PRIMA PARTE
Costruzione e resistenza dell’identità
Afar
CAPITOLO I
Chi
sono gli Afar?
Anche se in
realtà può risultare difficile oggi rispondere a questa domanda,
“tradizionalmente” gli Afar sono descritti, quindi “percepiti”
dallo sguardo antropologico, secondo lo schema che qui tracciamo. In
tutti gli studi a loro dedicati, gli Afar sono qualificati
come un popolo nomado-pastorale dedito all’allevamento quasi
esclusivamente di cammelli, pecore e capre (in alcune zone sono
diffusi anche alcuni bovini). Sono inclusi in quelle popolazioni del
Corno d’Africa1 che gli studiosi denominano frequentemente con il termine
“cuscitiche”2
(Lewis 1955; Puccioni, Grottanelli 1959). Attualmente il termine
cuscitico ha prevalentemente valore linguistico. Nella seconda metà
del XIX secolo il nome “cusciti” fu assunto per indicare il ramo
orientale della grande famiglia etnolinguistica camitica a cui
appartengono la maggior parte dei popoli d’Etiopia (Galla, Sidama,
Agau, Afar), Somalia (Somali), parte di quelli dell’Eritrea
(Bileni, Beni Amer, Saho) e i Begia del Sudan.
Il linguaggio
parlato dall’insieme della popolazione che prendiamo in esame è
l’Afar3,
una “lingua etnica” non scritta e classificata nel gruppo
linguistico basso-cuscitico. Come riferito dall’antropologo
francese Didier Morin (1991: 4), la lingua parlata
dagli Afar può essere divisa in un dialetto settentrionale e in uno meridionale tra i quali c’è una certa
intercomprensione, ma che differiscono
per alcuni tratti soprattutto lessicologici. La sua analisi linguistica mostra
comunque, che nel corso dei secoli, si sono avuti complessi influssi
e apporti esterni alla lingua Afar, diffusi attraverso tutta la
regione e dovuti anche agli spostamenti migratori dei vari gruppi nel
corso dei secoli, a causa dei quali oggi si può notare, ad esempio,
una vicinanza maggiore tra il dialetto parlato nella penisola di Buri
a nord e quello di Tagiura a sud, che non con quello di gruppi
geograficamente più vicini (Morin 1991: 4).
I.1) Il contesto
ambientale e il nomadismo pastorale
Gli Afar abitano
la Dancalia, regione per lo più desertica dell’Africa orientale,
sita tra il 12° e il 15° parallelo e compresa tra gli attuali
territori di Etiopia, Eritrea e Gibuti (vedi cartina, appendice 1).
Quest’area, dalla superficie di circa 150.000 km quadrati, ha la
forma approssimativa di un triangolo delimitato dai seguenti confini
naturali: ad est, dalle coste del Mar Rosso che si estendono da
Massaua a nord, fino al Golfo di Tagiura (Repubblica di Gibuti) a
sud; a nord-ovest, dal grande altopiano del Tigray con la catena
montuosa del Sàmhara e a sud-ovest dal medio e alto corso del fiume
Awash. Come riportato da Lewis (1955: 162), soltanto nelle zone con
terre un po’ più fertili (soprattutto nei distretti di Badhu e
Aussa lungo il fiume Awash), alcuni gruppi di Afar formano dei
piccoli insediamenti stabili o semi-nomadici praticando, oltre alla
pastorizia, anche alcune forme di rudimentale agricoltura. Tra quelli
che invece vivono sulla costa, è
abbastanza diffusa la pesca, mentre nella Dancalia settentrionale, e
precisamente nel cosiddetto grande “Piano del sale” (Dagàd nella
lingua degli Afar), nei pressi del lago salato di Assalè, una delle
attività alle quali si dedicano maggiormente gli Afar, è quella
dell’escavazione del sale in blocchi, che poi vengono (o venivano)
venduti soprattutto nei mercati etiopi4.
La Dancalia è la parte superiore di quello che
geologicamente è noto come il Great Rift, grande sistema di fratture
della crosta terrestre originatosi nel Pliocene, costituito da un
insieme di faglie, fosse tettoniche e vulcaniche ed esteso fino
all’Africa Australe.
Il suo
territorio è estremamente arido ed è caratterizzato da una vasta
depressione centrale desertica, in gran parte posta 120 m. sotto il
livello del mare e costellata da vulcani e laghi salati5.
