CAPITOLO 2 - GIORGIO CINGOLANI Antropologo e Regista

GIORGIO CINGOLANI
Antropologo e Regista
Vai ai contenuti
 
CAPITOLO II
Dati per un profilo storico


 
II.1.) “L’area camito-semitica etiopica”: influssi culturali

                                          
Secondo le indicazioni riferite dall’antropologo americano George Peter Murdock (1959: 315 e 318-319) e dagli studiosi italiani Ernesta Cerulli e Vittorio Maconi (1972: 141), la regione della Dancalia fa parte di quella che essi chiamano “l’area camito-semitica etiopica”.  
In antichità quest’area sarebbe stata popolata da popolazioni boscimane di cacciatori e raccoglitori, generalmente sparse nelle zone più inospitali e da genti “cuscitiche” che invece avrebbero occupato gli altopiani etiopi:  
From Paleolithic times until almost the middle of the Christian era the Eastern Horn was inhabited almost exclusively by hunting and gathering peoples of Bushmanoid race1…” (Murdock 1959:  318).
(2000 to 1000 B.C.) Southward expansion of Cushites from southern Ethiopia to the Azanian coast of East Africa, occupying mountainous regions suitable to terraced agriculture but leaving the indigenous bushmanoid hunters in possession of the inhospitable steppe country2” (Murdock 1959: 44).
“…nel mezzo stanno le cosiddette culture cuscitiche a cui appartengono popoli che con i cacciatori boscimanoidi furono i più antichi abitanti della zona…” (Cerulli, Maconi 1972: 141).
Sulla scia di questi autori, l’antropologo americano Joan M. Lewis (1955: 11), sostiene che di queste popolazioni “cuscitiche, o camitiche”, facevano parte anche gli antenati degli attuali Afar, così come dei Galla3 e dei Somali4:  
There is no doubt that the Somali, Afar, and Saho are very closely related; according to Cerulli they belong, with the Galla and Beja, to the Southern Cushitic peoples. The Somali and Afar and the Afar and Saho have traditions of common origin in the north-west corner of the Horn of Africa5” (Lewis 1955: 11).
Infatti, nonostante la rivendicazione da parte di molti gruppi Afar di presunte origini arabe (e molti studiosi della prima metà del secolo XX hanno sostenuto questa tesi), essi non provengono affatto dal sud dell’Arabia. Sono invece assimilabili proprio a questi popoli “cuscitici” annoverati tra i più antichi abitanti di quest’area dell’Africa orientale (così in Lewis 1955; Morin 1991; Murdock 1959; Cerulli, Maconi 1972). Secondo Murdock (1959: 319) le prime notizie e tracce che si possono reperire riguardo l’origine degli Afar, risalgono addirittura all’incirca all’XI secolo a.C. quando, quelli che possono essere considerati come i progenitori degli Afar, dei Galla e dei Somali, iniziano un movimento migratorio dalle zone dell’entroterra, fino a stabilirirsi nelle regioni del sud-est etiope. Di seguito egli sostiene che queste popolazioni rimangono sparse in queste zone fino ai secoli X e IX a.C. quando, in seguito all’acquisizione del cosiddetto “milking complex” e alla susseguente elaborazione di un indipendente modo di vita nomadico pastorale, alcuni gruppi, tra i quali gli antenati degli Afar, iniziano a  migrare lentamente verso nord, dislocandosi nelle zone desertiche della Dancalia e lungo la costa. In effetti, come già fa notare nel 1885 il naturalista italiano Giovan Battista Licata (1885: 245), la maggior parte delle tradizioni orali Afar sulle proprie origini, fanno riferimento, oltre che ad una vantata discendenza araba, anche a questa più antica migrazione dei loro antenati dalle regioni del sud-est e del sud-ovest dell’area etiope. Licata raccolse queste notizie direttamente dagli Afar stessi con i quali entrò in contatto durante i suoi viaggi in Dancalia compiuti verso la fine del XIX secolo.  
Per quanto riguarda le presunte origini arabe degli Afar, già Lewis (1955: 156) e più recentemente Morin (1991), sostengono che queste affermazioni sono da collegare alla loro volontà (comune anche ad altre popolazioni nomado-pastorali musulmane del Corno d’Africa) di nobilitare le proprie genealogie in seguito all’adozione precoce della religione islamica penetrata nell’Africa Orientale grazie all’espansione politico-commerciale araba.  
Per il rapporto con la penisola arabica prendiamo come testo di riferimento il libro di Joseph Cuoq (1981) “L’Islam en Ethiopie”. Secondo quanto riportato da Cuoq, dobbiamo considerare che le zone costiere africane prospicienti il Mar Rosso cominciano ad essere frequentate fin dal 1000 a.C. da arabi yemeniti provenienti dal Sud Arabia attraverso lo stretto di Bab al Mandab, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden. In seguito alle successive ondate di immigrazioni semitiche, si costituiscono vari insediamenti sulla costa e si trasformano i porti in centri mercantili e commerciali che vengono così a trovarsi al centro di quel fiorente e vasto commercio che vede interessati, oltre all’Arabia del sud, anche l’Egitto, la Persia, la Cina e l’India occidentale. In questa zona dell’Africa vengono a convergere una serie di influssi culturali diversi, che incidono in vario modo sulle popolazioni coinvolte. Le influenze culturali più forti e che mostrano le tracce più evidenti nell’intera area etiope, sono certamente quelle che derivano dalla civiltà sud-arabica e da quella egiziana e sono dovute soprattutto alla relativa vicinanza geografica, che ha permesso di mantenere vivi i rapporti nel corso dei millenni.  
Per quanto riguarda i rapporti con la cultura antica egiziana, numerose ipotesi storiche vengono formulate già nei primi decenni del XX secolo nei testi scritti da viaggiatori e studiosi italiani impegnati nell’esplorazione del Corno d’Africa. Tra questi cito quelli dell’ex-ufficiale e funzionario coloniale Alberto Pollera (1935) e dello studioso Carlo Conti Rossini (1937).   
Secondo i loro resoconti la conoscenza di queste terre da parte dei faraoni egiziani, può essere fatta risalire già al III millennio a.C.6. Gli egiziani chiamavano questa regione “Terra di Punt”7 o “Terra di Cush”8, una sorta di mitologica “Terra degli Dei” in cui si rifornivano di incensi, mirra, ebano, avorio, resine, schiavi e d’ogni altro tipo di prodotto esotico.  
La storia di questa regione, comunque, è soprattutto legata ai rapporti precoci con l’Arabia del sud. Cuoq (1981: 39-40) sottolinea che la penetrazione commerciale sud-arabica, non si limita alla costa, ma raggiunge molto presto anche le zone dell’interno, avvalendosi, come scali, della penisola di Buri, nel nord della Dancalia, e dell’arcipelago delle isole Dahlac, al largo di Massaua. Ben presto, la supremazia degli immigrati sud-arabici nel gestire i traffici, si risolve in un’acquisizione di potere politico, raggiunto sia attraverso alleanze matrimoniali con i vari regnanti locali, sia con l’uso della forza. (così anche in Pollera 1935). Un’importante fatto inerente alla penetrazione di genti dal sud dell’Arabia, è quello riportato già da Pollera nel 1935 e poi, più di recente, da Cuoq (1981). Si riferisce alla “tribù” sud-arabica degli Habasciat (dal cui nome deriverà quello di Abissinia), che fra il VII e il V secolo a.C. sarebbe sbarcata nella zona dell’odierna Massaua e avrebbe iniziato una progressiva penetrazione verso le zone più interne del territorio etiope dove più tardi, avrebbe dato vita (autonomamente dalla patria d’origine), al Regno di Aksum9 (I secolo d.C). Le successive vicende storiche conducono questo regno abissino a distaccarsi sempre più dall’Arabia e dal Mediterraneo, mentre le conquiste arabe e la conseguente diffusione dell’Islam, non fanno che accentuarne ulteriormente l’isolamento, privandolo definitivamente di qualsiasi sbocco sul mare.  
Secondo la ricostruzione storica fatta da Cuoq (1980: 40), durante i primi secoli dopo l’egira, la diffusione dell’Islam riguarda solo superficialmente le coste orientali dell’Africa, concentrandosi soprattutto, sui paesi del Medio Oriente e del Maghreb.  
Nell’Africa Orientale10 invece, l’islamizzazione è dominata da interessi economici e segue una lenta progressione. L’esigenza di diffondere l’Islam tra le popolazioni con cui si è entrati in stretti rapporti, è prima di tutto “politica” volta alla costituzione di una società islamica, ma insieme anche religiosa tenendo conto che l’Islam è religione “politica” per eccellenza, intendendo il termine politico nel senso ampio di statale, sociale ecc... Principali canali di diffusione dell’Islam sono le vie commerciali e quelle della tratta degli schiavi11 (Cuoq 1980: 53). Lo schiavismo alimenta grandi carovane che dall’interno si dirigono verso gli empori della costa, per poi raggiungere le città sud-arabiche e richiede la presenza di personaggi e insediamenti, che facciano da intermediari musulmani tra le popolazioni dell’entroterra che si dedicano a questo tipo di commercio e tra esse i gruppi Afar sono tra i più attivi. La costituzione di sultanati lungo la costa e nei territori interni, risponde proprio a questa esigenza di controllo dei traffici, che si accompagna alla necessità di proteggere le carovane dal pericolo di razzie da parte di genti dell’altopiano, soprattutto Galla e Abissini (Cuoq 1980: 53).  
Per il nostro rapido excursus è interessante notare che i primi sultanati musulmani (tra i quali quello d’Awfat, di Hadiya e di Bali) che risalgono ad un periodo compreso tra l’VIII e il XII secolo, vengono costruiti quasi esclusivamente sulle zone costiere e sono piuttosto fragili e poveri. Il più importante di essi è il sultanato d’Awfat che possiede il porto di Zaila che è al centro di importanti commerci nel sud-est dell’Etiopia e di relazioni con l’Egitto e lo Yemen (Cuoq 1980: 123). Gli altri sultanati sono solo delle postazioni sulle vie carovaniere verso l’interno.  
Sempre in Cuoq (1980: 131-132) troviamo la notizia che alcuni di essi risultano essere tributari del Negus etiope, cui spetta anche il diritto di nominare i capi di questi piccoli reami. Nel corso del XVI secolo, durante le guerre religiose combattute dai musulmani contro il regno abissino cristiano copto, nascono i sultanati di Aussa, Raheita, Biru e Tagiura e gli sceiccati di Badhu, Beilul, Meder, Edd e Buri.  
Il Sultanato di Aussa, sul fiume Awash, nella Dancalia del sud, è l’unico distretto con terre fertili. Esso ha esercitato a lungo un certo dominio su tutta la Dancalia meridionale ed è uno dei pochi sultanati cui gli Afar abbiamo fatto capo nel corso della loro storia12. Nel corso del XVI secolo i vari sultanati uniscono le loro forze, grazie soprattutto alla guida dell’Imam di Zeila Ahmad b. Ibrahim, detto Gran13 (parola amarica che significa “Mancino” per la sua grande abilità nel maneggiare le armi con entrambe le mani) Egli postosi a capo dello Stato di Adal (nella zona dell’attuale Harar e di Gibuti), inizia un movimento di espansione verso nord infliggendo pesanti sconfitte all’impero etiopico e mettendone a rischio l’integrità (Cuoq 1980: 219). La campagna condotta da Amhad Gran contro il regno abissino, che fin dal IV secolo aveva abbracciato la religione cattolica, assunse i toni della guerra di conquista in nome della religione. Al suo fianco erano schierate molte tribù di Afar e Somali. La sua avanzata fu devastante e portò anche alla distruzione della città di Aksum (Cuoq 1980). Le ragioni di questo scontro tra abissini e musulmani vanno cercate oltre che nella divisione religiosa anche nell’inevitabile inconciliabilità dei loro propositi. Nel XVI secolo la politica dei vari Negus etiopi, è volta alla costituzione di un grande impero d’Etiopia e alla riconquista di un accesso al mare ormai da tempo perduto.  
I gruppi di arabi immigrati, forti della loro espansione nelle regioni del sud-est e dell’appoggio di molte popolazioni di africani islamizzati, oltre a proteggere i propri possedimenti, sono pronti ad un’eventuale conquista di altre province etiopi.  
Tuttavia l’espansione musulmana viene interrotta nel 1541, dai portoghesi14, che giungono in soccorso dell’impero etiopico e infliggono una pesante sconfitta alle armate di Amhad Gran (Cuoq 1980: 257). La morte del condottiero durante la battaglia, provoca il disfacimento dei suoi eserciti e la loro ritirata dai territori conquistati, mentre Afar, Somali e Galla, che si sono uniti sotto il suo comando, tornano ad essere nemici e a combattersi con numerose razzie reciproche, in una lotta continua per l’accesso e il controllo delle scarse risorse. Nella seconda metà del XVI secolo, Musulmani e Abissini vengono travolti dall’invasione Galla.  
I Somali infatti, spinti da invasioni abissine a migrare verso sud, si scontrano con i Galla e li costringe a una migrazione forzata. Questa migrazione Galla assume il carattere di una invasione violenta e porta ad una forte restrizione del territorio abissino (Cuoq 1980: 269).  
I secoli successivi sono caratterizzati da scontri tra i regnanti, i ras dei vari “stati” soggetti all’impero etiope, in lotta tra loro per la conquista del titolo di Negus. Si può giungere, così, fino al XIX secolo, quando le potenze europee iniziano ad affacciarsi sul continente africano, che in breve tempo diviene il nuovo campo su cui si esercitano le loro mire espansionistiche e colonialistiche.  
Per l’Africa si apre il periodo più buio della sua storia.

