CAPITOLO 1 - GIORGIO CINGOLANI Antropologo e Regista

GIORGIO CINGOLANI
Antropologo e Regista
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PRIMA PARTE
            Costruzione e resistenza dell’identità Afar

CAPITOLO  I
                             Chi sono gli Afar?

Anche se in realtà può risultare difficile oggi rispondere a questa domanda, “tradizionalmente” gli Afar sono descritti, quindi “percepiti” dallo sguardo antropologico, secondo lo schema che qui tracciamo. In tutti gli studi a loro dedicati, gli Afar sono qualificati come un popolo nomado-pastorale dedito all’allevamento quasi esclusivamente di cammelli, pecore e capre (in alcune zone sono diffusi anche alcuni bovini). Sono inclusi in quelle popolazioni del Corno d’Africa1 che gli studiosi denominano frequentemente con il termine “cuscitiche”2 (Lewis 1955; Puccioni, Grottanelli 1959). Attualmente il termine cuscitico ha prevalentemente valore linguistico. Nella seconda metà del XIX secolo il nome “cusciti” fu assunto per indicare il ramo orientale della grande famiglia etnolinguistica camitica a cui appartengono la maggior parte dei popoli d’Etiopia (Galla, Sidama, Agau, Afar), Somalia (Somali), parte di quelli dell’Eritrea (Bileni, Beni Amer, Saho) e i Begia del Sudan.
Il linguaggio parlato dall’insieme della popolazione che prendiamo in esame è l’Afar3, una “lingua etnica” non scritta e classificata nel gruppo linguistico basso-cuscitico. Come riferito dall’antropologo francese Didier Morin (1991: 4), la lingua parlata dagli Afar può essere divisa in un dialetto settentrionale e in uno meridionale tra i quali c’è una certa intercomprensione, ma che differiscono per alcuni tratti soprattutto lessicologici. La sua analisi linguistica mostra comunque, che nel corso dei secoli, si sono avuti complessi influssi e apporti esterni alla lingua Afar, diffusi attraverso tutta la regione e dovuti anche agli spostamenti migratori dei vari gruppi nel corso dei secoli, a causa dei quali oggi si può notare, ad esempio, una vicinanza maggiore tra il dialetto parlato nella penisola di Buri a nord e quello di Tagiura a sud, che non con quello di gruppi geograficamente più vicini (Morin 1991: 4).