Il contesto
ecologico e ambientale, influenza fortemente il modo e le condizioni
di vita degli Afar. L’aridità delle terre in cui gli Afar vivono,
li costringe a movimenti stagionali alla ricerca di pascoli e punti
d’acqua migliori e ad una lotta continua per il possesso e la
gestione delle scarse risorse, in competizione con gli altri gruppi6
con cui vengono in contatto nel corso degli spostamenti migratori.
Ne consegue che
il diritto di pascolo su una certa area e quello di
attingere ai pozzi d’acqua, dipendono dall’occupazione reale di quel
determinato territorio e dalla capacità di difenderlo con la forza
da attacchi esterni. Notevole importanza quindi, riveste la
superiorità del potenziale di combattimento, che si risolve nel
numero di maschi abili di un gruppo. Gli Afar hanno sempre mantenuto,
nel loro territorio, un atteggiamento di estrema ostilità anche nei
confronti dei tentativi di penetrazione straniera, soprattutto a
partire dagli inizi dell’epoca delle esplorazioni europee del
continente africano e hanno respinto e spesso annientato, gran parte
delle spedizioni che si sono avventurate nella regione dancala (vedi
Del Boca 1992 e Dainelli 1960). Possiamo dire che nel corso dei
secoli, infatti, gli Afar hanno potuto preservare la loro identità
principalmente proprio attraverso la pratica della guerra7,
che ha permesso loro di mantenere una fiera indipendenza, pur nella
mutevolezza dei vincoli di fedeltà politica che li ha fatti
schierare di volta in volta su vari fronti, secondo i propri
interessi nelle diverse situazioni in cui si trovavano coinvolti.
Gli Afar
modellano la propria società quasi interamente in rapporto alle
esigenze legate alle attività pastorali e il pastoralismo nomade
rappresenta un forte fattore d’identità per loro. Tutti gli
animali allevati sono scambiabili in natura e in denaro e
rappresentano l’unità di misura di tutte le relazioni sociali tra
gli Afar. Essi provvedono alle necessità alimentari fornendo carne,
latte e burro e le loro pelli sono usate in varie maniere. Il
possesso del bestiame inoltre, è fortemente
legato ai vincoli di parentela agnatici e spesso determina l’ampliamento o il restringimento dei vari
lignaggi nel corso delle generazioni (Lewis 1983). Tra gli animali
che gli Afar allevano, il cammello è certamente quello più
importante e prezioso e pur non essendo ritenuto un “animale
sacro”, riveste, all’interno della società, un valore che va al
di là della mera sussistenza e consumo (Lewis 1955 e 1983; Chailley
1980: 43). Esso rappresenta la più preziosa merce di scambio e viene
utilizzato, sia per contrattare la dote per la sposa nei matrimoni,
sia per calcolare l’ammontare delle riparazioni che servono a
mettere fine a vendette di sangue e a conflitti sociali di vario
genere. I cammelli hanno un grande valore economico e simbolico per
gli Afar e la loro macellazione avviene solo per le pratiche più
importanti (Lewis 1983). Allevare le mandrie di cammelli è un
compito esclusivamente maschile (importante il fatto che le donne
possono accudire solo le greggi di capre e pecore) e la cura di
questi animali è affidata soprattutto ai giovani del gruppo, per i
quali rappresenta una sorta d’iniziazione alla vita nomade8.
I.2) Strutturazione della società Afar
Tutti gli
studiosi che hanno fornito resoconti sul popolo Afar, sono concordi
nel descrivere la loro società come una struttura che ha un sistema
tribale stratificato e composito, centrato su relazioni di parentela
e alleanze strategiche a scopo difensivo. In particolare, Lewis9
(1955: 163), descrive l’intera popolazione Afar come divisa in
unità definibili con il vago concetto di “tribù”, che non fanno
capo ad alcun sistema di governo centralizzato e che fanno risalire
la propria discendenza agnatica ad un antenato comune, secondo una
suddivisione incentrata sulla parentela. L’utilizzo del termine
“tribù” merita una breve puntualizzazione basandoci su alcuni
assunti che troviamo in Fabietti (1995: 56-58). In antropologia, dice
Fabietti, il termine “tribù” viene utilizzato spesso per
designare gruppi che fanno risalire la propria discendenza ad un
unico antenato (reale o fittizio). Tuttavia nell’osservazione
empirica dei fatti, i gruppi designati con questo termine mostrano di
possedere istituzioni socio-culturali che li riconduce al di fuori
dell’esistenza della tribù così come è comunemente definita.