 

 
II.2.) Espansione ed esplorazione: il trend europeo verso l’Africa

 
Fino agli inizi del XIX secolo, il continente africano è ancora in gran parte sconosciuto agli europei, soprattutto per quanto riguarda la parte sud-sahariana e le zone interne dell’Africa. Solo le sue coste sono abbastanza conosciute perchè meta degli schiavisti fin dal XV secolo. Nel corso dell’ottocento, però, molti fattori contribuiscono all’esplosione dell’interesse per questo continente. Innanzitutto, come sostiene lo storico italiano Angelo Del Boca (1992: 4), con la rivoluzione industriale cresce la necessità di reperire sempre maggiori quantità di materie prime e nuovi mercati per i prodotti e molte nazioni europee si spingono in una corsa sfrenata alla conquista delle risorse dei paesi africani.  
In secondo luogo, il XIX secolo è attraversato da quell’inesauribile curiosità scientifica e sete di conoscenza che caratterizza il pensiero illuministico positivista, riguarda tutti i campi del sapere e spinge molti studiosi ad intraprendere viaggi di ricerca avventurosi, soprattutto verso le terre africane, che in gran parte sono ancora inesplorate. L’Africa in questo periodo è in piena crisi, anche a causa di secoli di commercio degli schiavi e vive un momento di forte decomposizione sociale. Così dice Del Boca (1992: 5), ma l’osservazione è fatta anche dall’antropologo francese Jean-Loup Amselle (1985). E’ in questo clima che si propongono le figure dei primi viaggiatori ed esploratori privati, al cui seguito vi sono vari studiosi tra cui naturalisti ed etnologi. I primi esploratori europei sono influenzati dai forti pregiudizi razziali15 radicati nella propria cultura di base. I loro resoconti, che sarebbe interessante analizzare testualmente, danno un’immagine frammentaria e lontana dell’Africa e delle sue popolazioni come luoghi e rappresentazioni del totalmente diverso. Diverso in senso negativo. Questi ritratti  rivelano la profonda incomprensione culturale degli europei nei confronti della complessa realtà africana con cui essi stavano entrando in contatto, ma che in quel momento servivano comunque a giustificare in qualche modo le mire imperialistiche delle nazioni europee. Di certo la diffusione di questa immagine dell’Africa ha avuto conseguenze tragiche per l’identità delle società e delle culture africane, i cui effetti si sono protratti fino ai giorni nostri. Ancor prima di parlare degli esploratori però, occorre riportare alcune notizie sui missionari cattolici e protestanti che erano stati i primi ad introdursi in Africa fondando missioni in vari paesi, seguendo l’evangelico precetto della catechizzazione su scala internazionale. Il movimento missionario, infatti, era attivo già da vari secoli in Africa, in genere con scarsa fortuna avendo incontrato forti resistenze (possiamo leggerne alcune testimonianze in Dainelli 1960). Nel XIX secolo però, i missionari hanno avuto un clima più favorevole, grazie al crescente interesse europeo nel continente.  
In questo secolo l’impulso alla creazione di diocesi, missioni e vicariati apostolici in tutto il mondo fu dato principalmente dai papi Gregorio XVII, Pio IX e Leone XIII. Tra gli italiani, Giuseppe Sapeto, Guglielmo Massaja, Giustino de Jacobis, sono alcune delle figure più attive del secolo tra i missionari e agiscono soprattutto in Africa Orientale. Il geologo ed esploratore italiano Giotto Dainelli (1960) e gli storici Francesco Surdich (1982) e Angelo Del Boca (1992) forniscono nei loro libri ampi resoconti dell’opera di questi missionari sul territorio africano e della loro collaborazione dapprima con i governi d’Inghilterra e Francia e poi con quello italiano. E’ importante rilevare che i missionari fornirono anche un fondamentale contributo ad una più approfondita conoscenza dell’Africa e delle sue popolazioni nel continente europeo, ma sempre fuorviante. Sempre seguendo i resoconti forniti da Del Boca (1992: 23-28) e da Dainelli (1960: 267), riferiamo che, per quanto concerne i territori degli attuali stati d’Etiopia ed Eritrea, che sono le zone su cui si concentra la nostra indagine, il primo missionario italiano a mettervi piede nel XIX secolo fu il lazzarista16 Giuseppe Sapeto che arrivò a Massaua verso il 1840. Il suo nome risulterà tuttavia legato, più che all’opera d’evangelizzazione, alla storia dell’espansione coloniale italiana in Africa Orientale. Egli agì infatti, come vedremo più avanti, da intermediario per la Società commerciale di Navigazione Rubattino di Genova per l’acquisto della Baia d’Assab, prima base d’insediamento dalla quale scaturirà la costituzione della prima colonia italiana in Africa. Nel 1851, il Sapeto compì un’importante missione apostolica insieme a padre Giovanni Stella nei territori abitati dai Mensa, dai Bogos e dagli Habab.  
Quasi contemporaneamente, giunsero in Etiopia anche altri lazzaristi italiani, come Giustino de Jacobis che insieme al suo compagno Luigi Montuori, effettuò una fervida propaganda cattolica nel nord dell’Etiopia facendo numerosi proseliti tra le popolazioni abissine copte e fondando stazioni nei territori dell’attuale Eritrea, nel Tigrai e nell’Agamè (vedi Dainelli 1960: 269-270). Nel 1846 su sollecitazione dell’esploratore francese Antonio d’Abbadie (il primo ad essersi spinto nei territori abitati dai Galla), papa Gregorio XVII autorizza il vescovo piemontese Guglielmo Massaja a recarsi nelle regioni occidentali dell’Etiopia per fondarvi una missione. Il Massaja riuscì a raggiungere i paesi dei Galla soltanto nel 1852 dopo vari tentativi falliti e vi rimase per dodici anni. La figura del Massaja, come fanno notare Del Boca (1992: 26) e Dainelli (1960: 276-288), si staglia su quella di tutti gli altri missionari italiani che operarono in Africa Orientale, soprattutto per il suo grande contributo alla conoscenza dell’Etiopia e delle sue popolazioni, anche grazie alla stesura e divulgazione di un’opera in dodici volumi che raccoglie le sue memorie (“I miei trentacinque anni di missione nell’alta Etiopia”. Roma 1885-1895. Tipografia Poliglotta di Propaganda Fide).
Egli rimase in Africa per circa trentacinque anni, intervallati da brevi ritorni in Italia e fu costretto a lasciare l’Etiopia nel 1879, quando fu espulso dal Negus Johannes perché accusato di aver ispirato la politica di espansione del Ras dello Shoa Menelik (Del Boca 1992: 26). Dopo l’ascesa al potere di Menelik i missionari italiani poterono insediarsi più facilmente nel paese. Il loro lavoro di evangelizzazione nel corso del XX secolo proseguì incontrando minori difficoltà. Tra le tante figure di missionari importanti del novecento, Dainelli (1960) e Del Boca (1992: 27) menzionano padre Francesco da Offejo, che operò in Eritrea lasciando anche preziose informazioni su usi e costumi degli abissini (“Dall’Eritrea. Lettere sui costumi abissini”. Roma 1904. Tipografia della Vera Roma) e Giovanni Ciravegna che compì un viaggio d’esplorazione apostolica nel paese dei Galla dal quale trasse una notevole relazione (“Nell’impero del Negus Neghest. Viaggio di esplorazione apostolica”. Torino 1930. Istituto Missioni Consolata). Secondo Del Boca (1992: 27) però, il missionario che studiò in maniera più approfondita i territori e le popolazioni dell’Etiopia fu padre Giovanni Chiomio (“Note di viaggio nel sud Etiopico (1927-28)”. Missioni Consolata, s.i.d. Torino) che nel 1927-28 attraversò le regioni meridionali del paese. Infine una menzione merita anche padre Gaudenzio Barlassina che fin dal 1913 fu vicario apostolico nella regione del Caffa nel sud etiopico e che si distinse per la sua collaborazione assidua con le autorità governative italiane e per il suo acceso nazionalismo che avrà modo di esplicarsi pienamente durante il fascismo quando opererà come agente dell’espansione coloniale italiana in Etiopia.  
Fu comunque l’opera dei missionari ad aprire la via all’attività eplorativa degli europei. Come riportato da Dainelli (1960: 147), la svolta decisiva nella storia dell’esplorazione europea del continente africano si è avuta con la fondazione nel 1788 della “African Association” a Londra. Fu essa a patrocinare le prime spedizioni d’interesse scientifico e geografico sui territori interni dell’Africa a partire, nel 1795, dal primo di una serie di viaggi compiuti dal medico scozzese Mungo Park per la rilevazione del corso del fiume Niger il cui percorso completo verrà stabilito soltanto nel 1830 dai fratelli Richard e John Lander (vedi anche Del Boca 1992: 6).