I.1) Il contesto ambientale e il nomadismo pastorale

Gli Afar abitano la Dancalia, regione per lo più desertica dell’Africa orientale, sita tra il 12° e il 15° parallelo e compresa tra gli attuali territori di Etiopia, Eritrea e Gibuti (vedi cartina, appendice 1). Quest’area, dalla superficie di circa 150.000 km quadrati, ha la forma approssimativa di un triangolo delimitato dai seguenti confini naturali: ad est, dalle coste del Mar Rosso che si estendono da Massaua a nord, fino al Golfo di Tagiura (Repubblica di Gibuti) a sud; a nord-ovest, dal grande altopiano del Tigray con la catena montuosa del Sàmhara e a sud-ovest dal medio e alto corso del fiume Awash. Come riportato da Lewis (1955: 162), soltanto nelle zone con terre un po’ più fertili (soprattutto nei distretti di Badhu e Aussa lungo il fiume Awash), alcuni gruppi di Afar formano dei piccoli insediamenti stabili o semi-nomadici praticando, oltre alla pastorizia, anche alcune forme di rudimentale agricoltura. Tra quelli che invece vivono sulla costa, è abbastanza diffusa la pesca, mentre nella Dancalia settentrionale, e precisamente nel cosiddetto grande “Piano del sale” (Dagàd nella lingua degli Afar), nei pressi del lago salato di Assalè, una delle attività alle quali si dedicano maggiormente gli Afar, è quella dell’escavazione del sale in blocchi, che poi vengono (o venivano) venduti soprattutto nei mercati etiopi4. 
La Dancalia è la parte superiore di quello che geologicamente è noto come il Great Rift, grande sistema di fratture della crosta terrestre originatosi nel Pliocene, costituito da un insieme di faglie, fosse tettoniche e vulcaniche ed esteso fino all’Africa Australe.
Il suo territorio è estremamente arido ed è caratterizzato da una vasta depressione centrale desertica, in gran parte posta 120 m. sotto il livello del mare e costellata da vulcani e laghi salati5.
Il contesto ecologico e ambientale, influenza fortemente il modo e le condizioni di vita degli Afar. L’aridità delle terre in cui gli Afar vivono, li costringe a movimenti stagionali alla ricerca di pascoli e punti d’acqua migliori e ad una lotta continua per il possesso e la gestione delle scarse risorse, in competizione con gli altri gruppi6 con cui vengono in contatto nel corso degli spostamenti migratori.
Ne consegue che il diritto di pascolo su una certa area e quello di attingere ai pozzi d’acqua, dipendono dall’occupazione reale di quel determinato territorio e dalla capacità di difenderlo con la forza da attacchi esterni. Notevole importanza quindi, riveste la superiorità del potenziale di combattimento, che si risolve nel numero di maschi abili di un gruppo. Gli Afar hanno sempre mantenuto, nel loro territorio, un atteggiamento di estrema ostilità anche nei confronti dei tentativi di penetrazione straniera, soprattutto a partire dagli inizi dell’epoca delle esplorazioni europee del continente africano e hanno respinto e spesso annientato, gran parte delle spedizioni che si sono avventurate nella regione dancala (vedi Del Boca 1992 e Dainelli 1960). Possiamo dire che nel corso dei secoli, infatti, gli Afar hanno potuto preservare la loro identità principalmente proprio attraverso la pratica della guerra7, che ha permesso loro di mantenere una fiera indipendenza, pur nella mutevolezza dei vincoli di fedeltà politica che li ha fatti schierare di volta in volta su vari fronti, secondo i propri interessi nelle diverse situazioni in cui si trovavano coinvolti.
Gli Afar modellano la propria società quasi interamente in rapporto alle esigenze legate alle attività pastorali e il pastoralismo nomade rappresenta un forte fattore d’identità per loro. Tutti gli animali allevati sono scambiabili in natura e in denaro e rappresentano l’unità di misura di tutte le relazioni sociali tra gli Afar. Essi provvedono alle necessità alimentari fornendo carne, latte e burro e le loro pelli sono usate in varie maniere. Il possesso del bestiame inoltre, è fortemente legato ai vincoli di parentela agnatici e spesso determina l’ampliamento o il restringimento dei vari lignaggi nel corso delle generazioni (Lewis 1983). Tra gli animali che gli Afar allevano, il cammello è certamente quello più importante e prezioso e pur non essendo ritenuto un “animale sacro”, riveste, all’interno della società, un valore che va al di là della mera sussistenza e consumo (Lewis 1955 e 1983; Chailley 1980: 43). Esso rappresenta la più preziosa merce di scambio e viene utilizzato, sia per contrattare la dote per la sposa nei matrimoni, sia per calcolare l’ammontare delle riparazioni che servono a mettere fine a vendette di sangue e a conflitti sociali di vario genere. I cammelli hanno un grande valore economico e simbolico per gli Afar e la loro macellazione avviene solo per le pratiche più importanti (Lewis 1983). Allevare le mandrie di cammelli è un compito esclusivamente maschile (importante il fatto che le donne possono accudire solo le greggi di capre e pecore) e la cura di questi animali è affidata soprattutto ai giovani del gruppo, per i quali rappresenta una sorta d’iniziazione alla vita nomade8.