Perciò, continua Fabietti, il concetto di “tribù” è un sorta
d’illusione. Di seguito conclude dicendo (1995: 60):
“…la
tribù è un illusione non solo perché la nozione non ricopre ad una
analisi attenta, tutte le possibili variabili empiriche che si
offrono allo sguardo dell’antropologo. Ma lo è anche perché
l’etnologia ha la tendenza a produrre delle tribù “tribalizzando”
gruppi i quali non
possiedono alcuna caratteristica che, oggettivamente o
soggettivamente, possa essere considerata all’origine di una
omogeneità sociale, culturale e linguistica come è appunto quella
che viene normalmente attribuita ad una “tribù”.
Nel corso della
nostra trattazione utilizzeremo il termine “tribù” al fine di
rendere possibile l’elaborazione del discorso antropologico.
Al fine di evitare
equivoci sulla natura di tali concetti teniamo presente le
precisazioni che abbiamo appena fatto. Dopo questa breve digressione
riprendiamo l’analisi delle unità sociali in cui si suddividono
gli Afar osservando che l’affiliazione ai vari gruppi viene
determinata sulla base della discendenza patrilineare e le divisioni
tra di essi sono stabilite secondo le differenze di origine agnatica.
La “tribù”
risulta quindi essere, come un’unità territoriale, con una
struttura di lignaggio agnatizio raggruppante in maniera sciolta
gruppi di parentela che hanno funzioni che possiamo definire
“politiche” (Lewis 1955: 163). Spesso i gruppi sono formati da
individui legati da discendenza patrilineare e dalle loro famiglie,
per cui vengono a costituire una sorta di famiglia allargata. Ogni
“tribù” è comandata da un capo la cui carica è a volte
ereditaria e a volte elettiva e i cui poteri risultano vaghi e
limitati da un’assemblea tribale (Lewis 1955: 16). Tutti gli
studi sugli Afar che sono riuscito ad analizzare (e in particolare
Franchetti 1930: 226; Lewis 1955: 155; Chailley 1980), riportano
inoltre, la notizia di una suddivisione, possiamo dire,
in due “classi”10
principali che attraversa per intero la loro società: gli
cAsahyammàra
(i Rossi), che sono considerati come la parte più nobile della
popolazione Afar e gli cAdohyammàra
(i Bianchi), che invece rappresentano quei gruppi che sono ritenuti
comuni. L’origine di questa suddivisione è piuttosto controversa e
ha dato adito a numerose ipotesi ma, secondo l’analisi recentemente
fatta da Didier Morin (1991: 37) e su cui torneremo più avanti, essa
non avrebbe una natura sociale e neanche territoriale (come sostenuto
in precedenti studi, come quelli sopra menzionati) e sarebbe invece
legata a questioni di dominio politico, che hanno avuto origine verso
gli inizi del XVIII secolo, nel corso della lotta accanita tra alcuni
gruppi Afar, per il controllo della valle del fiume Awash. Altra nota
sociale importante viene riferita da Lewis (1955: 166), secondo il
quale la maggior parte delle “tribù” Afar sarebbero ordinate in
classi d’età che rimandano alla ben nota articolazione fatta da
Van Gennep (Les rites de passage, 1909). Lewis fornisce questa
notizia basandosi, sia sui precedenti studi che riguardano gli Afar,
sia sulla propria esperienza sul campo e la definisce come
estremamente probabile. Sempre secondo Lewis (1955: 166) dal punto di
vista del mantenimento dell’ordine interno, tutti gli individui
facenti parte di una stessa classe di età, in caso di dispute
dovrebbero sottostare all’autorità di un capo. Il sistema,
comunque, non è stato ancora studiato in maniera approfondita.
Altro fattore
determinante per la società Afar, anche se nonostante tutto di
superficie, è stato l’Islam. La sua influenza sui territori e
sulle popolazioni del Corno d’Africa non è stata solo
simbolico-culturale, ma anche sociale. La propagazione dell’Islam
ha fatto seguito alla penetrazione commerciale sud-arabica dalla
costa africana del Mar Rosso verso le zone interne (Cuoq 1981).
Questa sempre più forte presenza araba nella sfera
economico-commerciale ha avuto degli sviluppi politici soprattutto
nelle zone costiere africane del Mar Rosso, mentre nei territori
dell’interno ha richiesto la presenza di personaggi che facessero
da intermediari musulmani lungo le rotte di transito delle carovane
di merci. Lo storico francese Joseph Cuoq (1981) osserva che a questo
scopo sono stati creati, a partire dai secoli VIII e IX da parte
degli immigrati sud-arabici, dei sultanati. Questi sultanati hanno
costituito, con il tempo, dei forti punti di agglomeramento per le
varie popolazioni nomado-pastorali del Corno d’Africa.