Sempre seguendo le indicazioni fornite nei testi di Dainelli e Del Boca possiamo menzionare altre importanti spedizioni compiute dagli esploratori europei nei primi decenni dell’ottocento. Alcune avevano per scopo quello di raggiungere la mitica Timbuctu, la città dei Tuareg17. Nel 1822 fu il viaggiatore Gordon Laing ad arrivarci prima di essere ucciso dalla sua stessa scorta. Nel 1827 fu invece, più fortunato il francese René Caillé che camuffandosi da mauro potè visitare Timbuctu e fare poi ritorno in Francia. La prima serie di esplorazioni in Africa fece esplodere una forte passione in Europa per i viaggi avventurosi, che finì con il coinvolgere anche le masse popolari, grazie soprattutto all’opera propagandistico divulgativo di riviste e giornali specializzati, che erano nati numerosi in questo periodo e che riportavano resoconti dettagliati sulle varie spedizioni e sui coraggiosi esploratori18. Tra i principali fautori del crescente interesse si evidenziano le Società Geografiche e quelle commerciali che, nella seconda metà dell’ottocento, sorgono numerose anche in Italia. Dietro alla facciata della ricerca di carattere scientifico, queste società nascondevano interessi economici in connubio con le autorità governative dei vari paesi europei, di cui assecondavano le mire colonialistiche (Del Boca 1992; Surdich 1982). Limitandoci alle società geografiche e commerciali create in Italia, più vicine al nostro interesse, menzioniamo soltanto quelle più importanti: la “Società geografica italiana” a Roma, la “Società Africana d’Italia” a Napoli, la “Società milanese di esplorazioni commerciali in Africa” a Milano, la “Società di Studi Coloniali” a Firenze, “l’Associazione di Geografia Commerciale” a Bari, la “Società d’Esplorazione” a Genova e il “Comitato per le Esplorazioni in Africa” a Torino.  
                             Di alcune di esse riferiremo maggiori informazioni e dettagli più avanti nel corso di questo paragrafo. Dai resoconti di Del Boca e Dainelli sappiamo comunque, che in tutta europa a partire dalla seconda metà del secolo, le spedizioni dirette in Africa sono per lo più finanziate dalle Società commerciali (e molte volte dai governi europei) e attrezzate con grandi mezzi e scorte armate.  
Esse contribuiscono in modo determinante all’apertura di quella grande stagione esplorativa in Africa che si protrae per tutta la seconda metà dell’ottocento. Traggo sempre da Del Boca (1992: 6-7) e Dainelli (1960: 311), cui rimando per ulteriori approfondimenti, le notizie riguardanti i maggiori esploratori di questo periodo e i viaggi da loro compiuti nel continente africano. Sono soprattutto gli esploratori inglesi a recitare un ruolo di primo piano in Africa.  
                             Tra tutti risalta la figura forse più famosa tra gli esploratori del XIX secolo. Si tratta del viaggiatore e missionario protestante David Livingstone che fra il 1846 e il 1873 esplorò gran parte dell’Africa centrale e meridionale aprendo le principali vie d’accesso verso le zone più interne e sconosciute del continente. Vanno menzionati anche gli inglesi John H. Speke e Richard Francis Burton che nel 1857, su commissione della Società Geografica di Londra, partirono alla scoperta dei laghi Tanganica e Vittoria, in Africa Orientale. Ancora John H. Speke è protagonista insieme a James Grant, della scoperta che le sorgenti del Nilo avevano origine dal Lago Vittoria. Sulla scia degli esploratori e della penetrazione economica avviata dalle società geografiche e commerciali, avanzarono gli eserciti delle più potenti nazioni europee che, in breve tempo, instaurano un dominio politico quasi completo sul territorio africano. In pochi decenni Inghilterra, Francia, Portogallo, Germania e Belgio si spartiscono i territori dell’Africa. Soltanto l’Etiopia e la Liberia riuscirono a resistere all’invasione europea e a mantenere, almeno in un primo momento, la propria indipendenza (Del Boca 1992).
L’espansione coloniale delle nazioni europee spinse anche l’Italia ad intraprendere una sua piccola iniziativa in Africa Orientale, dove la concorrenza sembrava meno agguerrita e dove l’approccio risultava più facile per la presenza già radicata di missioni cattoliche e per il già avvenuto invio massiccio di esploratori italiani a preparare il terreno. Infatti, dietro la grande ondata di esploratori e viaggiatori stranieri in Africa iniziò a muoversi anche quella degli italiani.  
Nella prima metà dell’ottocento la penetrazione italiana del continente africano venne effettuata soprattutto da esploratori che viaggiavano quasi isolati e a proprie spese, spinti dalla curiosità scientifica e dallo spirito di avventura (Del Boca 1992). Inizialmente le principali mete degli esploratori italiani furono soprattutto la valle del Nilo, l’Egitto, la Nubia e il Sudan. Per una più accurata indagine rimando sempre alle notizie riportate nei testi di Dainelli (1960:165), Del Boca (1992: 7-22) e Surdich (1982).  
Qui basti ricordare che personaggi come Domenico Frediani, Giovanni Battista Belzoni, Giuseppe Acerbi, Ippolito Rossellini e Bernardino Drovetti fornirono un grande contributo all’esplorazione di questi territori e agli studi d’egittologia. Altri studiosi e viaggiatori italiani come il naturalista Girolamo Segato, il botanico ed esperto di mineralogia Giovan Battista Brocchi e il poliedrico ricercatore Antonio Figari si distinsero tutti per il valore scientifico dei loro lavori e scritti.   
Nella seconda metà dell’ottocento l’esplorazione italiana si spostò nel Sudan, nelle regioni dei grandi laghi equatoriali e soprattutto verso l’Africa Orientale, in particolare in Eritrea, in Somalia, in Libia e infine in Etiopia, dove le numerose missioni già da tempo sparse sul territorio e tenute da lazzaristi italiani, fornirono basi sicure d’appoggio (così in Del Boca 1992: 10-11).  
Come già stava accadendo nel resto d’europa, a farsi carico delle spese e dell’organizzazione delle spedizioni italiane in questa seconda parte del secolo, sono quasi esclusivamente le società geografiche e commerciali. I loro interessi, come abbiamo già detto, erano soprattutto legati alla penetrazione economica, alla ricerca di materie prime e di metalli preziosi. Tuttavia in breve tempo, come nel resto d’Europa, queste società divennero i maggiori promotori dei progetti di espansione coloniale italiana in Africa.
In Italia, i tre centri fondamentali di propaganda e d’organizzazione per l’esplorazione dell’Africa prima e per il dominio coloniale poi, sono: la “Società Geografica Italiana” a Roma, la “Società Africana d’Italia” a Napoli e la “Società milanese di esplorazioni commerciali in Africa” a Milano (Dainelli 1960)19.  
Per quanto riguarda la Società Geografica Italiana, Dainelli (1960: 296) riferisce che fu fondata nel 1867 a Roma soprattutto per opera di un certo Cristoforo Negri. Primo segretario venne nominato il marchese Orazio Antinori esperto viaggiatore che nel 1870 fu incaricato di visitare Assab sulla costa eritrea e la regione dei Bogos dove padre Stella aveva fondato una colonia agricola, per sondare il terreno in vista di una possibile penetrazione commerciale e politica italiana. Sempre in Dainelli (1960: 334) ricorre che nel 1876 la Società Geografica Italiana promosse una spedizione esplorativa ai grandi laghi equatoriali dell’Africa capeggiata dall’Antinori e a cui parteciparono anche il capitano Sebastiano Martini Bernardi e Giovanni Chiarini naturalista ed esperto in mineralogia. Il tragitto prevedeva anche di attraversare la valle dell’Awash e quindi di entrare in contatto con gli Afar. A nulla valse che la carovana comprendesse tra le sue fila anche la presenza di cammellieri Afar e Somali poichè lungo il percorso subì numerose attacchi e razzie da parte delle varie popolazioni indigene e fu derubata dai cammellieri stessi.  
Sulla scia dell’intensa attività esplorativa promossa dalla Società Geografica Italiana sorse a Milano nel 1879 la “Società Milanese di Esplorazione Commerciale in Africa” per mano soprattutto del viaggiatore Manfredo Camperio (Dainelli 1960: 450). Uno dei compiti che essa si proponeva era quello di inviare una missione di studio in Abissinia per sondare il terreno da un punto di vista delle opportunità di penetrazione commerciale che questo paese poteva offrire all’Italia. L’incarico venne attribuito al capitano Gustavo Bianchi la cui attività esplorativa in Africa Orientale sarà molto frenetica e si chiuderà tragicamente in Dancalia per mano degli Afar.  