I.2) Strutturazione della società Afar

Tutti gli studiosi che hanno fornito resoconti sul popolo Afar, sono concordi nel descrivere la loro società come una struttura che ha un  sistema tribale stratificato e composito, centrato su relazioni di parentela e alleanze strategiche a scopo difensivo. In particolare, Lewis9 (1955: 163), descrive l’intera popolazione Afar come divisa in unità definibili con il vago concetto di “tribù”, che non fanno capo ad alcun sistema di governo centralizzato e che fanno risalire la propria discendenza agnatica ad un antenato comune, secondo una suddivisione incentrata sulla parentela. L’utilizzo del termine “tribù” merita una breve puntualizzazione basandoci su alcuni assunti che troviamo in Fabietti (1995: 56-58). In antropologia, dice Fabietti, il termine “tribù” viene utilizzato spesso per designare gruppi che fanno risalire la propria discendenza ad un unico antenato (reale o fittizio). Tuttavia nell’osservazione empirica dei fatti, i gruppi designati con questo termine mostrano di possedere istituzioni socio-culturali che li riconduce al di fuori dell’esistenza della tribù così come è comunemente definita. Perciò, continua Fabietti, il concetto di “tribù” è un sorta d’illusione. Di seguito conclude dicendo (1995: 60):
“…la tribù è un illusione non solo perché la nozione non ricopre ad una analisi attenta, tutte le possibili variabili empiriche che si offrono allo sguardo dell’antropologo. Ma lo è anche perché l’etnologia ha la tendenza a produrre delle tribù “tribalizzando” gruppi i quali non possiedono alcuna caratteristica che, oggettivamente o soggettivamente, possa essere considerata all’origine di una omogeneità sociale, culturale e linguistica come è appunto quella che viene normalmente attribuita ad una “tribù”.
Nel corso della nostra trattazione utilizzeremo il termine “tribù” al fine di rendere possibile l’elaborazione del discorso antropologico.
Al fine di evitare equivoci sulla natura di tali concetti teniamo presente le precisazioni che abbiamo appena fatto. Dopo questa breve digressione riprendiamo l’analisi delle unità sociali in cui si suddividono gli Afar osservando che l’affiliazione ai vari gruppi viene determinata sulla base della discendenza patrilineare e le divisioni tra di essi sono stabilite secondo le differenze di origine agnatica.
La “tribù” risulta quindi essere, come un’unità territoriale, con una struttura di lignaggio agnatizio raggruppante in maniera sciolta gruppi di parentela che hanno funzioni che possiamo definire “politiche” (Lewis 1955: 163). Spesso i gruppi sono formati da individui legati da discendenza patrilineare e dalle loro famiglie, per cui vengono a costituire una sorta di famiglia allargata. Ogni “tribù” è comandata da un capo la cui carica è a volte ereditaria e a volte elettiva e i cui poteri risultano vaghi e limitati da un’assemblea tribale (Lewis 1955: 16). Tutti gli studi sugli Afar che sono riuscito ad analizzare (e in particolare Franchetti 1930: 226; Lewis 1955: 155; Chailley 1980), riportano inoltre, la notizia di una suddivisione, possiamo dire, in due “classi”10 principali che attraversa per intero la loro società: gli cAsahyammàra (i Rossi), che sono considerati come la parte più nobile della popolazione Afar e gli cAdohyammàra (i Bianchi), che invece rappresentano quei gruppi che sono ritenuti comuni. L’origine di questa suddivisione è piuttosto controversa e ha dato adito a numerose ipotesi ma, secondo l’analisi recentemente fatta da Didier Morin (1991: 37) e su cui torneremo più avanti, essa non avrebbe una natura sociale e neanche territoriale (come sostenuto in  precedenti studi, come quelli sopra menzionati) e sarebbe invece legata a questioni di dominio politico, che hanno avuto origine verso gli inizi del XVIII secolo, nel corso della lotta accanita tra alcuni gruppi Afar, per il controllo della valle del fiume Awash. Altra nota sociale importante viene riferita da Lewis (1955: 166), secondo il quale la maggior parte delle “tribù” Afar sarebbero ordinate in classi d’età che rimandano alla ben nota articolazione fatta da Van Gennep (Les rites de passage, 1909). Lewis fornisce questa notizia basandosi, sia sui precedenti studi che riguardano gli Afar, sia sulla propria esperienza sul campo e la definisce come estremamente probabile. Sempre secondo Lewis (1955: 166) dal punto di vista del mantenimento dell’ordine interno, tutti gli individui facenti parte di una stessa classe di età, in caso di dispute dovrebbero sottostare all’autorità di un capo. Il sistema, comunque, non è stato ancora studiato in maniera approfondita.
Altro fattore determinante per la società Afar, anche se nonostante tutto di superficie, è stato l’Islam. La sua influenza sui territori e sulle popolazioni del Corno d’Africa non è stata solo simbolico-culturale, ma anche sociale. La propagazione dell’Islam ha fatto seguito alla penetrazione commerciale sud-arabica dalla costa africana del Mar Rosso verso le zone interne (Cuoq 1981). Questa sempre più forte presenza araba nella sfera economico-commerciale ha avuto degli sviluppi politici soprattutto nelle zone costiere africane del Mar Rosso, mentre nei territori dell’interno ha richiesto la presenza di personaggi che facessero da intermediari musulmani lungo le rotte di transito delle carovane di merci. Lo storico francese Joseph Cuoq (1981) osserva che a questo scopo sono stati creati, a partire dai secoli VIII e IX da parte degli immigrati sud-arabici, dei sultanati. Questi sultanati hanno costituito, con il tempo, dei forti punti di agglomeramento per le varie popolazioni nomado-pastorali del Corno d’Africa.
Per quanto riguarda gli Afar, essi hanno influito sulla loro società facendola passare da una situazione di estrema frammentarietà, ad una condizione di società più accentrata. Questo soprattutto in quelle zone dove sono sorti dei sultanati molto potenti come, ad esempio, quello di Aussa (XVI sec.) che ha avuto a lungo il dominio su tutta la parte meridionale della Dancalia. Molti dei sultanati sorti sul territorio degli Afar, comunque, nonostante la loro importanza, hanno avuto una struttura piuttosto debole e non sono mai riusciti ad esercitare uno stretto controllo sui vari gruppi nomadi di Afar, che hanno sempre mantenuto un certo grado d’indipendenza nei loro confronti (Cuoq 1981).
Rimando ad un capitolo a parte l’analisi del rapporto tra l’accoglimento superficiale della religione islamica da parte degli Afar e la situazione del simbolico-culturale della prassi religiosa precedente l’islamizzazione.

