall’ortodossia islamica coranica. (Dizionario delle religioni del Medio Oriente, Milano 1994, Garzanti Editore, edizione Avallardi).

12 L’analisi di Morin è una dimostrazione dell’esistenza di quella categoria imprecisa ma importante di mito-storia che va delineandosi come attuale oggetto di riflessione. Storia non documentaria ma raccontata.

13 “La divisione fatta da Odorizzi tra Rossi nobili e Bianchi comuni, ripresa ancora recentemente da Lewis, è contraddetta dall’esistenza dei sultanati “bianchi” di Tagiura e Raheita i cui titolari discendono dallo stesso “Hadalmahis” al quale risalgono anche i Rossi “nobili” dell’Aussa (i Modayto). Inoltre se questi ultimi forniscono tradizionalmente i capi dell’Aussa non avviene lo stesso dappertutto: i Modayto hanno dei distaccamenti restati nel massiccio di Mablà, a nord ovest d’Obock, passati sotto il comando dei Basomà (cAdohyammàra).”

14 Riguardo le fonti storiche da lui consultate, Morin  (1991: 121) fa un riferimento in nota al testo di Enrico Cerulli “Studi etiopici” volume I. Documenti arabi per la storia dell’Etiopia, M.R.A.L. 1931. Ma si appoggia anche alle testimonianze orali fornite da alcuni informatori Afar all’amministrazione francese durante il periodo coloniale (Hajji càli, nella zona di Tagiura e il cosiddetto capitaine Peri citato da R, Ferry “Groupes géographiques et groupes tribaux patrilinéaires chez les Afars” communication à la Xème conf. Internat. des études éthiopiennes. Paris 1988). Morin riferisce che altri riferimenti storici si trovano anche in Deschamps H. “Cote des Somalis. L’union francaise” Paris 1948.

15 “La divisione tra cAdohyammàra e cAsahyammara esiste nell’insieme del mondo Afar anche se il contenuto di questa opposizione è andato perso. Secondo noi…questo “bipartitismo” non è né territoriale, né sociale, né legato a una parentela reale o supposta. Esso è prima di tutto politico, nato dal grande movimento migratorio verso le piogge e i pascoli che ha dovuto cominciare, se si tiene conto delle generazioni, all’inizio del XVIII o alla fine del XVII secolo, per il controllo della valle dell’Awash. Dunque, molto dopo l’episodio di “Hadalmahis” che si può situare verso la fine del XIV secolo..:”

16 È il caso citato da Morin (1991: 46) dei Galcéla, inizialmente cAdohyammàra, che nel corso delle loro migrazioni verso la parte occidentale del delta del fiume Awash sono stati inglobati in un altro gruppo come frazione cAsahyammàra. Vi sono tuttavia numerosi altri casi, secondo Morin, in cui certe frazioni di gruppi Afar Adohyammara, nel corso delle varie migrazioni, sono stati assorbiti e considerati come facenti parte degli Asahyammara.

17 “Con la diffusione dell’Islam, un’ulteriore complicazione è stata introdotta attraverso la pratica delle tribù di ascriversi delle origini Arabe.”

18 Sulla partecipazione degli Afar al commercio di schiavi vedi anche le notizie fornite da Chailley (1980: 119).

19 Va aggiunto che i numerosi e continui scontri con l’impero abissino, aveva ridotto molti dei sultanati al rango di semplici province governate da principi musulmani “vassalli” del Negus abissino (Cuoq 1981: 146).

20 Il computo delle genealogie è una prima e importante componente del fare storia. Sulla genealogia come sistema d’interpretazione della storia c’è molta attenzione anche da parte degli studiosi delle culture antiche. Vedi Sabbatucci “Il mito, il rito e la storia” 1979.

21 Sulla “vendetta” come sistema di regolamento sociale vedi E. Gellner, “Saints of the Atlas”, Londres 1969, Weidenfeld et Niecolson; R. Jamous, “Honneur et baraka. Les structures traditionnelles dans le Rif” Cambridge 1981; R. Verdier (sous la direction de), “La vengeance. Etudes d’ethnologie, d’histoire et de philosophie”, Paris 1980-1984, editions Cujas, 4 vol.

22 Il sistema di vendetta si trova diffuso anche in tutto il mondo antico mediterraneo pur non essendo specifico solo delle società mediterranee.

23 “L’obbligo fatto ad un determinato gruppo (famiglia, lignaggio, clan o sotto clan), di ottenere in un modo o in un altro compensazione per il sangue versato da uno dei suoi membri.”

24 “Dei riti marcano l’apertura del ciclo delle vendette e determinano le modalità della rottura, totale o parziale, tra i gruppi sociali in conflitto.”
25 Si genera così un particolare tipo di giustizia basato su meccanismi propri.

26 Questo concetto lo si ritrova diffuso anche in altre società africane pastorali. Vedi a tale proposito ciò che riferisce Evans Pritchard nella sua opera monografica sui Nuer: “The Nuer: a description of the modes of livelihood and political institutions of a nilotic people”, London 1940.
Contatti e info
GIORGIO CINGOLANI
Via dei Bersaglieri, n. 5
62019 Recanati (MC) Italia
tel. (+39)3487401308
email: giorgiocingolani@gmail.com
COPYRIGHT
Licensed under Creative Common Attribution 4.0
Se volete utilizzate in forma non commerciale
il materiale fotografico o i testi presenti
in questo sito si prega di citare l'autore come forma
di rispetto e onestà intellettuale. Per un utilizzo commerciale
di tale materiale si prega di contattare l'autore.
Torna ai contenuti