Il terzo centro per importanza per la promozione dell’esplorazione e la penetrazione politico-commerciale italiana in Africa fu la “Società Africana” sorta a Napoli sempre durante questo periodo e che annovera tra i suoi fondatori il già citato naturalista ed etnologo Giovanni Battista Licata, che soggiornò a lungo ad Assab (Dainelli 1960: 545-546). Licata fu autore tra l’altro di un libro (“Assab e i Danachili”. Milano 1885. Fratelli Treves editori) in cui riferisce numerose notizie raccolte sugli Afar di questa zona. Tralasciamo di fornire notizie sulle numerose spedizioni italiane che tra il 1856 e il 1890 furono dirette soprattutto nei territori di Egitto, Sudan e Somalia rimandando alle fonti già citate di Dainelli, Surdich e Del Boca. Passiamo soltanto in rapida rassegna ancora alcuni tra i maggiori esploratori italiani che si distinsero nell’opera d’esplorazione e studio di queste zone. Tra di essi vanno menzionati il veneto Giovanni Miani, che come riporta Del Boca (1992: 11) va ricordato non solo per la sua opera esplorativa alla ricerca delle sorgenti del Nilo Bianco, ma anche per la sua inclinazione a manifestazioni di violenza spesso gratuita nei confronti delle popolazioni indigene. Altri nomi riportati da Dainelli e da Del Boca sono quelli di Adolfo Antognoli, Angelo Castelbolognesi e Ludovico Marazzani Visconti Terzi che durante questo periodo operarono nel Sudan e nella Nubia dove si dedicarono a studi e ricerche naturalistiche e geografiche. Menzioniamo poi Romolo Gessi, Giacomo Bartolomeo Messedaglia e Gaetano Casati impegnati soprattutto in Egitto in cui operarono anche in veste di ufficiali al servizio del governo egiziano. Altri importanti esploratori furono Pellegrino Matteucci, Luigi Pennazzi e Orazio Antinori che dopo aver esplorato il Sudan si spostarono verso altre zone dell’Africa e in particolare i loro nomi ricorreranno anche nelle cronache riguardanti l’esplorazione dell’Etiopia. Personaggio di spicco fu anche Carlo Piaggia che diede un importante contributo nella ricerca delle sorgenti del Nilo Bianco e che viene ricordato come figura dal grande spessore umano (così in Del Boca 1992: 12). Passiamo in rapida rassegna anche alcune delle figure di esploratori che si evidenziarono nel lavoro svolto in Somalia, altro terreno fertile per l’esplorazione italiana in Africa. Rimandiamo per ulteriori e più approfondite notizie sull’attività esplorativa in Somalia sempre ai testi di Dainelli (1960: 573) e Del Boca (1992). Ricordiamo i nomi del nobile piemontese Enrico Baudi di Vesme e del cartografo Giuseppe Candeo che nel 1891 attraversarono il Somaliland e l’Ogaden. Come ricorda Del Boca (1992: 20) però, i loro scopi non erano soltanto di carattere scientifico ma sempre soprattutto politico-militari. Furono loro a trattare la questione della richiesta da parte delle maggiori tribù somale dell’Ogaden di un protettorato italiano, questione che non andrà in porto a causa della scarse ambizioni colonialistiche del marchese Rudini che era succeduto a Crispi alla guida del governo italiano. Sempre in Somalia operarono Ugo Ferrandi e il giovane principe Eugenio Rispoli che si “distinsero” anche per la loro sfrenata attività di cacciatori di elefanti! (ancora Del Boca 1992: 21). La figura di maggior importanza per l’esplorazione italiana in Somalia fu quella del capitano Vittorio Bottego. In verità Bottego fu autore anche di un rapido viaggio promosso dalla Società Geografica Italiana nel 1891, lungo la costa dancala da Assab a Massaua. Da questo viaggio ha tratto un libro (“Nella terra dei Danakil” 1892) in cui vengono fornite alcune vaghe e scarne informazioni sugli Afar.  
Il suo lavoro si svolse soprattutto in Somalia e aveva una funzione politica precisa, ossia individuare le vie di accesso all’Etiopia meridionale vero obiettivo dell’espansione coloniale italiana (vedi Del Boca 1992: 21-22). La sua attività di esploratore riguardò il medio e alto corso del Giuba e portò anche allo scioglimento dell’enigma del fiume Omo in territorio etiopico. I suoi aperti propositi politico-militari e la violenza con la quale si aprì la strada tra le popolazioni indigene gli costarono la vita.  
Concentriamo ora la nostra attenzione più specificatamente sui territori che riguardano più da vicino la nostra indagine, ossia Etiopia ed Eritrea. Ad attirare l’interesse dell’Italia sui territori d’Etiopia ed Eritrea furono inizialmente come detto i missionari italiani attivi in Africa Orientale già da tempo e in particolare, i già menzionati Massaja, Sapeto, De Jacobis e Stella che con il passare del tempo erano diventati stretti collaboratori delle autorità governative italiane (Del Boca 1992). Soprattutto Giuseppe Sapeto si distinse nel condurre le trattative per l’acquisto della Baia di Assab, nel 1869. L’incarico era stato affidato dal governo italiano alla Compagnia di navigazione Rubattino di Genova la quale si servì della mediazione del Sapeto per concludere l’acquisto (Dainelli 1960: 296; Del Boca 1992: 13-14).  
Pur se in via ancora ufficiosa, con questo atto l’Italia inaugurava la sua politica coloniale in Africa. Dopo due anni la baia venne ceduta ufficialmente al governo italiano che ne fece il primo nucleo della futura Colonia Eritrea (Dainelli 1960: 275).  
Tuttavia già da qualche anno gli esploratori italiani avevano iniziato a penetrare nei territori d’Etiopia ed Eritrea in vista di una eventuale “colonizzazione” della zona. Come sostiene Del Boca (1992: 14) quasi tutte queste spedizioni furono concertate in accordo tra le Società geografiche e il governo italiano e svelarono sempre più propositi annessionistici nelle poche terre lasciate libere dalle altre potenze europee. All’arrivo degli italiani l’area etiope era già da qualche tempo meta degli esploratori francesi e inglesi che facevano, anch’essi, affidamento sulle missioni cattoliche e protestanti (Dainelli 1960). Tra di essi menzioniamo i francesi Héricourt (“Second voyage sur les deux rives de la Mer Rouge dans les pays d’Adel et le Royaume du Choa”. Paris 1864) e M. Delafosse (“Les hamites de l’Afrique orientale” l’Anthropologie n° 5, Paris 1894), Antonio D’Abbadie e R. Vernau. Ricordiamo l’inglese Richard Burton (“First footsteps in East Africa”. London 1894. Memorial Edition), autore di un pericoloso viaggio da Zeila ad Harrar attraversando i territori abitati dalle “tribù” Afar (Dainelli 1960: 316) ed altri due inglesi F. James (“The unknown Horn of Africa”. London 1888) e P. Rigby. Mentre gli inglesi cercavano di stabilire una forte presenza in alcune città lungo la costa africana del Mar Rosso (Massaua ad esempio) e in Somalia, la penetrazione economica e politica francese si concentrava soprattutto nella zona dell’attuale Repubblica di Gibuti, che nel 1862 divenne colonia della Francia.  
Tornando all’attività esplorativa italiana nei territori etiopi ed eritrei possiamo vedere che la prima grande spedizione diretta all’interno dell’Etiopia fu effettuata nel 1876. Di essa abbiamo una descrizione abbastanza minuziosa in Dainelli (1960: 334) (ma ne riporta notizia anche Del Boca 1992: 13-15). Della spedizione facevano parte Orazio Antinori, Giovanni Chiarini, Sebastiano Martini e Antonio Cecchi. Secondo quanto riferisce Del Boca (1992: 14), il viaggio doveva partire da Zeila a sud del Golfo di Aden, attraversare la valle dell’Awash e raggiungere la regione dello Shoa dove risiedeva il giovane Ras e futuro Negus, Menelik. Lo scopo era quello di  intavolare trattative di tipo commerciale.  
La seconda parte della spedizione consisteva nell’attraversare i territori abitati dai Galla per arrivare nel bacino dei grandi laghi equatoriali. Ma il viaggio si risolse in un disastro. Antonio Cecchi e Giovanni Chiarini furono fatti prigionieri dalla regina del regno di Ghera20. Il Chiarini morì il 5 ottobre 1879 mentre il Cecchi fu liberato nell’agosto 1880 in seguito all’intervento dell’imperatore d’Etiopia Johannes IV (così in Del Boca 1992: 14-15). L’unico aspetto positivo per gli italiani in questa spedizione, fu quello di essere riusciti nello scopo di impiantare una stazione geografica a Let-Marefià nello Shoa. Questa postazione nell’interno dell’Etiopia risulterà infatti, preziosa per le trame ordite dall’Italia quando cercherà d’instaurare un dominio coloniale in Africa Orientale. Come riportato da Del Boca (1992: 16) e da Dainelli (1960: 346) sarà in questa stazione situata nel cuore dell’Etiopia che nel 1879, Sebastiano Martini accompagnato dal commerciante e viaggiatore Giuseppe Maria Giulietti e dall’esploratore Pietro Antonelli riusciranno a instaurare un traffico d’armi a favore del Ras dello Shoa Menelik. Ed è sempre a Let-Marefià che il conte Pietro Antonelli preparerà il controverso articolo 17 del Trattato di Uccialli su cui torneremo più avanti.  
Un altro esploratore italiano che s’inoltrò nel territorio etiope fu il vercellese Augusto Franzoj noto soprattutto per il suo modo avventuroso di viaggiare in contrasto con le spedizioni organizzate e finanziate dalle società geografiche e commerciali. Nel 1882 egli mosse da Massaua a Gondar nell’Amhara dove incontrò il Negus Johannes IV e sulla via del ritorno si diresse verso il regno di Ghera dove ricuperò le spoglie del Chiarini (Dainelli 1960: 511; Del Boca 1992: 16).  L’attività esplorativa degli italiani nei territori del Corno d’Africa provoca, quasi subito, l’instaurarsi di un clima di risentimento e di sospetti, soprattutto nelle zone che sfuggono al diretto controllo dell’imperatore d’Etiopia Johannes IV e del re dello Scioa Menelik, che invece cercano di intrattenere relazioni commerciali con l’Italia (Del Boca 1992: 17). La risposta violenta all’intrusione degli italiani non si fa attendere e sono soprattutto Afar e Somali a cercare di impedire i tentativi di penetrazione straniera nel loro territorio.  