Note
1 Per Corno d’Africa s’intende quell’area dell’Africa Orientale definita entro i confini naturali del Mar Rosso, dell’Oceano Indiano, del bacino del Nilo, degli altopiani e delle grandi catene montuose dell’Africa dell’est. Questa zona comprende i territori di Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia e parte del Sudan (Fukui, Markakis 1994: 1).

2 Il termine “cusciti” deriverebbe dall’ebraico Kush, primogenito di Cam. Secondo la tradizione biblica egli sarebbe il progenitore di Arabi del Sud, Etiopi, Egizi, Cananei e Camiti (Cusciti). Tuttavia da un punto di vista storico con questo termine si è soliti designare un popolo antico dell’Africa nord-orientale che ebbe le sue sedi nelle regioni a sud dell’Alto Egitto e che diede origine verso l’anno 1000 a.C. ad un regno indipendente con un proprio re e con capitale prima a Napata e poi a Meroe (vedi capitolo 2).

3 Il linguaggio parlato dagli Afar ha una stretta somiglianza con la lingua dei Saho, popolazione che confina a nord ovest con gli Afar (Morin 1991).

4 I riferimenti sull’attività di pesca e su quella di escavazione del sale praticate da alcuni gruppi di Afar, sono riportati già nei resoconti di viaggiatori e studiosi italiani dell’inizio del XX secolo, in particolare Odorizzi (1909) e Conti Rossini (1913), e ricorrono in tutti gli studi monografici dedicati agli Afar, tra i quali Lewis (1955) e Chailley (1981).

5 Circa tre milioni di anni fa, la Dancalia era completamente sommersa dal mare. Successivi sommovimenti geologici e in particolare vulcanici, la isolarono dal mare e le acque rimaste racchiuse all’interno evaporarono lentamente, lasciando il territorio ricoperto per vasti tratti, da incrostazioni saline, come testimonia l’esteso “Piano del Sale” sito nella Dancalia centro-settentrionale.
6 Gli Afar confinano con le seguenti popolazioni: a sud con gli Issa Somali e con gli Ittu Galla; ad ovest con i Wallo, Yaju e Raya Galla; a nord-est con i Saho (Lewis, 1955: 155).

7 In questo senso gli Afar si inseriscono nel cosiddetto gruppo dei “tribal warriors” come, ad esempio, gli Yanomani del Brasile studiati da Chagnon (“Yanomamo, the fierce people”, New York 1968 e “Studying the Yanomamo, New York 1974).         

8 E’ ciò che scaturisce dagli studi di Evans-Pritchard sui Nuer : “I Nuer: a description of the modes of livelihood and political institutions of a nilotic people”, London 1940, (traduzione italiana, “I Nuer: un’anarchia ordianata”, Milano 1985, Franco Angeli editore) e da quello effettuato da Joan M. Lewis sui Somali: “Una democrazia pastorale”, Milano 1983 (ediz. originale 1961).

9 Su questo punto si possono trarre utili osservazioni anche dallo studio che Lewis dedica ai Somali (1983) in cui analizza in maniera più approfondita questo schema di suddivisione in gruppi di parentela. Ciò per via delle numerose analogie socio-culturali che legano Somali e Afar, che permettono di effettuare un certo raffronto tra le due popolazioni.

10 Per la binarietà come semplice sistema di divisione vedi Durkheim E. e Mauss M., “Essai sur quelques formes primitives de classification” “L’année sociologique”, vol. 6, 1901-1902.
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