Per quanto riguarda
gli Afar, essi hanno influito sulla loro società facendola passare
da una situazione di estrema frammentarietà, ad una condizione di
società più accentrata. Questo soprattutto in quelle zone dove sono
sorti dei sultanati molto potenti come, ad esempio, quello di Aussa
(XVI sec.) che ha avuto a lungo il dominio su tutta la parte
meridionale della Dancalia. Molti dei sultanati sorti sul territorio
degli Afar, comunque, nonostante la loro importanza, hanno avuto una
struttura piuttosto debole e non sono mai riusciti ad esercitare uno
stretto controllo sui vari gruppi nomadi di Afar, che hanno sempre
mantenuto un certo grado d’indipendenza nei loro confronti (Cuoq
1981).
Rimando ad un capitolo
a parte l’analisi del rapporto tra l’accoglimento superficiale
della religione islamica da parte degli Afar e la situazione del
simbolico-culturale della prassi religiosa precedente
l’islamizzazione.
Note
1
Per Corno d’Africa s’intende
quell’area dell’Africa Orientale definita entro i confini
naturali del Mar Rosso, dell’Oceano Indiano, del bacino del Nilo,
degli altopiani e delle grandi catene montuose dell’Africa
dell’est. Questa zona comprende i territori di Etiopia, Eritrea,
Gibuti, Somalia e parte del Sudan (Fukui, Markakis 1994: 1).
2
Il termine “cusciti” deriverebbe dall’ebraico Kush,
primogenito di Cam. Secondo la tradizione biblica egli sarebbe il
progenitore di Arabi del Sud, Etiopi, Egizi, Cananei e Camiti
(Cusciti). Tuttavia da un punto di vista storico con questo termine
si è soliti designare un popolo antico dell’Africa nord-orientale
che ebbe le sue sedi nelle regioni a sud dell’Alto Egitto e che
diede origine verso l’anno 1000 a.C. ad un regno indipendente con
un proprio re e con capitale prima a Napata e poi a Meroe (vedi
capitolo 2).
3
Il linguaggio parlato dagli Afar ha una stretta
somiglianza con la lingua dei Saho, popolazione che confina a nord
ovest con gli Afar (Morin 1991).
4
I riferimenti sull’attività di pesca e su quella di
escavazione del sale praticate da alcuni gruppi di Afar, sono
riportati già nei resoconti di viaggiatori e studiosi italiani
dell’inizio del XX secolo, in particolare Odorizzi (1909) e Conti
Rossini (1913), e ricorrono in tutti gli studi monografici dedicati
agli Afar, tra i quali Lewis (1955) e Chailley (1981).
5
Circa tre milioni di anni fa, la Dancalia era completamente sommersa
dal mare. Successivi sommovimenti geologici e in particolare
vulcanici, la isolarono dal mare e le acque rimaste racchiuse
all’interno evaporarono lentamente, lasciando il territorio
ricoperto per vasti tratti, da incrostazioni saline, come testimonia
l’esteso “Piano del Sale” sito nella Dancalia
centro-settentrionale.
6
Gli Afar confinano con le seguenti popolazioni: a sud con gli Issa
Somali e con gli Ittu Galla; ad ovest con i Wallo, Yaju e Raya
Galla; a nord-est con i Saho (Lewis, 1955: 155).
7
In questo senso gli Afar si inseriscono nel cosiddetto gruppo
dei “tribal warriors” come, ad esempio, gli Yanomani del Brasile
studiati da Chagnon (“Yanomamo, the fierce people”, New York
1968 e “Studying the Yanomamo, New York 1974).
8
E’ ciò
che scaturisce dagli studi di Evans-Pritchard sui Nuer : “I Nuer:
a description of the modes of livelihood and political institutions
of a nilotic people”, London 1940, (traduzione italiana, “I
Nuer: un’anarchia ordianata”, Milano 1985, Franco Angeli
editore) e da quello effettuato da Joan M. Lewis sui Somali: “Una
democrazia pastorale”, Milano 1983 (ediz. originale 1961).
9
Su questo punto si possono trarre utili osservazioni anche
dallo studio che Lewis dedica ai Somali (1983) in cui analizza in
maniera più approfondita questo schema di suddivisione in gruppi di
parentela. Ciò per via delle numerose analogie socio-culturali che
legano Somali e Afar, che permettono di effettuare un certo
raffronto tra le due popolazioni.
10
Per la binarietà come semplice sistema di divisione vedi
Durkheim E. e Mauss M., “Essai sur quelques formes primitives de
classification” “L’année sociologique”, vol. 6, 1901-1902.