 
II.3.) Primi incontri con gli Afar

 
I primi incontri sono anche le prime testimonianze della bellicosità degli Afar e della loro ostilità nei confronti dell’intrusione da parte di esploratori e viaggiatori stranieri sul proprio territorio. Di questo si hanno notizie già nei resoconti dei missionari italiani impegnati in Etiopia. Dainelli (1960: 274) riporta la notizia che già nel 1851, il missionario Giuseppe Sapeto aveva incontrato gli Afar durante un viaggio da lui compiuto partendo da Assab in direzione nord-ovest e che doveva passare attraverso la Dancalia. Egli però, non lascia notizie precise di tipo etnologico sulle popolazioni incontrate e sui territori attraversati. Sempre in Dainelli (1960: 291) troviamo che anche padre Guglielmo Massaja nel 1868 attraversando la vallata del fiume Awash incontrò gli Afar descrivendoli nelle sue “memorie” come sempre più o meno bellicosi. Ancora in Dainelli (1960: 652) abbiamo notizia che qualche anno dopo, è la volta di alcuni esploratori stranieri a penetrare nel deserto dancalo: Munzinger nel 1867, Hildebrandt nel 1872 e Zichy nel 1875. Tutti e tre esplorarono soltanto la parte più settentrionale della Dancalia. A fare le spese dell’ostilità mostrata dagli Afar nei confronti di queste spedizioni fu lo svizzero Munzinger che nel 1875, mentre percorreva i territori nella regione dell’Aussa, venne ucciso dagli Afar insieme ai suoi compagni (Dainelli 1960: 390). Dopo Sapeto e Massaja, un’altro italiano si avventurò nella regione dancala. Si tratta di Giuseppe Maria Giulietti21, commerciante e viaggiatore, che nel 1879, in compagnia di Sebastiano Martini e del conte Pietro Antonelli (che abbiamo già menzionato in precedenza), partì da Assab e attraversò la Dancalia per raggiungere lo Scioa (vedi Dainelli 1960: 387). Il problema era quello di aprire un collegamento diretto tra la costa del Mar Rosso e gli altopiani etiopici dell’Amhara e del Tigrai con partenza dal porto d’Assab. Sulla via del ritorno per Assab, però, il Giulietti dovette desistere dal suo piano di passare per la regione dell’Aussa, a causa del rischio troppo elevato di essere aggrediti da gruppi Afar e fu costretto a raggiunge subito la costa. Un anno dopo, il governo italiano prese possesso della baia di Assab e il Giulietti venne nominato segretario dell’ormai prossima prima colonia dell’Italia in Africa. Nell’aprile del 1881, però, mentre stava attraversando la Dancalia per raggiungere il Tigrè, la sua spedizione venne annientata da un gruppo di Afar del Biru. Sempre secondo Dainelli (1960: 393), nel 1882 in seguito a questo eccidio che tanto clamore suscitò in Italia, Pietro Antonelli, che aveva acquisito la nomina a plenipotenziario del governo italiano, tentò di raggiungere lo Shoa per convincere Menelik di imporre al sultano, “Anfari” dell’Aussa di concedere la sicurezza per il passaggio delle carovane italiane che partivano da Assab e per fargli sottoscrivere un trattato di commercio e amicizia con l’Italia.  
In effetti sulla via del ritorno la carovana venne lasciata passare senza ostacoli o resistenze e così l’Antonelli aprì per la prima volta una via sicura tra il porto d’Assab e lo Shoa. Seguendo ancora quanto riportato da Dainelli (1960: 396) però, vediamo che le reazioni violente da parte degli Afar alla penetrazione straniera nei loro territori non ebbero affatto termine.  
Nel 1884, infatti, Gustavo Bianchi, un ex ufficiale passato al servizio della “Società milanese di esplorazioni commerciali in Africa”, venne messo a capo di una spedizione di carattere scientifico-commerciale che, partendo da Macallè, sull’altopiano nord-occidentale etiope, doveva discendere nella depressione dancala per attraversarla tutta fino a raggiungere il porto di Assab. La carovana allestita dal Bianchi comprendeva tra le sue fila anche numerosi cammellieri e guide Afar e portatori abissini. Secondo quanto riferito da Dainelli (1960: 399), durante il tragitto, man mano che la spedizione si inoltrava nel territorio dei dancali, le guide Afar manifestarono la loro disapprovazione alla penetrazione di stranieri nelle loro terre e abbandonarono la carovana italiana. Verso gli inizi di ottobre del 1884 l’intera spedizione venne uccisa dagli Afar (vedi anche Del Boca 1992: 17 e Surdich 1982).  
Ancora in Dainelli (1960: 521-528) ricorrono i nomi di altri esploratori italiani che attraversarono la Dancalia ed ebbero incontri-scontri con gli Afar. Cominciamo con gli ingegneri Luigi Capucci e Luigi Cicognani che nel 1885 partirono da Assab alla volta dello Shoa (vedi Dainelli 1960: 527). Mentre stavano passando per la nota via dell’Aussa però, furono fermati dall’Anfari che pretese un pedaggio esorbitante per permettere loro di proseguire nel viaggio. Ritornati indietro fino ad Assab, essi ritentarono dopo qualche mese e questa volta riuscirono a passare e a raggiungere lo Shoa. Della loro attività rimane, sempre secondo il Dainelli (1960: 527) uno scritto del Cicognani in cui viene descritta la via da Assab per lo Shoa e in cui appare anche una breve trattazione sulle popolazioni Afar incontrate.  
Altri nomi di esploratori recatisi nei territori abitati dagli Afar di cui si ha notizia sono quelli di Leopoldo Traversi, di Augusto Franzoj e del citato Giovan Battista Licata. Di questi solo il Licata lascia un’accurata relazione di viaggio, di cui abbiamo già detto, in cui vengono riportate varie notizie sulle popolazioni Afar della zona di Assab, riguardanti soprattutto la loro vita materiale e in parte culturale. Ma anche il suo destino è segnato da una tragica fine.  
In Dainelli (1960: 555) viene riportata la vicenda che conduce alla morte nel 1886, del Licata e del conte comasco Gian Pietro Porro che lo accompagnava nel viaggio sulla via per Harar. Questa volta però, l’uccisione non avvenne per mano di gruppi Afar, ma degli uomini della scorta fornita dall’emiro di Harar.  
Queste tragedie non mettono comunque fine al programma italiano di esplorazione nell’Africa Orientale e anzi servono da ulteriore pretesto per mettere in atto i propositi di espansione dell’Italia.  
A questo proposito occorre riportare un breve percorso di storia politica per evidenziare quelle che sono le tappe principali che segnano la sempre maggiore ingerenza italiana in Etiopia ed Eritrea22. Nel 1884 l’Italia, dopo aver ottenuto il consenso degli inglesi, occupa Beilul e un anno dopo la città di Massaua (Del Boca 1992: 29).  
Ma appena la penetrazione italiana tenta di spostarsi verso le zone interne in pieno territorio etiope, la reazione del negus Johannes IV e dei ras locali è immediata. A Dogali cinquecento soldati italiani vengono uccisi da truppe abissine (Del Boca 1992). Per vendicare la disfatta di Dogali, le truppe italiane salgono sull’altopiano etiope e si impadroniscono di Asmara e in seguito di tutto il territorio fino al Mareb (Del Boca 1992). Nel 1889, l’Italia cerca di stabilire una sorta di protettorato sull’impero etiope e intavola una trattativa ingannevole e ambigua, con il nuovo negus d’Etiopia Menelik. Questi sottoscrive con l’Italia il Trattato d’Uccialli, che diviene ben presto fonte di discordie per la differente interpretazione dell’Articolo 17, che presenta un sofisticato esempio di ambiguità linguistica.  
Nella versione italiana vuole significare l’accettazione di un protettorato da parte dell’Impero d’Etiopia, mentre in amarico, intende stabilire solo un ricorso facoltativo all’Italia nei rapporti degli abissini con l’estero (così in Lipsky 1962). Nel 1890, infine, viene fondata la Colonia Eritrea (Del Boca 1992). I rapporti italo-etiopici, però, si deteriorano sempre più, anche a causa della condotta incerta dell’Italia e con l’accrescersi della tensione si arriva allo scontro con l’impero etiope. Nel 1895 la resistenza etiope alla penetrazione italiana sfocia nell’uccisione di un gruppo di militari rimasti isolati sull’Amba Alagi. Il 1 marzo 1896, la volontà di rivincita degli italiani li spinge ad attaccare il grosso dell’esercito etiope ad Adua e la battaglia che ne scaturisce si conclude con una completa disfatta italiana e con la sottoscrizione del Trattato di Addis Abeba, con il quale si riconosce la piena indipendenza dell’Impero d’Etiopia e si ristabiliscono i vecchi confini della colonia italiana eritrea (Del Boca 1992).  
Dopo queste drammatiche vicende storiche riprende, nonostante tutto, a pieno ritmo l’opera di esplorazione italiana dell’Africa Orientale e della Dancalia in particolare. Si fanno una serie di spedizioni soprattutto di carattere geologico e di ricerca di giacimenti minerari. Dai geologi Giotto Dainelli (1905-06) e Paolo Vinassa de Regny (1919-20), ai viaggiatori ed esploratori Lodovico Nesbitt (1928), Raimondo Franchetti e Alberto Pollera (1928-29), la Dancalia viene studiata in maniera più approfondita (Dainelli 1960: 649). Rimane tuttavia la costante ostilità che mostrano gli Afar nei riguardi di chi si avventura sulla loro terra, come sottolineato nei resoconti di questi viaggiatori. In particolare Franchetti, Pollera e Nesbitt hanno scritto importanti relazioni di viaggio in cui riferiscono interessanti notizie sulle popolazioni Afar incontrate lungo l’itinerario seguito (Franchetti: “Nella Dancalia etiopica.” Milano 1930; Pollera: “Le popolazioni indigene dell’Eritrea” Bologna 1935; Nesbitt: “La Dancalia esplorata” Firenze 1930). Notizie che riguardano aspetti sia della loro vita materiale, sia di quella culturale-religiosa, con tanto di ipotesi e racconti mitici sulla origine degli Afar su cui torneremo più avanti nel corso della nostra trattazione. Sulla scia di questa nuova ondata di esplorazioni in territorio etiope e nel clima di forte nazionalismo instauratosi con l’avvento del regime fascista, l’Italia si ripropone sulla scena internazionale con rinnovati disegni imperialistici.  
Diamo perciò di seguito alcuni dati storici per illustrare brevemente le vicende principali che hanno caratterizzato il ritorno massiccio delle forze armate italiane sul territorio africano, concetrando il nostro sguardo soltanto sull’area etiope23. Nell’ottobre del 1935, in pieno regime fascista, dopo una massiccia opera di propaganda, l’Italia tornò a varcare i confini coloniali invadendo l’Etiopia (Del Boca 1992: 33). Sette mesi dopo l’esercito italiano occupò Addis Abeba e stabilì un dominio che durò fino al 1941, quando Hailé Selaissé (eletto Negus nel 1930 ed esiliatosi dopo la conquista italiana) potè rientrare nella capitale etiope in seguito all’intervento di liberazione inglese. Secondo quanto riportato da Conti Rossini (1937) nella sua analisi contemporanea agli avvenimenti qui citati, fin dai primi anni di dominio italiano, la guerriglia messa subito in atto dalle popolazioni etiopiche, vanificò i piani di insediamento rurale e quelli di sfruttamento delle risorse del paese. L’Italia cercò allora di sopprimere con la forza la ribellione dei popoli etiopi e istituì un clima di terrore nel paese per mezzo dei generali del suo esercito (Badoglio, Graziani) con la costruzione di lager e anche con l’uso di gas chimici (vedi a questo proposito Del Boca: “Gli italiani in Africa Orientale: la conquista dell’impero” Laterza, Roma-Bari 1979). Nonostante ciò le forze armate italiane non riuscirono a domare la guerriglia etiope che riuscì a resistere fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, quando l’intervento dell’Inghilterra dissolse il dominio italiano (Del Boca 1992). Ma dopo la liberazione occorreva stabilire la situazione dell’Eritrea. La questione eritrea rappresenterà per il resto del secolo il vero nodo irrisolto del Corno d’Africa contribuendo in maniera decisiva alla situazione di estrema conflittualità di questa regione del continente africano. In effetti la creazione coloniale italiana dell’Eritrea innescò un processo d’identificazione interno irreversibile tra le popolazioni eritree rientranti entro i confini  tracciati dall’Italia. Queste popolazioni hanno così cercato, una volta liberate dall’amministrazione coloniale italiana prima (1890-1941) e da quella inglese dopo (1942-52), di ottenere un riconoscimento alla propria autodeterminazione.  
Le vicende storiche successive alla liberazione dal dominio coloniale italiano non hanno consentito però di raggiungere una soluzione immediata della questione.  
Forniamo di seguito qualche altra nota storica per capire meglio il processo che ha condotto al riconoscimento dell’identità nazionale eritrea e di come questa identità si sia fondata non sulla condivisione di un passato storico e culturale specifico, ma su una comunità di lotta armata. Traggo quanto segue principalmente da Del Boca (1992: 125). All’indomani della sua liberazione, l’Eritrea finisce sotto il protettorato britannico e inizia la ricerca di una via al proprio riconoscimento. Tuttavia l’interesse mostrato da altre nazioni nei confronti della ex colonia italiana, prime fra tutte Etiopia ed Inghilterra, non permette di giungere ad una facile soluzione della questione. Il successivo intervento dell’Onu apre la via si può dire alle mire etiopi sull’Eritrea e ai successivi trent’anni di guerriglia tra le due “nazioni”. Con la risoluzione del 2 dicembre 1950 dell’assemblea generale dell’Onu, viene stabilito che l’Eritrea diventa una “unità” autonoma federata all’Etiopia. La federazione entra in vigore nel 1952, dopo dieci anni di protettorato britannico. Nel 1960 però, l’Eritrea viene incorporata dall’Etiopia come semplice provincia (Del Boca 1992: 225). Due anni dopo la federazione viene sciolta e movimenti armati eritrei di liberazione, iniziano una lotta per portare il paese all’indipendenza. Una lotta che li ha visti impegnati per quasi trenta anni, fino al 1991, quando, dopo la fuga del Generale Menghistu, gli eritrei entrano in Addis Abeba e ottengono una resa senza condizioni da parte dell’Etiopia. Nel 1993 viene indetto un referendum popolare che sancisce l’indipendenza dell’Eritrea e fa di Assab un porto franco per le due nazioni (Del Boca 1992).  
Il breve percorso storico che abbiamo definito, serve a mostrare la condizione attuale degli Afar come popolo diviso territorialmente fra gli stati nazionali autonomi d’Etiopia, Eritrea e Gibuti, e sottolineare come esso sia una diretta conseguenza del dominio coloniale europeo e in particolare francese ed italiano.  
In questa parte dell’Africa prima dell’arrivo degli europei esisteva una sola realtà “statale” effettiva, con una lunga tradizione storica alle spalle, ossia il regno d’Etiopia. Gli attuali stati di Eritrea e della Repubblica di Gibuti invece, devono essere fatti risalire ai possedimenti coloniali stabiliti dalla Francia, nel 1862 nella zona del Golfo di Tagiura e dall’Italia nel 1890 sui territori che ancora oggi rappresentano la nazione eritrea. Furono i confini amministrativi definiti da Italia e Francia ad avviare il processo di costruzione e di autodeterminazione degli stati indipendenti di Eritrea e Gibuti. Entrambi hanno raggiunto la piena autonomia politica solo recentemente: Gibuti nel 1977, dopo ben 115 anni di presenza della Francia, l’Eritrea soltanto nel 1991 come abbiamo visto sopra.  
A seguito di queste vicende storiche il popolo Afar ha visto moltiplicare i confini politici e amministrativi sui propri territori.  
Ciò ha avuto gravi ripercussioni sulla loro realtà socio-culturale contribuendo in maniera decisiva ad avviare il lento e costante processo di disgregazione della loro identità tuttora in atto.  

II.4.) Incontrare gli Afar oggi

Secondo le più recenti stime24, la popolazione Afar attualmente, ammonterebbe a circa un milione di individui. Negli ultimi decenni, le politiche governative di Etiopia, Eritrea e Gibuti hanno fortemente aggravato la situazione di queste popolazioni nomadiche, ma non sono riuscite ancora ad asserire una forte e completa autorità su di esse. Anzi, nel tentativo di trasformare il loro modo di vita hanno provocato un ripiego ancor più radicale, da parte degli Afar, sulle proprie “tradizioni”, o meglio, su quelli che essi considerano e che sono percepiti anche esteriormente, come i tratti più saldi della loro identità, permettendo loro di resistere in questo modo all’integrazione nella società modernizzante (Dilleyta 1989: 54). Nonostante secoli di lotte e il susseguirsi di varie forme di dominio su queste terre, infatti, è da sottolineare come nessuna forza armata, sia etiope-eritrea o di Gibuti, che europea, è mai riuscita ad aver ragione delle tribù nomado-pastorali Afar e a sottometterle di volta in volta, alle nuove forme di amministrazione. Gli Afar hanno sempre mantenuto una certa indipendenza all’interno dei loro territori. A partire dal 1950, dopo che per secoli gli Afar hanno goduto di una larga autonomia, i loro rapporti con i governi di Etiopia e di Gibuti sono andati progressivamente rovinandosi (Dilleyta 1989: 54; Fukui-Marrakis 1994). Negli ultimi 50 anni, infatti, gli Afar hanno dovuto fronteggiare i ripetuti tentativi “governativi” di destrutturazione della loro società. Soprattutto in Etiopia, ad esempio, è stata messa in pratica una politica di sedentarizzazione forzata, con piani di promozione per l’agricoltura, specie nella zona della valle del fiume Awash (Dilleyta 1989: 54). La resistenza Afar a questa azione governativa etiope ha assunto, molto presto, la via della ribellione armata, con continui raid e attacchi ad obiettivi d’interesse economico e sociale per i governi d’Etiopia, Eritrea e Gibuti. Queste azioni violente sono state accompagnate dalla costituzione di movimenti di rivolta (che si riconoscono nelle sigle ALF, FRUD e ARDU)25 che lottano per evitare il disfacimento della società Afar, rivendicando il diritto del popolo Afar alla propria autodeterminazione e il riconoscimento della sua autonomia (Dilleyta 1989; Fukui, Markakis 1994).  
Il primo movimento a prendere le armi per difendere la propria terra è stato quello dell’ALF (Afar Liberation Front). Esso è entrato in azione all’indomani della rivoluzione etiope del 1974 che ha portato alla deposizione del negus e all’avvento di un regime socialista (Marrakis-Fukui 1994: 220; Dilleyta 1989). Nel 1975 infatti, a seguito di questi fatti nella valle dell’Awash è stata messa in pratica una riforma agraria che invece di creare dei punti agricoli di appoggio all’allevamento, prevedeva solo l’espropriazione delle terre e la sedentarizzazione forzata delle popolazioni del luogo per lo più dedite ad attività pastorali, Afar, Somali e Boranas (Dilleyta 1989: 54-55).  
In seguito all’attuazione di questa politica di sfruttamento del territorio, tutte le terre lungo il corso del fiume sono state nazionalizzate e il sultano della regione dell’Aussa (in collusione con i poteri governativi) si è esiliato all’estero (Dilleyta 1989: 55). Molte delle popolazioni Afar private dell’accesso alle migliori terre e a fondamentali punti d’acqua, sono state costrette a spingersi verso le zone desertiche della Dancalia, dove vivono tuttora in condizioni di vita sempre più difficili. Allo stesso tempo si è creato un massiccio flusso migratorio verso le città, soprattutto della costa, dove gli Afar costituiscono una minoranza e finiscono con l’ingrossare le fila dei poveri, vivendo ai limiti della sussistenza (Morin 1991: 3; Dilleyta 1989). Nonostante tutto la società e l’identità Afar rischiano dunque, il dissolvimento e il problema non sembra di facile soluzione e spiega il ricorso alla lotta di autodifesa delle popolazioni stesse. La questione potrebbe risolversi con la costituzione di una regione autonoma Afar26. E’ questo, infatti, lo scopo principale cui stanno mirando attualmente i gruppi di ribellione armata Afar. La soluzione verrebbe incontro anche all’esigenza del governo etiope, di pacificare la zona per rendere più sicuri i traffici diretti verso il porto di Assab, da sempre principale sbocco sul mare per le merci d’Etiopia (Dilleyta 1989: 57). La regione dancala ha un’enorme importanza strategica, poiché attraversata dall’unico asse stradale che collega Addis Abeba al porto di Assab. Negli ultimi decenni, una élite rappresentata da un gruppo di cosiddetti “giovani intellettuali” Afar sta mediando tra le due parti per giungere ad un accordo che soddisfi entrambi (Dilleyta 1989: 57). Citiamo un passo tratto dall’articolo di Dilleyta apparso sul numero del giugno 1989 della rivista francese “Politique Africaine” dedicato all’analisi della situazione della società nomado-pastorale Afar, per cercare di capire meglio il rapporto tra questa élite e la base Afar stessa:
“… l’autoritè centrale (etiope) opta pour un compromis avec de jeunes intellectuels régroupés au sein d’un seul parti. Contrairement aux caprices et à la démagogie du sultan Ali Mirah, cette élite afar, qui a compris la logique de l’état moderne, a acquis démocratiquement des responsabilités dans la région occupée. Ainsi, présente-t-elle au pouvoir d’Addis Abeba des revendications sensées et adaprées. Dévouée à la cause afar, elle s’efforce d’etre l’intermédiaire entre l’état  éthiopien dont elle est la représentation politique et les nomades afars qu’elle veut appuyer pour sortir de l’impasse27.” (Dilleyta 1989: 57).
Un discorso antropologico a parte comunque, dovrebbe riguardare proprio la costruzione intellettuale, politico e culturale di questa élite. I recenti avvenimenti politico-militari che hanno condotto al conflitto tra Etiopia ed Eritrea, hanno portato un’ulteriore sconvolgimento nei rapporti già difficili instauratisi tra le varie popolazioni in questa parte del Corno d’Africa e ad una situazione di stallo nella definizione e nel perseguimento di una soluzione che possa portare ad un equilibrio maggiore tra i vari interessi in gioco.
Il 9 maggio 1998 infatti, in seguito ad una operazione militare eritrea di rioccupazione di una piccola parte di territorio, che i confini ereditati dal periodo coloniale stabiliscono come facente parte dell’Eritrea, ma che per decenni è stata sotto la giurisdizione dell’amministrazione del Tigray, è scoppiato un conflitto con l’Etiopia che al momento non ha ancora trovato soluzione e che sta avendo tragiche ripercussioni sulla popolazione dei due paesi.  
La questione non si risolve solo in una semplice disputa di confine, ma è il risultato ultimo di anni di tensioni e contrasti che hanno visto i due paesi contrapposti su molte questioni chiave sul piano politico ed economico. Va considerato comunque qui, che il problema riguardante la definizione dei confini è fortemente legato alla rivendicazione di quelle che sono percepite come identità nazionali. Come fa notare lo storico Chelati Dirar (1998: 6) ciò è particolarmente importante per l’Eritrea, che all’indomani della colonizzazione, come abbiamo già visto, ha dovuto ricorrere alla lotta armata per poter raggiungere la propria indipendenza e che ha fondato il principio della propria identità nazionale, proprio sulla assoluta inviolabilità dei confini coloniali! Questo è un interessante primo punto che ci permette di evidenziare come l’identità sia sempre (soprattutto quando è ben identificata) costruita a tavolino! Per un paese che per trenta anni ha lottato per riuscire a liberarsi dall’amministrazione militare dell’Etiopia la perdita di un piccolo pezzo del suo territorio può compromettere la base della propria identità e mettere in discussione la sua stessa esistenza come entità statale! Il pericolo maggiore sta tuttavia nella volontà del governo etiope di “etnicizzare” il conflitto con conseguenze che, al di la della situazione attuale, potrebbero portare a tragici sviluppi nei prossimi decenni (Chelati Dirar 1998: 9). L’Etiopia, infatti, nel giugno del 1998 ha iniziato ad istallare campi di prigionia ad Addis Abeba e in zone vicine alla capitale per raccogliere a migliaia i cittadini eritrei o anche etiopi ma di origine eritrea.  
A ciò ha fatto seguito una massiccia espulsione di eritrei dall’Etiopia. Osserva ancora Chelati Dirar (1998: 10) che questa “etnicizzazione” forzata della guerra consiste nel tentativo politico di differenziare due popoli che da sempre sono uniti da legami profondi di convivenza anche culturale:
Questi provvedimenti, oltre a sconvolgere la vita di pacifici cittadini, rischiano di esasperare i toni del conflitto, cercando di introdurre differenziazioni impossibili tra popoli uniti da profondi vincoli: migrazioni, scambi commerciali, matrimoni rendono infatti estremamente difficile stabilire nette differenziazioni su base etnica. Ciò è particolarmente vero per i popoli del Tigrai e dell’altopiano eritreo, uniti dalla stessa lingua, da comuni tradizioni religiose e persino dalla stessa cucina.
Il tutto assume connotazioni involontariamente umoristiche se si pensa che persino il leader eritreo e quello etiopico, Issayas Afewerki e Melles Zenawi, hanno entrambi origini “miste”: tigrine per Issayas ed eritree per Melles.” (Chelati Dirar 1998: 10).
In questo contesto aumentano le possibilità che i vari gruppi cerchino di ricavarsi un proprio spazio e ciò è inevitabile soprattutto in Etiopia, dove il modello federale governativo basato sul principio etnico, pur se studiato per avvantaggiare la regione tigrina nell’assumere un ruolo preminente all’interno dell’entità statale, può condurre ad un dissolvimento dell’intero sistema in un insieme di entità regionali autonome e separate e ovviamente frantumate, tra tutti gli Afar pastori.

NOTE

1 “Fin dai tempi del Paleolitico fino a quasi la metà dell’era cristiana il Corno d’Africa fu abitato quasi esclusivamente da cacciatori e raccoglitori di razza boscimanoide.”

 
2 “(Dal 2000 al 1000 d.C.) Espansione verso sud dei cusciti dal sud dell’Etiopia verso la costa azaniana dell’Africa Orientale, che vanno ad occupare le regioni montane adatte ad un’agricoltura a terrazza, lasciando i boscimani cacciatori indigeni in possesso delle terre aride e inospitali del paese”.

 
3 I Galla sono una popolazione stanziata negli altipiani occidentali dell’Etiopia (regione del Wollega) dedita a pastorizia e agricoltura. Nella letteratura antropologica sono conosciuti anche con il nome Oromo. La loro organizzazione sociale è caratterizzata da un complicato sistema di classi d’età. All’interno dei vari gruppi “tribali” il potere viene garantito alle famiglie dalle quali proviene il cosiddetto “abba buka”, il possessore dello “scettro”, capo religioso e militare in carica per otto anni (“Dizionario di antropologia”, a cura di Ugo Fabietti e Francesco Remotti, Bologna 1997, Zanichelli Editore).

 
4 I Somali sono una popolazione in gran parte nomado-pastorale, stanziata negli attuali territori di Somalia, Eritrea, Etiopia e Kenya settentrionale. Simili agli Afar sotto molti aspetti di tipo socio-culturale, i Somali sono caratterizzati da una distinzione sociale fra i gruppi nomadi, dediti alla pastorizia, considerata l’attività più nobile e i gruppi stanziati nelle regioni meridionali della Somalia, fra i fiumi Shebeli e Gimba, che praticano l’agricoltura. (“Dizionario di antropologia” a cura di Ugo Fabietti e Francesco Remotti, Bologna 1997, Zanichelli editore). Sui Somali vedi gli studi di Lewis: “A pastoral democracy. A study of pastoralism and politics among the northern Somali of the Horn of Africa”, London 1961; “Peoples of the Horn of Africa – Somali, Afar and Saho”, London 1955.  

 
5 “Non c’è dubbio che Somali, Afar e Saho siano strettamente legati fra loro. Concordando con Cerulli essi appartengono, con i Galla, i Begia, alle genti cuscitiche del sud-est etiope. I Somali e Afar e gli Afar e i Saho hanno tradizioni di comuni origini nell’angolo nord-occidentale del Corno d’Africa.”
6
 
? I contatti degli egiziani con la regione etiopica divengono particolarmente frequenti quando in Egitto, dopo la conquista di Alessandro Magno, nasce la Dinastia ellenica dei Tolomei che inizia un movimento di espansione verso la Nubia e le coste del Mar Rosso
La dinastia dei Tolomei, da un grande impulso alle attività commerciali dell’Egitto e grazie alle numerose spedizioni di commercianti greco-egiziani verso le coste del Mar Rosso e nelle zone interne, possono entrare nel paese africano, influssi ellenico-egiziani, tra i quali una certa diffusione della lingua greca, ma anche motivi culturali e religiosi (Conti Rossini 1935: 13).

 
7 Secondo Pollera (1935:1) con l’eponimo “Terra di Punt” o “To-Neter” (Terra divina), gli egizi erano soliti indicare la fascia costiera dell’Africa orientale, cui si poteva accedere tramite il Mar Rosso, mentre le regioni più interne venivano dette “Terra di Neshe” o “Terra di Cush” .
Leclant (Annales d’Ethiopie, n. 11, 1978: 69-73) riferisce che Punt era inclusa nella regione detta “T’ntr”, “Terra degli Dei” situata a NE, E, SE dell’Egitto. Sempre secondo quanto riportato da Leclant, la regione è certamente bagnata dal Mar Rosso.

 
8 Secondo il resoconto riportato da Pollera (1935: 11) il nome Cush si riferisce anticamente, ad un’area dell’Africa Orientale, sita nel basso Egitto, corrispondente alla Nubia, ossia, pressappoco l’attuale Sudan. Anche nel Lexikon der Agyptologie (Vol III: 888-893, Band IV, Wierhoden 1982) la voce Kusch viene riportata come indicazione di un luogo a sud dell’Egitto e nominata per la prima volta durante il medio regno (M.R.) di Sesostrus I. Sempre dal Lexicon risulta che il più importante centro di questo regno risulta essere l’antica città di Meroe situata nella parte orientale del Nilo tra la quinta e la sesta cataratta, nell’attuale distretto di Shendi. Essa viene nominata in un iscrizione del VI sec. a.C. ma già prima fu parte di un antico regno nel Sudan settentrionale. Fra il 440 e il 350 a.C. la città di Meroe diviene capitale politica del regno di Cush, mentre l’altra importante città di Napata ne rappresenta il centro della vita religiosa (così in Pollera 1935: 11 e in Conti Rossini 1937: 27).
 
9 Attualmente Aksum è una cittadina dell’Etiopia settentrionale sita nel Tigré, 17 km ad ovest di Adua e a 2130 m sul mare, sull’orlo estremo di una vasta pianura. Da essa prende il nome il più antico regno nazionale abissino, il cosiddetto Regno di Aksum, che fiorì nei primi secoli dell’era volgare e durò sino al VII secolo d.C. Verso il IV secolo d.C. nel Regno di Aksum fu introdotto il Cristianesimo. Nel V secolo esso assunse la forma del monofisismo copto. Distrutta dalle armate di musulmani verso la metà del XVI secolo nel corso delle guerre religiose Aksum cessò di essere la capitale politica del regno abissino ma ne rimase la città santa. Ad Aksum venivano consacrati i Negus d’Etiopia (“re dei re”) nella cattedrale dedicata a Maria di Sion (IV secolo d.C., distrutta verso la metà del XVI secolo e ricostruita nel 1655) la più celebre chiesa etiopica (Piccola Enciclopedia Treccani, Roma 1990. Istituto dell’enciclopedia italiana).

 
10 Seguendo quanto sostenuto da Cuoq (1980: 40) e da Trimingham Spencer (1980) possiamo dire che, mentre nel Corno d’Africa l’Islam penetra fin dall’inizio anche nelle zone interne, avvalendosi della costituzione di numerose postazioni commerciali e di sultanati, nel resto dell’Africa orientale, l’islamizzazione rimane limitata alle sole città costiere fino al XIX secolo e solo con la colonizzazione europea riesce a penetrare anche nelle zone dell’interno.
 
11 Molte persone in passato, per sfuggire alla schiavitù, si dichiaravano musulmane e anche per questo l’Islam è penetrato con una certa facilità tra le popolazioni del deserto (Cuoq 1980: 53).

 
12 Gli Afar, in realtà, si sono mantenuti praticamente sempre indipendenti, anche se le tribù e i clan del centro-sud hanno riconosciuto a lungo, come loro capo intertribale, il sultano di Aussa. Anche le popolazioni abitanti nel nord della Dancalia sono state sempre autonome pur se nominalmente ricadevano sotto l’egemonia dei governanti del Tigrai.  

 
13 Le origini di Amhad Gran sono piuttosto oscure. Secondo Cuoq (1981: 220) il fatto che fosse chiamato “capo degli Adal” (popolazione Afar) fa supporre che avesse un’origine Afar. Una leggenda tigrina invece, ne fa il figlio di un prete copto abissino ucciso dagli etiopi per aver avuto delle relazioni con una donna musulmana (Cuoq 1981: 221).

 
14 L’interessamento dei portoghesi per l’Impero abissino, è iniziato verso la fine del XV secolo, dettato dal fatto di vedere in questo regno cristiano, un possibile alleato contro i musulmani (specie contro i Turchi). Lo scopo di varie spedizioni portoghesi però, è stato anche quello di convertire gli abissini al cristianesimo cattolico, cosa che in effetti si verificò, sotto la pressione di numerosi missionari gesuiti, ma che durò solo sei anni (dal 1626 al 1632) (Cuoq 1980: 211, 218).

 
15 Dietro l’incomprensione culturale degli europei nei confronti della realtà complessa africana vi è la forte componente pregiudiziale della “razza” intesa come condizionamento filogenetico irreversibile per l’identificazione di un popolo. Il nodo, come è noto, nasce verso la metà dell’ottocento dal famoso testo del conte De Goubineau, ma soprattutto dagli interventi di Chamberlain. Il “razzismo” biologico in etno-antropologia sarà successivamente capovolto dal relativismo della scuola americana di Boas e Herskovits. Vedi Lévi-Strauss “Razza e storia” Milano 1967, Il Saggiatore. Edizione originale “Razza e storia e altri studi di antropologia” Torino 1952, Einaudi.

 
16 I lazzaristi appartengono alla congregazione dei Padri della Missione fondata da San Vincenzo de’ Paoli nel 1625.

 
17 Fondata nell’XI secolo nei territori dell’attuale stato del Mali, Timbuctu fu mercato di schiavi, sale e oro. Più tardi divenne un importante centro di cultura islamica (Dizionario antropologico, a cura di Ugo Fabietti e Francesco Remotti, Bologna 1997).

 
18 Lo studio analitico di questo tipo di stampa potrebbe essere un interessante approfondimento per la storia della conoscenza e della rappresentazione dell’Africa in Europa.  
Alcune notizie sulla propaganda fatta da giornali e riviste specializzate e sul loro contributo alla mitizzazione delle figure degli esploratori europei nell’immaginario popolare sono riportate in Del Boca (1992) e in Surdich (1982).

 
19 Preciso che per la breve trattazione che segue sull’attività esplorativa italiana promossa dalle società geografiche e commerciali nella seconda metà dell’ottocento e sulle maggiori figure di esploratori italiani che operarono nei territori africani, ancora una volta traggo tutte le informazioni necessarie da Dainelli (1960), da Del Boca (1992).

 
20 Il Regno di Ghera, era sito nelle regioni sud-occidentale dell’Etiopia abitate dai Galla.

 
21 Per una descrizione dettagliata sui fatti che portarono alla tragica morte di Giuseppe Maria Giulietti rimando a Dainelli (1960: 387-392).  

 
22 Per le notizie di carattere storico traggo informazioni da Del Boca (1992), da Carlo Conti Rossini (1937) che analizza dettagliatamente tutto il percorso storico riguardante i rapporti italo-etiopici fino alla conquista dell’Etiopia nel 1935, e da George Lipsky (1962).

 
23 Per le notizie riportate in questo breve excursus di storia politica prendo spunto  principalmente dai seguenti testi di Angelo Del Boca cui rimando per ulteriori approfondimenti: “Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’impero”. Laterza, Roma-Bari 1979. – “Gli italiani in Africa Orientale. La caduta dell’impero” Laterza, Roma-Bari 1981 e “L’Africa nella coscienza degli italiani” Laterza, Roma-Bari 1992. Utili informazioni sulla storia della conquista dell’Etiopia si ritrovano anche nel testo di Carlo Conti Rossini “Etiopia e genti d’Etiopia” Firenze 1937. R. Bemporad & Co.

 
24 Gli ultimi censimenti risalgono agli anni che vanno dal 1994 al 1997 e sono approssimativi, sia per la difficoltà di censire una popolazione molto segmentata e sparsa su un vasto territorio, sia per le frequenti carestie e i recenti coinvolgimenti di parte della popolazione nel conflitto tra Etiopia ed Eritrea. Le stime comunque dichiarano che in Etiopia ci sono circa 450000 Afar, in Eritrea circa 300000 e in Gibuti 300000 (“Ethnologue: Ethiopia” via internet, City.Net).

 
25 I movimenti armati Afar sono: il FRUD (Fronte per la Restaurazione dell’Unità e della Democrazia); ARDU (Afar Revolutionary Democratic Union); ARDUF (Afar Revolutionary Democratic Unity Front); ALF (Afar Liberation Front). Il FRUD è il movimento di ribellione Afar più attivo, ma annovera tra le sue fila anche elementi di altre “etnie”. Dal 1991 al 1994 è stato impegnato in un conflitto armato con il governo di Gibuti. Al termine dello scontro una branca del Frud si è accordata con le autorità governative ottenendo un riconoscimento ufficiale come parte politica a tutti gli effetti, mentre la fazione armata del movimento (diretta da Ahmed Dini, esiliato in Francia) continua a reclamare un cambiamento radicale dell’intero establishment e prosegue la sua lotta con continui attentati e raid, proseguendo la sua azione anche nei territori di Etiopia ed Eritrea (Horn of Africa Bulletin maggio-giugno 1998; Le Courrier n° 174, marzo-aprile 1999: 18-19).  

 
26 La questione della costituzione di un’autonoma regione Afar, oltre a riflettere un piano studiato per anni da vari sultani, che prevedeva la creazione di quella che veniva chiamata “la grande Afaria”, va inserita nel contesto multietnico Etiope. Nel 1994, infatti, il governo d’Etiopia ha introdotto un modello federale basato sul principio etnico. Dietro a questo modello di federalismo in realtà, c’è soprattutto la volontà di favorire l’amministrazione regionale del Tigrai in modo che possa assumere una posizione di predominio nello stato e allo stesso tempo, che riesca ad eliminare le opposizioni (specie quei movimenti che storicamente avevano rappresentato la leadership del paese). Questo fatto però, oltre a provocare il malcontento di molte popolazioni,   ha anche scatenato, una corsa per accedere alle risorse dell’amministrazione centrale, con rivendicazioni di indipendenza o di autonomia regionale che potrebbero condurre ad un dissolvimento dello stato federale in una miriade di entità locali separate. Ed è in questo contesto che va inserita anche la rivendicazione di autonomia politica degli Afar (Chelati Dirar 1998).  

 
27 “L’autorità centrale opta per un compromesso con i giovani intellettuali raggruppati in seno ad un solo partito. Contrariamente ai capricci e alla demagogia del sultano Ali Mirah, questa élite Afar, che ha compreso la logica dello stato moderno, ha acquisito democraticamente delle responsabilità nella regione occupata. Così essa presenta al governo di Addis Abeba delle rivendicazioni sensate . Devota alla causa Afar questa élite si sforza di essere l’intermediaria tra lo stato etiope di cui essa è la rappresentante politica e i nomadi Afar che vuole appoggiare per uscire dall’impasse.”
Contatti e info
GIORGIO CINGOLANI
Via dei Bersaglieri, n. 5
62019 Recanati (MC) Italia
tel. (+39)3487401308
email: giorgiocingolani@gmail.com
COPYRIGHT
Licensed under Creative Common Attribution 4.0
Se volete utilizzate in forma non commerciale
il materiale fotografico o i testi presenti
in questo sito si prega di citare l'autore come forma
di rispetto e onestà intellettuale. Per un utilizzo commerciale
di tale materiale si prega di contattare l'autore.
Torna ai contenuti